Anno Accademico 2016-2017

Vol. 61, n° 4, Ottobre - Dicembre 2017

Conferenza: Perché il cardiologo ha bisogno dell’arte

06 giugno 2017

copertina_esempio.jpg

Versione PDF dell'articolo: Download

Perché il cardiologo ha bisogno dell’arte

B. Domenichelli

È frequente che i medici si dedichino alla pittura o alla musica o che, in segreto, scrivano poesie. Nell’usurante contatto quotidiano con la sofferenza, la creazione artistica è infatti per il medico una necessità dello spirito, in un faticoso equilibrio interiore fra scienza e umanità, fra concretezza e immaginazione.

Ciò è forse particolarmente vero per il cardiologo, a causa della drammaticità e della ricchezza del suo specifico vissuto professionale, che stimola una più profonda capacità introspettiva e che può avvicinarlo alle radici della creatività artistica. Ed anche per la particolare vivacità dell’immaginario collettivo del cuore, come parola-simbolo privilegiata dalle Arti, da sempre metafora di vita e di morte. Metafore alle quali letteratura ed arti figurative ricorrono da sempre, come magici catalizzatori per esprimere sentimenti e passioni.

Entrare in risonanza con la ricchezza dell’immaginario del cuore, è per il cardiologo alimento inconscio nella comprensione dei sensi dell’esistenza e stimolo per l’amore per le Arti.

All’immaginario collettivo del cuore attingono inconsciamente anche i cardiopatici, nelle rappresentazioni mentali delle loro malattie, colorandolo delle personali esperienze. Un immaginario denso di significati inquietanti, segno della drammaticità di un vissuto di malattia la cui analisi non può essere estranea ai compiti del cardiologo.

Se il cardiologo ama l’Arte, è anche vero che l’Arte predilige il cuore, alla cui immagine ricorre spesso come simbolo polivalente di stati d’animo.

Fare Arte, poesia, non è necessariamente esplicita produzione creativa, da tradurre sulle tele o nei versi, ma soprattutto modo di essere dell’animo, di vivere, di sentire.

Per il medico, questo contatto con l’Arte significa compensare solitudini vissute troppo spesso nell’impotenza nei confronti del male. Per creare, innanzitutto per se stessi, segni di armonia, rifugi dell’anima quando si è stanchi di immagini di vite prossime al tramonto, di corpi senza più pensiero, di pensieri senza più voce.

Fare Arte, fare poesia è comunque ricerca di senso da parte del medico che ha quotidiana esperienza della vulnerabilità dell’uomo e della fragilità del suo cuore. E’ necessità interiore di costruire ordinate forme di bellezza, da contrapporre al disordine e alla devastazione della malattia; di dar vita ad architetture capaci di tendere al cielo.

Fare Arte, poesia, è atto di “poiesis”. Secondo l’etimo greco, “poietès”, significa “artefice, creatore”. In un atto di autentica creatività, fare Arte significa ri-partecipare al disegno della Creazione.

Fare Arte è anche desiderio di condividere con chi ascolta, le scoperte delle nostre esplorazioni dell’animo, affinché l’uomo riscopra il cuore e recuperi emozioni inaridite. Affinché l’uomo riscopra l’uomo e i motivi per amarlo.

Per il cardiologo, trascinato al disincanto e al distacco dall’apparente onnipotenza  della sua tecnologia, fare Arte è capacità di meravigliarsi ancora  per una goccia che cade sull’acqua e di coglierne un messaggio personale di vita, venuto da chissà dove. Di commuoversi ancora per il sorriso di un malato guarito, per un grazie sussurrato nel pianto, alle porte di un’unità coronarica.

Fare Arte è per il medico anche autopsicoterapia: contro l’usura interiore che ogni giorno brucia una parte della propria anima, stritolato dalle farragini delle “normative” assistenziali, dalla solitudine operativa e dall’impotenza di fronte a una sofferenza che ogni giorno vediamo rinnovarsi, come un drago invincibile dalle mille teste.

Vivere la dimensione “poetica” del mondo, per chi assiste ogni giorno ai drammi di un’unità coronarica, è per il cardiologo tentare esorcismi contro la morte, alla quale alcuni pensano troppo, perché l’avvertono sempre vicina, e a cui altri si rifiutano di pensare, nell’illusione inconscia di rimandare l’incontro.

       Fare Arte è capacità di esplorare l’irrazionale dello spirito, per liberare l’inconscio dai fantasmi di morte, in agguato sulla scena dell’esperienza quotidiana, e ridare loro vita più serena in leggibili momenti di chiarezza. E’ catarsi dalle insinuanti angosce che incombono  sulla serenità del vivere. Fare Arte è anche per il medico scoprire in se stesso iridescenze di colori, nel grigio della realtà; filo diretto con l’inconscio, necessità di scandagliare i propri abissi, nella speranza di ritrovarvi l’illuminazione intravista oltre la superficie della routine, nella quotidiana esperienza con la Vita e con la Morte.

       Fare Arte significa assistere docili al flusso spontaneo di emozioni, che sale dalla profondità dell’Io ed emerge alla luce. E nel contempo significa essere messaggeri di un altrove solo intuito, affacciati pieni di stupore  su una notte stellata.

Fare Arte è talora, per il medico, compensazione a deserti di affetti familiari, paradossalmente inariditi a causa di una vita troppo intensivamente dedicata agli altri.

Fare Arte è per il medico strumento privilegiato di comunicazione fra sconosciuti, magico incontro di soggettività altrimenti estranee; mezzo inconsapevole di eticità, quindi: percezione della grandezza interiore dell’uomo, capacità di superare la finitezza dell’immanenza. Disposizione interiore alla poesia è per il medico anche virtù professionale, perché consente di valicare i limiti di un approccio organicistico e tecnologico al malato, verso un rapporto ricco di sensi, capace di aprire le porte a nuove sintonie. Poesia è allora trovare le parole giuste, le metafore significanti per suscitare nel malato risonanze interiori che stemperino l’ansia di devastanti solitudini. L’animo si apre allora a percepire nel malato i segni di ciò che un occhio quotidiano non vede, perché mascherato dall’ansia. Fare Arte è dunque per il medico anche “ars curandi”, empatia, capacità di aprire spiragli sull’universo soggettivo di un’aritmia o sulle sfuggenti cause di una crisi ipertensiva, che hanno spesso radici profonde nell’animo.

Scriveva il poeta Ungaretti, anch’egli cardiopatico: “Reggo il mio cuore che s’incaverna e schianta”.  Per il medico per il quale la poesia è modo di vivere, sarà più facile far sì che il cardiopatico non rimanga solo, nei momenti in cui avverte il suo cuore che “s’incaverna e schianta”.

Fare esperienza dell’Arte è comunque, per tutti, recupero di ideali lungo le vie delle categorie eterne dello spirito; alla ricerca dei sensi della vita, di speranze spesso deluse, del recupero di energie interiori consumate dal tempo e dal pianto, del benessere fisico e spirituale di un Eden perduto.