Dott. Andrea Baiocchini

U.O.C. Chirurgia dei Trapianti, P.O.I.T., A.O. San Camillo-Forlanini, Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2018-2019

Vol. 63, n° 4, Ottobre - Dicembre 2019

Conferenza: La peste di Atene: tra Medicina e storia delle religioni

07 maggio 2019

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La peste di Atene: tra Medicina e storia delle religioni

A. Baiocchini

“Tucidide Ateniese ha narrato la guerra tra i Peloponnesiaci e gli Ateniesi. Si mise all’opera subito, ai primi sintomi, immaginando che sarebbe stata grande e la più memorabile rispetto a tutte le precedenti …". La guerra del Peloponneso fu un evento davvero memorabile, Tucidide nelle sue Ιστoρίαι, come la chiamarono i grammatici e come andrebbe correttamente chiamata la sua opera, ne narra le vicende, i fatti, “vagliando il più possibile scrupolosamente gli eventi” sia quelli di cui era stato direttamente testimone sia quelli appresi da altri. Questo rende Tucidide, a detta di numerosi studiosi, il massimo storico dell’antichità; egli è “unübertrefflich” (insuperabile) e “nessuno può avere la pretesa di essere uno storico più grande di (lui)”. Lo storico ateniese, pur se fondamentale, non è tuttavia l’unica fonte per la guerra del Peloponneso, e non sembrerebbe essere così imparziale nel riportare i fatti, facendo trasparire, il suo essere ateniese, la sua stima per Pericle e la particolare avversione per Cleone che assumerà la leadership alla morte di Pericle. Sappiamo che l’opera di Tucidide termina con il 411 e che verrà poi ripresa da Senofonte nelle sue Elleniche. Senofonte potrebbe, addirittura, essere l’estensore del cosiddetto “secondo proemio” (libro V. 26) ed è molto probabile che i due si siano incontrati ad Anfipoli, quando Senofonte era di ritorno dall’Asia con Agesilao nell’anno 394. Tucidide era ancora lì? Certamente c’è connessione tra le opere di Tucidide e Senofonte, esse sembrano indissolubilmente intrecciate. Altre fonti della guerra del Peloponneso sono rappresentate dalle Vite di Plutarco, che però scriverà su notizie di seconda e terza mano, in cui troviamo le biografie di Pericle, Alcibiade, Lisandro e Nicia; dalle commedie di Aristofane e dalle tragedie di Euripide, queste ultime due fonti sono importanti per comprendere il clima politico, sociale e spirituale del periodo storico. L’importanza di tale evento travalica la storia greca, le forze coinvolte nello scontro, comprendenti anche l’Impero Persiano e la Magna Grecia, lo resero un evento di portata universale, “una svolta decisiva nella storia del mondo antico”. Il conflitto scoppiò all’apice della grecità classica, nell’età di Pericle, e le sue conseguenze furono devastanti sia a livello politico, sia economico, sia sociale. In un certo senso fu l’inizio della fine della Polis ellenica e dell’Ellade come potenza politica. Chi lo vinse? Gli storici sono concordi nel ritenere che non fu certo Sparta, bensì l’impero persiano, spostando in questo modo il baricentro del mondo antico ai confini della Grecia, da un lato verso Oriente, dall’altro verso Occidente e la Magna Grecia. Fu un conflitto sconvolgente, l’odio e le crudeltà perpetrate contro gli abitanti inermi delle città occupate, lasciarono visibili tracce nell’uomo greco, tuttavia, fu anche il periodo in cui videro la luce la maggior parte delle opere di Euripide e delle commedie di Aristofane, il periodo in cui si continuò la costruzione dell’Eretteo e in cui giunse ad Atene da Lentini, Gorgia, con la sua “nuova filosofia”, la Sofistica. I sofisti posero, fra l’altro, le basi del pensiero scientifico, collocando l’uomo al centro delle cose e introducendo una nuova visione del mondo. Questa mentalità scientifica, riassunta dagli scritti di Ippocrate di Kos (460), padre della nuova medicina, e dagli esponenti del suo circolo, dimostra inequivocabilmente la volontà di non accontentarsi più delle spiegazioni metafisiche dei fenomeni naturali e delle malattie. È nel campo religioso, tuttavia, che osserviamo il nuovo spirito greco con l’apertura a nuovi culti e l’introduzione di nuove divinità nel pantheon greco quali: la tracia Bendis, il frigio Sabazio, il libico Ammone. La ferocia della guerra e gli avvenimenti ad essa connessi, infatti, spinsero i fedeli verso i culti misterici nella speranza di trovare conforto e speranza. Uno di questi avvenimenti fu certamente la comparsa, nell’estate del 430, di una virulenta e catastrofica epidemia che, dall’Etiopia e dall’Egitto, risalendo per le isole e le coste asiatiche devastò l’Asia Minore e, attraverso Lemno, giunse in Attica e infine ad Atene. Questo flagello è ancora oggi conosciuto come la Peste di Atene. Sarà questo l’argomento della mia relazione, ma prima vorrei brevemente spendere due parole su alcuni accadimenti della guerra del Peloponneso, a mio avviso, essenziali per cercare di comprendere meglio cosa accadde in quell’estate del 430 e fare qualche accenno sulla vita di Tucidide, il grande narratore di quegli eventi. La guerra del Peloponneso durò circa 27 anni e viene suddivisa in tre parti: la guerra archidamica (431-421, la fase intermedia con la spedizione in Sicilia 421-413 e la guerra deceleica o ionica 413-404. Il conflitto tuttavia mostra una indiscutibile unitarietà. Tucidide inizia il suo trattato facendo una distinzione tra cause dichiarate e causa più vera. Quest’ultima è chiaramente indicata dalla storico ateniese “… la crescita della potenza ateniese ed il timore che ormai incuteva agli spartani resero inevitabile il conflitto”. Evitando di descrivere tutti i fatti storici, in quanto tali aspetti esulano dall’argomento che mi accingo a trattare, possiamo dire, come afferma Bettalli, che questa fu una guerra giocata sia sul piano militare, sia su quello ideologico, con la contrapposizione democrazia/oligarchia e che lo scontro dal punto di vista militare ebbe le caratteristiche delle guerre di logoramento. Il conflitto, che fu un grande sconvolgimento (κίνησις), scoppiò come indica con solenne rigore Tucidide all’inizio della primavera del 431 quando “… ad Argo era sacerdotessa da quarantotto anni Criside, a Sparta era eforo Enesia, ad Atene era arconte Pitodoro e la sua carica sarebbe ancora durata due mesi …”. Come ricorda Musti “è la “guerra civile dei greci” ma, combattuta alla greca, cioè da quei soggetti storici preminenti nella storia ellenica che sono le poleis. È la contrapposizione cruenta non di due partiti all’interno di un territorio nazionale unitario, ma di due tendenza politiche, a cui aderiscono le molteplici entità del variegato mondo greco, le poleis, come altrettante molecole di questo scontro”. L’anno successivo (430), la seconda invasione spartana dell’Attica, guidata da Archidamo II, con al seguito anche 5000 Beoti, arrivò più in profondità rispetto alla prima invasione, giungendo in prossimità di Atene. Tale azione militare fu però bloccata dalla diffusione della “peste”. La peste scoraggiò i peloponnesiaci a continuare le ostilità in Attica, tuttavia, la situazione per gli ateniesi era tragica, il popolo chiedeva l’accordo con gli spartani e Pericle venne rimosso dalla carica di stratego (autunno/inverno 430) che però riottenne, per il 429/428, nel mese di febbraio del 429, quando il momento critico per Atene era superato. Purtroppo per lui la peste lo uccise nell’estate del 429 poco dopo aver ucciso anche i suoi due figli Santippo e Paralo. L’epidemia colpì quindi duramente tutta l’Attica e decimò sia peloponnesiaci che ateniesi. Grazie alla descrizione che ne diede Tucidide, testimone oculare degli eventi, sarà però ricordata come la peste di Atene. Fu la strategia di Pericle, a mio avviso, che favorì il diffondersi dell’epidemia ad Atene. Basato sulla supremazia navale degli ateniesi, il suo piano consisteva nell’asserragliarsi all’interno delle Lunghe Mura, evitando in questo modo lo scontro terrestre diretto con le armate spartane. La città non poteva essere presa per fame in quanto il controllo del mare, da parte della potente flotta ateniese, avrebbe assicurato l’arrivo delle merci. Questo piano richiese notevoli sacrifici soprattutto psicologici, impedendo il primordiale impulso a difendere le terre che la tradizione oplitica imponeva ma soprattutto determinò un aumento della concentrazione demografica che inevitabilmente si accompagnò a condizioni di vita precarie.  Fu questo stato di cose a favorire il rapido contagio e la diffusione del morbo che giunse dopo neanche un anno dall’inizio delle ostilità colpendo gli ateniesi ammassati all’interno della cinta muraria provocando numerose vittime e, come ho precedentemente ricordato, uccidendo nel 429 lo stesso Pericle ormai sessantenne. I drammatici eventi che colpirono Atene e l’Attica avevano bisogno di una spiegazione, si cercò allora un capro espiatorio e lo si trovò in Pericle. Il conflitto si fece ancora più aspro e gli Spartani, per evitare il contagio, uccisero tutti i prigionieri. Gli ateniesi ebbero però una vigorosa reazione sotto la guida di Cleone facendosi, se possibile, ancora più aggressivi, ma questa è un’altra storia. Voglio solo ricordare che, con alterne vicende, la guerra del Peloponneso finì nel 404 quando, nel mese di aprile, Lisandro entra al Pireo e prende possesso della città affamata : “… le mura furono demolite … in mezzo a un grande entusiasmo, perché erano in molti a pensare che quel giorno segnava l’inizio della libertà per la Grecia”. Questo scriverà il filospartano Senofonte nelle sue Elleniche. Ma chi era Tucidide? Anche per lui la biografia antica è autoschediastica (improvvisata, estemporanea) e fantasiosa. Certamente fu testimone privilegiato delle vicende della seconda metà del V secolo che egli indaga con un atteggiamento scientifico analogo a quello elaborato dalla scuola di Ippocrate: l’acribia con cui il medico studia il decorso della malattia è la stessa che guida lo storico nell’osservazione della «patologia» dell’agire umano, che storicamente si manifesta nella guerra. Molte delle notizie di cui disponiamo sulla vita di Tucidide si ricavano dalla sua opera, dalla biografia dello storico Marcellino o dalla tomba identificata da Polemone di Ilio (II sec. a.C.) fra le tombe della famiglia di Cimone presso le porte Melitidi dove fu trovata un’epigrafe. Fu eletto stratego per l’anno 424/423 e per tale motivo è possibile datare la sua nascita nel 460 e comunque non più tardi del 455, termine ante quem, in quanto, per l’elezione alla strategia, non si poteva avere meno di 30 anni. Apparteneva al demo cittadino di Alimunte e al genos dei Filaidi. Era di nobili origini, il padre Oloro (lo dice Tucidide stesso) traeva il nome da un antenato re trace, suocero di Milziade, il vincitore di Maratona e padre di Cimone; la madre, Egesipile, era probabilmente imparentata con lo statista Tucidide di Melesia, esponente del partito aristocratico e acerrimo oppositore di Pericle. Tucidide aveva possedimenti in Tracia che proprio lui ci conferma quando parla di un «diritto di sfruttamento delle miniere d’oro» che egli possedeva nella regione del Pangeo, appunto in Tracia, e precisamente nella località di Skaptè Hyle (oggi Kusnitza), il cui nome “Foresta scavata” è connesso con l’attività estrattiva del metallo. Anch’egli rimase vittima dell’epidemia di peste in cui morì Pericle, ma riuscì a sopravvivere. Come stratego, pattugliava l’isola di Taso ma non riuscì a impedire la conquista della città di Anfipoli, affidata al collega Eukles, da parte di Brasida. Tucidide non parla di una punizione inflitta agli strateghi cionondimeno dichiara di aver trascorso 20 anni lontano da Atene come esule. Probabilmente questo insuccesso fu all’origine di un esilio che durò dal 423 al 403 durante il quale avrebbe soggiornato nel Peloponneso e in Tracia e fu in grado, come egli stesso dichiara, di raccogliere informazioni su entrambi i fronti: “E dopo la mia spedizione contro Anfipoli in qualità di stratego mi accadde di essere esule dalla mia terra per venti anni e di poter disporre così più agevolmente di informazioni su alcuni di questi fatti, trovandomi presso entrambi i contendenti”. Di contro, Aristotele ci dice che nel 411 Tucidide era ad Atene al processo contro Antifonte, quindi non è ipotizzabile un suo esilio in quel periodo. Rimane così il dubbio se Tucidide fosse stato veramente esiliato. La soluzione di questo problema proposta da L. Canfora è semplice: chi parla in V, 26 non è Tucidide, bensì il redattore che dopo la sua morte ha pubblicato i suoi materiali. Questo redattore a cui si deve la sommaria organizzazione degli appunti relativi al V libro oltre a fornire notizie sull’opera tucididea avrebbe dato qualche informazione su di se nei paragrafi 5, 26, 4-5 riferiti all’esilio. Secondo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi 2, 57) fu Senofonte ha pubblicare le carte lasciate da Tucidide è a Senofonte che si dovrebbe riferire la notizia dell’esilio ventennale di Tucidide nel Peloponneso. I materiali riferiti agli anni 411–404, sarebbero poi confluiti all’inizio delle Elleniche. Complesse e dibattute sono anche le circostanze della morte. Plutarco afferma che Tucidide era morto assassinato a Skaptè Hyle ma che fu sepolto, dopo la traslazione della salma, nelle tombe della famiglia di Cimone presso la porta Melitide; Marcellino riferisce la tradizione secondo cui sarebbe morto in esilio e la sua tomba in Atene sarebbe stata in realtà un cenotafio, come testimoniava l’íkrion, una parte dell’albero della nave, postovi sopra come segno di morte per naufragio; Didimo e Pausania (I 23, 9) affermavano che era morto di morte violenta rispettivamente dopo il ritorno in Atene o mentre vi faceva ritorno. Il possibile assassinio, tuttavia, potrebbe essere stato dedotto dalla brusca interruzione della sua opera. Il silenzio sui Trenta tiranni induce a ritenere probabile che Tucidide sia rimasto ucciso nel corso delle violente lotte civili che sconvolsero Atene dopo la fine della guerra del Peloponneso. Da quanto riportato possiamo solo osservare che la molteplicità di tradizioni mostra come in realtà non si sapesse probabilmente nulla di preciso. Tornado al tema della mia relazione, lo storico ateniese, inserisce nella narrazione dei fatti inerenti la guerra del Peloponneso, un capitolo dedicato all’epidemia che colpì l’Attica e la città di Atene nel 429. Tucidide fu testimone oculare degli eventi narrati e fu egli stesso colpito dal morbo uscendone indenne. Tutti gli eventi sono mirabilmente descritti nel II libro della Guerra del Peloponneso. Il testo tucidideo è ricco di particolari e sarà il punto di partenza della mia relazione di questa sera, ma prima consentitemi un’ulteriore breve digressione. Tucidide ha condizionato gli sviluppi del genere storiografico e della scienza storica stimolando la riflessione sulla natura, le finalità e i metodi della ricerca storica. Tuttavia la sua opera di storiografo è stata abbondantemente travisata ed occorre riportare Tucidide al suo contesto storico-culturale per recuperare la dimensione politica e la dimensione letteraria. Il contesto storico-culturale può anche essere utile nel comprendere come la popolazione reagì al morbo che colpì Atene quasi all’inizio del conflitto. Una caratteristica del testo tucidideo è l’inserimento di numerosi discorsi  nello scorrere della narrazione degli eventi. Nell’Atene della seconda metà del V secolo stava emergendo una nuova disciplina: la retorica. Per prendere la decisione più conveniente ed elaborare argomentazioni efficaci sull’assemblea, l’oratore (ρητωρ è anche uomo politico) deve conoscere il passato della propria città e le sue risorse economiche e militari. Tucidide sottolinea che le vicende da lui descritte possono ripresentarsi per via della sostanziale omogeneità del divenire storico che si fonda sul più solido dei sostrati: l’immutabilità dell’uomo, delle sue aspirazioni e dei suoi comportamenti. Oltre che con i procedimenti dialettici dei sofisti, il metodo di analisi delle vicende politico-militari elaborato da Tucidide presenta dei punti di contatto con quello della scienza medica, che nel corso del V secolo a.C. aveva segnato considerevoli progressi grazie all’opera di Ippocrate e della sua scuola. La stretta analogia tra sintomi e prognosi dell’epidemia da un lato, e segni che servono alla ricostruzione indiziaria del passato e alla valutazione della situazione politico-militare e dei suoi sviluppi dall’altro, mostra chiaramente che Tucidide applica all’analisi politica un metodo e una terminologia propri della medicina ippocratica: l’osservazione dei fatti e dei dati significativi (i sintomi) è la base per la diagnosi (la ricostruzione della situazione) e per la prognosi (la previsione fondata sull’analogia) che a sua volta si fonda sulla stabilità delle reazioni umane.

           Dopo questa breve e spero non tediosa introduzione possiamo iniziare a ripercorrere, attraverso la cronaca  di Tucidide, il drammatico evento che sconvolse l’Attica nel 430 a.C. Lo storico ateniese dichiara di riferire ciò che ha visto in modo razionale, senza ricorso a cause ed eventi soprannaturali, osserva il modo in cui la pestilenza si è presentata e ne descrive i sintomi affinché possano essere facilmente riconosciuti nel caso che l’epidemia scoppiasse di nuovo. Il morbo venne da lontano “il primo luogo in cui cominciò a manifestarsi fu l’Etiopia, nella parte al di là dell’Egitto, poi scese anche nell’Egitto, nella Libia e nella maggior parte del territorio del re” e improvvisamente colpì Atene. Quell’anno fu particolarmente immune da altre malattie e la pestilenza fu un fulmine a ciel sereno. Per primi colpì gli abitanti del Pireo e molti pensarono che i peloponnesiaci avessero avvelenato i pozzi. Tucidide afferma di non voler parlare delle cause e delle origini, ma di descrivere solo i sintomi e riferisce di aver contratto lui stesso la malattia. La descrizione dei sintomi è molto dettagliata e viene organizzata “a capite ad calcem”, seguendo lo stesso modo con cui il male percorreva il corpo. Senza causa apparente le persone colpite venivano prese da “violente vampate di calore alla testa” (kephales thermai) con “arrossamenti  (erythemata) e infiammazioni (phlogosis) agli occhi e tra le parti interne la  faringe e la lingua erano subito sanguinolente (haimatode) ed emettevano un alito insolito e fetido (dysodes)”. Successivamente starnutivano (ptarmos) e poi “il male scendeva nel petto accompagnato da una forte tosse” (bex). Se il morbo colpiva lo stomaco (kardia) lo sconvolgeva con grandi sofferenze e vomito biliare (chole). I conati di vomito producevano violente convulsioni (spasmos) ed “esternamente il corpo non era troppo caldo a toccarlo, né era pallido ma rossastro, livido e con eruzioni di piccole pustole (phlyktaina) e di ulcere (helkos). L’interno invece bruciava e i malati non sopportavano di essere coperti, sopportavano solo di esser nudi e volevano gettarsi nell’acqua fredda in preda a una sete (dipsa) inestinguibile. La difficoltà di riposare e l’insonnia (agrypnia) li affliggevano continuamente. Il corpo però non deperiva. La maggior parte dei malati moriva il nono o il settimo giorno ma se superavano questa fase la malattia scendeva nell’intestino (koilia) producendo una violenta ulcerazione con diarrea (diarrhoia) liquida e poi decedevano”. Il morbo colpiva anche le estremità (acroteriai) e gli organi sessuali (aidoia) e molti scampavano con la perdita di queste parti e alcuni anche degli occhi. Quelli che sopravvivevano venivano colti da amnesia (lethe) e perdevano la conoscenza di sé stessi e dei loro familiari. La natura della malattia era inspiegabile ma la sua principale caratteristica era che si manifestava come un male diverso dalle malattie fino allora conosciute. Tucidide ci riferisce anche gli effetti del morbo sugli animali: “gli uccelli e i quadrupedi che si cibavano di carne umana, benché molte persone giacessero insepolte, non si avvicinavano a loro, oppure, se ne cibavano, morivano”. I medici non conoscevano la malattia e ne furono spesso vittime perché “più di tutti si avvicinavano ai malati”. La malattia si manifestava in modo diverso da una persona all’altra e non c’erano rimedi. Nelle pagine successive alla descrizione dei sintomi, Tucidide riferisce uno stato di scoraggiamento e disperazione dei malati e della popolazione. I malati venivano abbandonati a loro stessi per paura del contagio. Tuttavia, afferma Tucidide, coloro che riuscivano a superare la malattia non si riammalavano “il morbo non coglieva due volte la stessa persona in modo da ucciderla”. La città era sovraffollata, la gente si riversava nei templi e vi moriva. Il morbo sembra aver minato lo stato fisico e psichico della popolazione, il panico si diffondeva, alterando anche l’ordine sociale e la fede negli dei. Tucidide ci dice: “poiché il male imperversava, gli uomini non sapendo che cosa sarebbe stato di loro si volgevano al disprezzo così delle cose sacre come delle profane”. I rituali per le sepolture furono sconvolti; i corpi venivano seppelliti come si poteva, forse in fosse comuni. La sensazione di morte imminente portava i cittadini a compiere atti “che prima di allora si facevano di nascosto”. “Nessun timore degli dei e nessuna legge degli uomini li tratteneva”. Sembrava inutile seguire le pratiche religiose e nessuno pensava di vivere fino al momento di essere giudicato. Inoltre molti pensavano “che molto maggiore fosse l’incombente punizione già decretata contro di loro, e che prima che si abbattesse fosse ragionevole godersi un po’ la vita”. Dopo aver descritto una disputa semantica tra la parola peste (λοιμος) e carestia (λιμος), Tucidide ci informa che l’epidemia durò due anni e che ce ne fu un’altra in concomitanza con la prima spedizione navale ateniese in Sicilia del 427. Questi sono i fatti riferiti alla peste, narrati da Tucidide. Possiamo affermare con Carlo Maria Cipolla che “gli stretti legami che intercorrono tra le epidemie e la popolazione illustrano che la malattia come la salute è nel contempo fenomeno biologico e fenomeno sociale”.

           Uno dei possibili tentativi per affrontare la questione dell’eziologia del morbo di Tucidide è sicuramente quello di partire dall’esame dei termini medici del testo originale. La malattia iniziava con “forti calori alla testa” e la parola thermai equivale a febbre. Ciò può sembrare in contrasto con la successiva affermazione “dall’esterno il corpo non era troppo caldo” che escluderebbe uno stato febbrile. È possibile ipotizzare una dissociazione termica come avviene ad esempio nel tifo enterico? Il secondo elemento di esordio della malattia era rappresentato da un’infiammazione degli occhi con rossore (erythema) e bruciore (phlogosis), della lingua e del faringe che diventavano rosse come il sangue. L’aggettivo haimatodes equivale a “rosso sanguigno, arrossato”. La malattia in un secondo momento “scendeva”, dopo aver interessato l’apparato respiratorio (starnuto, raucedine e tosse),  e si “fissava allo stomaco”. Il termine kardia venne tradotto letteralmente da alcuni autori con “cuore”; il suo primo significato. In seguito, altri autori, seguendo l’interpretazione prima di Ippocrate e poi di Galeno lo hanno tradotto con “orifizio dello stomaco” quello che oggi in anatomia viene chiamato cardias. Questa interpretazione trova sostegno dalla frase seguente riferita al vomito biliare. Il verbo anastrephein collegato a kardia ha come primo significato rovesciare, rivoltare e si collega al termine “apokatharsis” “escrezione” che si riferisce al vomito, (chole) biliare. Il sostantivo lynx collegato a kene (svuotare) ha significato di conati di vomito che associati a spasmos indicano anche convulsioni. All’esterno il corpo era “un po’ rosso” (hyperythron) e “livido” (pelitnon). Il colore rosso e scuro, può far ipotizzare un esantema (chiazze eritematose) su una cute livida. I termini phlykthainai mikrai, piccole bolle, vescicole, pustole e helkos piaghe, ulcere, ferite, descrivono le modificazioni cutanee senza definire una temporalità delle lesioni. Si può pensare che le vescicole rompendosi lasciassero una perdita di sostanza (ulcera). L’espressione “diarrhoia akratos” viene tradotta da Page come “diarrea fluida” piuttosto che come “dissenteria” (diarrea incontrollata) e questo evidenzia come un termine piuttosto che un altro possa chiarire meglio un’ipotesi diagnostica. La dissenteria è infatti uno dei criteri caratteristici delle enteriti infettive. Se i pazienti non morivano entro sette-nove giorni la malattia “scendeva” nell’intestino e vi produceva un’ulcerazione violenta con diarrea liquida. Le ulcerazioni dell’intestino sono difficili da spiegare in quanto in assenza di un’indagine endoscopica sono evidenziabili solo all’esame autoptico. Tucidide avrebbe dovuto assistere ad autopsie sui corpi delle persone morte a causa del morbo. Ma non si comprende tuttavia come abbia potuto parlare di ulcere dell’intestino senza riferire della presenza di sangue nelle feci. L’aggettivo akratos ha il significato di “forte, violento” ed esprimerebbe l’espressività clinica del sintomo. Per uno studio maggiormente circostanziato è utile distinguere tra elementi oggettivi di cui l’autore è testimone ed elementi interpretativi che propongono un’opinione dell’autore o dei suoi contemporanei. È inoltre possibile che, pur essendo uno scrittore attendibile, Tucidide, possa non aver rilevato dati e fatti importanti semplicemente perché non sapeva che lo fossero. A questo punto possiamo chiederci: è possibile che la malattia esista ancora da qualche parte nel mondo e non sia stata riconosciuta? Negli ultimi dieci, quindici anni, sono state identificate diverse “nuove” malattie tra le quali: a) quelle che sono probabilmente esistite per lungo tempo ma non furono riconosciute perché si manifestavano con aspetti e condizioni epidemiologiche inusuali come ad esempio la legionellosi; b) quelle che possono essere esistite per lungo tempo ma sono diventate epidemiche solo emergendo da complessi cicli ecologici/zoonotici come le febbri emorragiche (Marburg, Ebola); c) quelle che sono originate de novo come la sindrome da immunodeficienza acquisita. Il flagello quindi potrebbe esistere ancora, non identificato, da qualche parte sulla terra ed essere ancora vitale. Col passare del tempo il nostro complesso ecosistema può determinare la comparsa di diverse nuove malattie attraverso la selezione di germi patogeni dalle caratteristiche a noi sconosciute. Alcune aree del pianeta, come ad esempio l’Africa, sembrano maggiormente predisposte a favorire lo sviluppo di nuovi patogeni. Un’altra possibilità è che il morbo di Tucidide esista ancora, ma non possa essere identificato perché non riusciamo a comprenderne la descrizione. Lo storico ateniese pur avendo, secondo alcuni studiosi, familiarità con i termini usati dai medici ippocratici era un profano e quindi potrebbe aver usato i termini in modo inadeguato o non aver focalizzato i segni importanti per la diagnosi. Infine è possibile che la peste di Atene sia oggi estinta o che sia talmente cambiata nelle sue manifestazioni cliniche, che la forma attuale, dopo 24 secoli, non sia più riconoscibile dalla descrizione di Tucidide. Dei tre possibili approcci, clinico, epidemiologico e paleo-archeologico, il primo, proprio a causa del linguaggio usato, sembra il più complesso e meno percorribile. Proprio in relazione al linguaggio c’è da chiedersi se questo possa essere considerato “scientifico” o se sia un linguaggio letterario che si prefigge altri risultati piuttosto che descrivere una realtà patologica. Alcuni autori hanno considerato il linguaggio di Tucidide altamente tecnico, mentre l’analisi filologica di Parry ha evidenziato che i termini usati, seppure utilizzati da autori scientifici, possono essere considerati tutti mutuati dal linguaggio letterario, dal momento che si ritrovano in scrittori e poeti precedenti e contemporanei. Non sarebbe stato usato quindi nessun termine tecnico e la descrizione del morbo sembra avere solo un intento letterario. Ma ciò appare inconciliabile con l’esplicita dichiarazione di Tucidide circa la sua intenzione di offrire una descrizione dettagliata del morbo che permetta ad altri di riconoscerlo nel momento in cui dovesse ritornare. Il fatto la malattia non sia stata ancora identificata può favorire l’ipotesi, avanzata da molti autori, dell’inadeguatezza dei termini usati. Effettivamente la descrizione del morbo, benché apparentemente precisa e realistica, ad una analisi più approfondita, si rivela indecifrabile. Sembra che nell’esposizione dei sintomi, Tucidide, segua un piano prestabilito e arbitrario la cui artificiosità si rivela quando l’autore afferma che “il male attraversava tutto il corpo, partendo dall’alto”. Egli sembra cercare un ordine ai sintomi che deve riferire e sceglie la direzione a capite ad calcem. La peste di Atene rimane tutt’ora un enigma e forse la mancata soluzione del problema sembrerebbe dipendere proprio dall’inadeguatezza scientifica del testo. Ciò non toglie che nuove scoperte archeologiche possano mettere in luce ulteriori tessere del mosaico. Occorre però cercare un elemento più profondo che ha reso il testo inadeguato. Tucidide, testimone della malattia che sconvolse Atene nel 430 a.C., raccolse nel suo resoconto i sintomi da lui stesso avvertiti, le sue impressioni soggettive e tutte le testimonianze che poté raccogliere, ma non poté operare proprio quell’analisi critica da lui stesso considerata indispensabile, quella cha da una massa confusa di opinioni, sensazioni e interpretazioni desume gli elementi importanti e significativi ordinandoli in forma logica e razionale. I sintomi riferiti, sono numerosi e appaiono eccessivamente disparati. All’apertura del capitolo 49 del II Libro abbiamo una singolare affermazione: “se qualcuno aveva già qualche indisposizione, in tutti i casi essa finiva in questa”, che fa sospettare un inquinamento della malattia da parte di sintomi spuri, sintomi cioè di altre patologie. Forse le tessere raccolte sono troppe e se alcune sembrano estranee al mosaico da ricostruire altre potrebbero essere mancanti. Forse “alla base delle difficoltà di interpretazione del quadro clinico della malattia di Tucidide potrebbe trovarsi un’operazione impropria, cioè l’applicazione del metodo storico ad un evento biologico da parte di un autore profano”.

           Nel V secolo in Grecia la medicina da sacrale diventa demotica cioè aperta a tutti, nel suo insegnamento. Alcuni autori tuttavia ritengono che la medicina sarebbe già stata aperta a tutti prima del V secolo pur se nei templi si praticava una medicina esoterica teurgico-sacrale. Espressioni di medicina demotica furono gli iatreia luoghi di cura pubblici o privati dove i medici visitavano gli infermi. La seconda metà del V secolo costituisce una tappa decisiva nel pensiero medico occidentale. È questo il momento che vede la nascita della letteratura medica e dell’arte della medicina. I primi scritti che ci sono stati tramandati col nome di Ippocrate risalgono a questo periodo. Il fenomeno è analogo a quello dei generi letterari nati nel V secolo come la storia, la tragedia o la retorica. I medici hanno scritto molto dice Senofonte all’inizio del IV secolo. Tuttavia sappiamo che già prima di questo periodo la medicina aveva prodotto una letteratura scritta, erano state scritte le Sentenze cnidie. Il V secolo è il periodo in cui la medicina si costituisce in techne, termine che definisce due nozioni al tempo ancora indissociabili, l’arte e la scienza. I medici non si accontentano di descrivere le malattie, di prevedere la loro evoluzione, e di enumerarne i rimedi ma si interrogano sia sulla finalità della loro techne e sui suoi metodi sia sul suo posto rispetto alle altre technai. I problemi sollevati e le polemiche rientrano nell’intensa attività intellettuale che contraddistinse il V secolo. Tuttavia già a partire dal IV secolo lo spirito scientifico si era svegliato nel mondo ionico grazie ai filosofi di Mileto: Talete, Anassimandro e Anassimene. Ma solo a partire dal V secolo la riflessione sull’uomo, sotto l’impulso dei sofisti, degli storici e anche dei medici, divenne centrale. Fu allora che l’uomo greco scoprì la potenza della sua stessa ragione e fu allora che vennero definite le regole del sapere scientifico. I sofisti hanno posto quindi le basi del pensiero scientifico e collocando l’uomo al centro delle cose, hanno introdotto una nuova visione del mondo. Il nuovo spirito scientifico parla dagli scritti di Ippocrate di Cos, nato intorno al 460 e padre della nuova medicina, e da quelli degli esponenti del suo circolo. La nuova spiegazione scientifica non intende più accontentarsi delle spiegazioni metafisiche. Non è un caso che la terminologia impiegata da Tucidide presenti chiarissimi echi del Corpus ippocratico. Nei trattati intitolati Epidemie troviamo per la prima volta le descrizioni giorno per giorno dell’evoluzione delle malattie con particolare riferimento all’origine geografica dei malati e al clima stagionale del luogo. Nel trattato Sulle arie, acque e luoghi, si descrivono i vari fattori esterni che il medico deve osservare per conoscere, prevedere e curare le malattie come l’orientazione dei luoghi rispetto ai venti, poi le acque utilizzate dagli abitanti e infine il clima. Nel Prognostico, il medico, al capezzale del malato, deve essere in grado di interpretare i segni per conoscere la natura della malattia e per pronosticare la sua evoluzione allo scopo di curarlo meglio. La breve citazione di alcuni dei testi del Corpus hippocraticum ci sembra utile per capire quanto lo storico Tucidide si avvicini all’ispirazione razionalistica presente negli scritti ippocratici. Lo storico greco contrariamente a Erodoto si rifiutò di spiegare lo svolgersi degli eventi storici attraverso l’intervento della divinità nelle vicende umane.

           In conclusione, nella lettura del secondo libro della Guerra del Peloponneso, incontriamo lo spettacolo della morte, della disgregazione sociale, del caos. Una morte, che a differenza della morte in battaglia, la morte ideale degli eroi, la bella morte del giovane guerriero, colpisce in modo invisibile. L’uomo si ammala, senza che attraverso l’esperienza immediata, possa sapere il come e il perché. La pestilenza si abbatte improvvisamente, all’inizio dell’estate, subito dopo l’invasione dell’Attica da parte dei peloponnesiaci guidati da Archidamo. Tucidide si limita a narrarne gli eventi, non ci dice “da che cosa essa probabilmente abbia avuto origine e quali siano le cause”, egli osserva “in che modo si è manifestata” e ne descrive i sintomi affinché “caso mai scoppiasse un’altra volta si sarebbe in grado di riconoscerla”. Per Tucidide un evento memorabile merita di essere narrato perché giova alla comprensione, in futuro, di eventi “uguali o simili”, ma quanto lontano dal presente lo storico immaginasse il futuro non è dato saperlo. Nelle pagine delle Historian la precisione e la ricchezza di vocabolario tecnico, con cui vengono indicati nei minimi particolari i sintomi della peste, non possono che essere fondate su un’ottima conoscenza degli scritti di medicina Ippocratica (Ippocrate di Cos era contemporaneo di Tucidide essendo nato verso il 470). Tucidide inoltre è più di un testimone, dopo aver contratto il morbo riesce a guarirne, e questo permette allo storico di avere una doppia prospettiva: la propria (del malato) e quella degli altri. L’uso di precisi termini tecnici non ha tuttavia favorito la soluzione del misterioso morbo di Atene. Attraverso l’analisi e l’interpretazione del significato dei termini usati e il loro confronto con i quadri clinici di svariate malattie si è cercato di fare luce sulle possibili cause del flagello, ma nonostante i tentativi, ancora oggi, dopo circa 24 secoli, nessuna malattia attualmente conosciuta corrisponde esattamente a quella descritta dallo storico Ateniese. La descrizione della peste di Atene tramandataci da Tucidide, se nel lettore profano, attraverso una scrittura coinvolgente ed emozionante, ha reso vivo l’orrore terrificante di ciò che è impensabile e indicibile, ovvero il puro caos, negli studiosi, soprattutto medici, ha stimolato la “curiosità” scientifica, di cercare un “nome” per il morbo. Non possiamo non rilevare però che l’accanita ricerca delle cause del flagello ha talvolta indotto a tralasciare la componente sociale della malattia e le sue relazioni con le attività cultuali. L’argomento appare quindi complesso e necessita di un approccio transdisciplinare. La malattia può essere antropologicamente definita come “un evento sociale imposto dalla condizione biologica dell’uomo” e “rappresenta una minaccia per l’integrità, tanto della persona, quanto del corpo sociale”. A causa del suo radicamento in un corpo sofferente e della minaccia che rappresenta per l’integrità tanto della persona quanto del corpo sociale, la malattia è un evento che ha la particolarità di suscitare un forte carico emotivo e di attivare processi sociali complessi. La vivida descrizione della disgregazione sociale, della perdita dei freni morali, dello sconvolgimento dei costumi e di una condotta indifferente nei confronti delle leggi dell’uomo e divine, ricorda lo stato di “anomia” descritto da Durkheim in cui la perdita del νομος determina il disintegrarsi della solidarietà sociale e il collasso dell’ordine morale. La malattia quindi, alla stregua di altri avvenimenti nefasti, mina le relazioni sociali ed entrambi gli aspetti, biologico e sociale, che appaiono inscindibili, saranno determinanti nell’influenzare il corso degli eventi storici. Tuttavia, al tempo della peste, non verranno meno le relazioni tra uomini e dèi, non ci sarà una “crisi” religiosa: quello che cambierà sembra essere piuttosto il tipo di queste relazioni. Negli Ateniesi prevarrà la disperazione e l’abbandono a se stessi e come scrive Tucidide “la cosa più terribile in assoluto era lo scoraggiamento da cui uno era preso quando si sentiva male, subito datosi con il pensiero alla disperazione, si lasciava andare e non resisteva e il fatto che per curarsi a vicenda si contagiavano e morivano l’uno dopo l’altro, come pecore: e questo causava la strage maggiore. Se per timore non volevano recarsi l’uno dall’altro, morivano abbandonati, e molte case furono spopolate per la mancanza di qualcuno che prestasse le cure necessarie […]”. Una delle caratteristiche di Tucidide è la sua concezione della storia come processo dovuto a forze umane, senza interventi divini. A differenza di Erodoto, per Tucidide gli dèi non hanno la capacità d’influenzare gli avvenimenti storici ma ciò non vuol dire che egli neghi l’esistenza delle divinità. Gli dèi sono ben presenti quando loda Nicia, nell’occasione della sua morte, esprimendo ammirazione per il fatto che egli per tutta la vita aveva cercato coerentemente di adempiere ai suoi doveri morali. Tucidide dimostra in questo modo che, nonostante un’affermata razionalità, egli ha sempre ben presente ciò che è importante per la società del tempo, ovvero i sentimenti religiosi e morali. La “modernità” di Tucidide va sempre contestualizzata al tempo in cui vive e il suo pensiero, come le sue conoscenze, sono legati indissolubilmente alla tradizione. La storia è sì un fatto umano, ma scorre all’interno di un mondo organizzato dalle divinità. Nel capitolo sulla peste di Atene, nell’affermare il suo scetticismo nei confronti delle pratiche religiose, Tucidide, nel momento in cui descrive i templi pieni di cadaveri, la trascuratezza o l’impossibilità di compiere i rituali della sepoltura, sottolinea ripetutamente l’orrore delle infrazioni commesse. Più che il timore della malattia, quello che sembra profondamente turbarlo, è la disgregazione sociale. Malgrado Tucidide non ce lo riferisca, i Greci credevano che gli dèi avessero un ruolo attivo nella guerra e che, passando sempre attraverso determinate azioni umane, con il loro intervento questa potesse essere vinta o persa. Tucidide inoltre ha la tendenza a minimizzare l’importanza delle pratiche religiose come elementi determinanti negli affari umani. Lo storico aveva sicuramente un’opinione negativa sulla validità degli oracoli e in particolare mostra il suo scetticismo verso la fine della descrizione della peste, quando ci informa che agli Ateniesi venne in mente un antico vaticinio che recitava: “verrà la guerra dorica e con essa la peste”. Tucidide dà maggiore importanza al problema semantico tra λοιμος (peste) e λιμος (carestia): “poiché la parola λοιμος è simile a λιμος si discuteva se in realtà l’oracolo non avesse indicato una carestia”. Possiamo tuttavia notare che la presenza dei vaticini è una costante quando si tratta di narrare i fatti più importanti delle sue “Storie”. Tucidide riferisce che gli Spartani consultarono l’oracolo di Apollo a Delfi e che avrebbero ottenuto l’aiuto del dio “se avessero combattuto con tutte le loro forze”. Gli Ateniesi devono aver creduto che Apollo fosse la causa della peste nello stesso modo in cui l’aveva inviata al campo Acheo all’inizio dell’Iliade. Lo stesso Pericle in un discorso al popolo ateniese nell’estate del 430 afferma che la peste era stata inviata dal dio (ta daimonia). Tucidide non riporta l’analogia con Omero. Ma quello che sicuramente pesava di più nella mente della gente era la connessione tra la peste e l’esplicita promessa di Apollo di aiutare gli Spartani. Tucidide non ci dice perché Apollo fosse così desideroso di aiutare Sparta, tuttavia, in accordo alla visione religiosa, la presenza anche di un singolo uomo contaminato o maledetto come Edipo avrebbe potuto indurre l’ira degli dèi su tutta la città. E proprio un importante uomo ateniese, che si era opposto a Sparta, aveva ereditato una maledizione. Gli Spartani, come condizione per evitare la guerra, avevano esortato gli Ateniesi a scacciare la maledizione della divinità sapendo che Pericle, il figlio di Santippe, era coinvolto, attraverso la famiglia materna, in un caso di empietà. Gli antenati di sua madre Megacle, della famiglia degli Alcmeonidi, erano stati implicati nell’empia esecuzione dei cospiratori Ciloniani nel 630. Era quindi ragionevole, per gli Ateniesi, colpiti da una peste senza precedenti, vedere in Pericle il bersaglio dell’ira di Apollo. Tuttavia, la morte di Pericle nel 429 non pone fine alle sofferenze, contrariamente alla morte di Edipo nella mitica peste tebana, e così un altro rimedio fu richiesto. Per tale motivo vi fu una spedizione navale a Epidauro. Sebbene Tucidide non ne indichi lo scopo, è plausibile che la spedizione navale Ateniese del 430 verso Epidauro fosse stata organizzata per assumere il controllo del santuario del dio della guarigione Asclepio. Questa ipotesi è suggerita dal fatto che nel 420 gli Ateniesi, approfittando della pace di Nicia del 421, “importarono” il culto di Asclepio da Epidauro ad Atene. Ciò è testimoniato dalla costruzione di un santuario dedicato al dio, in prossimità del teatro di Dioniso sulle pendici dell’Acropoli. Dato che i Greci credevano nel potere curativo del canto, questa localizzazione non fu una coincidenza e nei secoli successivi la configurazione del santuario di Asclepio e del teatro furono ripetute nel mondo greco (teatro di Epidauro nel IV secolo con la sua straordinaria acustica). Il teatro, secondo l’immaginazione greca, poteva curare. Anche se Apollo Delfico può aver affermato all’inizio della guerra il suo aiuto a Sparta, questo non precludeva al dio la possibilità di cambiare idea. Come nell’Iliade, Apollo ha il potere sia di mandare la peste che di fermarla. Il migliore mezzo per ostentare i favori di Apollo agli Ateniesi era perciò quello di placare Apollo Delio. Il bisogno di rivolgersi ad Apollo Delio è la migliore spiegazione per la decisione nell’inverso del 426/5 di purificare la sacra isola di Delo (luogo di nascita di Apollo) attraverso la rimozione di tutte le sepolture esistenti e vietando morti e nascite in futuro. Gli Ateniesi ristabiliscono anche i quinquennali giochi delici. Tucidide non dà una spiegazione per questa purificazione, limitandosi a dire che essa fu fatta in accordo a “certi oracoli”. Il principale motivo degli Ateniesi per la purificazione era quello di ingraziarsi Apollo. Ci è stato esplicitamente riferito da Diodoro, nel sua “Biblioteca”, che il motivo degli Ateniesi era religioso. Probabilmente Diodoro si riferisce alla seconda epidemia di peste dell’inverno 427/6 che secondo Tucidide durò non meno di un anno. La connessione tra la purificazione e la peste è provata da un altare edificato a Delo e dedicato dagli ateniesi ad Apollo Paion (guaritore) e ad Atena. Il ricorso alla citazione dei vaticini ci induce a pensare che Tucidide, nonostante abbia voluto comporre un’opera storiografica basata solo sul vaglio critico delle fonti, lontana quindi dal mito e dal trascendente e basata sull’autopsia, sull’attestazione personale, rimane un uomo del suo tempo non potendo, pur criticandoli, non citare alcuni detti oracolari. Scopo della consultazione dell’oracolo non è, in generale, conoscere il futuro, ma chiedere consigli in situazioni critiche o, comunque, importanti. Nella religione greca osserviamo che il culto eroico è frequentemente associato all’oracolo e che la mantica e la guarigione sono intimamente connesse. Il responso oracolare avviene spesso attraverso la pratica dell’incubazione e quest’ultima ha frequentemente per scopo la guarigione. La maggior parte dei poteri oracolari sono concentrati nelle mani di Apollo che, dio per eccellenza mantico, è anche dio medico. A partire dal VII secolo un antichissimo culto locale della Focide, il culto di Apollon Pythios a Delfi, acquistava un’importanza crescente per il suo oracolo in tutto il mondo greco. A Delfi si praticava una mantica “ispirata”: una sacerdotessa, la Pizia, in stato di estasi indotta (possessione?) dal dio, pronunciava parole non molto chiare e vi era un personale sacerdotale apposito che doveva interpretarle e trarne un responso redatto in esametri perché il carattere sacro della parola divina non ammetteva la prosa. Asclepio, medico per eccellenza, esercitava le proprie funzioni iatriche nei grandi santuari di Epidauro, Kos, Atene, mediante l’incubazione, apparendo personalmente nei sogni e dando responsi che non  riguardavano solo la cura. Vi sono molti indizi per ritenere che Asclepio, prima di essere considerato un dio, fosse stato piuttosto un eroe. In certi miti si raccontava che Asclepio, compiendo un atto di hybris eroica, avesse trasgredito i limiti dell’uomo risuscitando Ippolito e che, per tale azione, fosse stato fulminato da Zeus. Asclepio, sia nella mitologia, sia nei culti, ha numerosi legami con Apollo di cui, secondo il mito, sarebbe stato figlio. Il culto di Asclepio era molto antico: già nell’Iliade compaiono i suoi due figli Podalirio e Macaone, due eroi che assistettero i Greci durante l’assedio di Troia. Esso tuttavia assurge alla posizione di dio guaritore per eccellenza riconosciuto in tutto il mondo greco solo a partire dal V secolo sulla scia della fama del suo tempio di Epidauro. Le pratiche guaritrici esercitate nei templi del dio, nelle quali i miracolosi interventi divini erano accompagnati dall’attività dei sacerdoti e perfino da un apposito personale laico, non potevano non contribuire in qualche modo alla nascita della prima scienza medica. Quindi, malgrado il programmatico laicismo della scuola ippocratica, la medicina greca non perde ogni contatto con la religione. Tuttavia Asclepio, secondo la sua mitologia, non è la sorgente dell’arte medica: non tanto perché è figlio di Apollo, quanto perché egli stesso l’ha appresa da Chirone, lo stesso che ha insegnato quest’arte ad Achille. La peste sembra inoltre aver lasciato i suoi segni più evidenti nelle tragedie rappresentate in Atene in quegli anni per le Grandi Dionisie. I drammi scritti durante la pestilenza esibivano una marcata incidenza di parole indicanti le malattie con eroi e personaggi del tempo mitico in preda agli spasmi sia reali che metaforici. Nell’Edipo Re di Sofocle, Edipo è impegnato a debellare una pestilenza che tormenta Tebe, la sua città. Numerosi dettagli nel testo non potrebbero avere senso se Sofocle non avesse composto questa tragedia alla luce o in risposta alla peste di Atene. Altre tragedie di quel periodo descrivono sintomi molto simili a quelli osservati  da Tucidide come l’Ippolito di Euripide e le Trachinie di Sofocle, un dramma, quest’ultimo, sulla morte di Eracle. Sulla base dell’alta incidenza di parole indicanti la sofferenza e alla stretta somiglianza delle sofferenze fisiche di Eracle, ucciso dal sangue avvelenato del Centauro Nesso, del quale è impregnata la sua veste, alle vittime della peste descritte da Tucidide, Mitchell-Boyask ipotizza che la tragedia sia stata composta da Sofocle come una reazione alla peste. Lo specifico vocabolario di Sofocle per la peste in Edipo Re mostra la profonda relazione tra l’epidemia e la tragedia. La letteratura greca usa le parole νοσος per significare la malattia in generale e λοιμος per indicare in particolare la pestilenza, ma, secondo l’autore, il termine λοιμος, nelle ultime tre decadi del V secolo, virtualmente scompare dalla letteratura greca. Infatti, mentre λοιμος appare due volte di più nelle prime tragedie di Eschilo, che morì nel 454 a.C., non compare mai nei diciotto drammi esistenti di Euripide e solo una volta nei sette di Sofocle. La scomparsa della parola dalla letteratura ateniese, secondo l’autore, suggerisce che Sofocle sta segnalando che λοιμος è una “parola nefasta”, generalmente vista come tabu e indicibile. È possibile che la rappresentazione di una finta peste a un pubblico che ne stava soffrendo una reale, in un linguaggio considerato dannoso per loro, sia stata responsabile per un inusuale secondo posto di Sofocle alla fine delle gare tra i tragediografi agli agoni per Dioniso in quell’anno. Il V secolo fu tuttavia un periodo di grande creatività: i grandi drammaturghi Eschilo, Sofocle ed Euripide hanno scritto le loro tragedie in questo periodo. Gli sconvolgimenti della grande guerra non rimasero senza tracce nell’uomo greco. La crescita dell’odio e le tremende crudeltà perpetrate contro i prigionieri e la popolazione delle città sottomesse gettano fosche ombre sulla splendente immagine del mondo greco del V secolo. Ma anche in questi anni oscuri lo spirito ellenico seppe dar prova di un’inesauribile forza creativa. La maggior parte delle opere di Euripide (morto nel 406) e delle commedie di Aristofane (la prima fu rappresentata nel 427) risalgono al periodo della guerra. Si continuò inoltre la costruzione dell’Eretteo. Nei primi anni di guerra comparve in Atene “la nuova dottrina”, la Sofistica, nella figura di Gorgia. Tale dottrina ebbe un ruolo determinante nella formazione del nuovo spirito ellenico, produsse addirittura una rivoluzione nella vita culturale greca. Il nuovo spirito ellenico si manifestò soprattutto nella religione. L’apertura dei Greci all’esterno trovò espressione nell’assimilazione di numerose divinità straniere nel pantheon greco, come ad esempio la tracia Bendis, il frigio Sabazio e il libico Ammone. Se è vero che da sempre la necessità insegna a pregare, anche la guerra del Peloponneso spinse schiere di fedeli verso i culti misterici per trovare in essi conforto e speranza. Ma tornando a Tucidide, qual è la sua posizione nei confronti del divino in questa sua “Storia”? Gli dèi sono per lo più assenti nell’opera e se per lo storico Ateniese non era ragionevole credere che essi intervenissero nelle vicende umane, poteva tuttavia essere compatibile con tale atteggiamento una normale pratica religiosa. È genuino infatti il senso di dispiacere con cui Tucidide parla della degradazione morale che si affermò ad Atene nel periodo della peste. Se proviamo infine ad approfondire l’analisi del testo soffermandoci su aspetti diversi dalla terminologia tecnica usata per descrivere il flagello, notiamo impressionanti richiami e parallelismi con la tradizione mitica. Tucidide ci informa che la pestilenza “prima fosse scoppiata sia dalle parti di Lemno, sia in altri luoghi”. Lemno era un punto di passaggio per l’Oriente e quindi, essendo un crocevia di mercanti e merci, vi erano maggiori possibilità di sviluppare focolai di infezioni. Ma Lemno ha anche il ricordo mitico dei miasmi. Nel Filottete di Sofocle, il protagonista è stato abbandonato già da dieci anni sull'isola di Lemno dai suoi compagni in viaggio per la guerra contro Troia, a causa di una ferita insanabile, infetta e maleodorante provocatagli dal morso di un serpente. L'isola di Lemno viene descritta anche nelle avventure degli Argonauti, gli eroi della spedizione per il recupero del vello d'oro. Lemno rappresentò la prima tappa e la prima vicenda della loro avventura. Si trattava di un'isola abitata da sole donne: tutti gli uomini, infatti, erano stati sterminati dalle loro donne, come conseguenza di una punizione proveniente da Afrodite, offesa dalla trascuratezza in cui versava il suo culto. Le Lemniadi furono anche condannate dalla dea a trasudare un cattivo odore dalla pelle che le rendeva inavvicinabili. Proprio nell’aria è contenuto l’elemento male-odorante responsabile della trasmissione della malattia su cui si basa la teoria dei miasmi. Lo storico afferma che i medici non erano di aiuto e che anzi, a causa della loro vicinanza ai malati, “morivano più di tutti”. In questo passo Tucidide ci dice che nessuna ανθrωπεια τε νη poteva aiutare i malati a guarire dalla pestilenza. Ma se per lui l’uomo non può nulla, neanche le suppliche che si facevano nei templi o l’uso degli oracoli (iatromantica) potevano aiutarli e alla fine se ne astennero. In questa situazione, la società precipita nella dimensione del Caos. La perdita del “rapporto sacrale” con la divinità, in questo caso l’eroe, rompe i legami che uniscono l’organizzazione della società e l’integrità della città stessa. Come afferma Brelich “il legame intrinseco tra la qualità eroica e la capacità iatrica è radicato nella concezione stessa dell’eroe: l’eroe morto nel tempo del mito dopo aver compiuto le sue imprese ad un tempo sovrumane e smisurate resta sempre la fonte dell’esistenza reale: la città gli deve la sua fondazione, egli la protegge in guerra e pace, da lui può venire vita e prosperità e perciò anche salute, purché si mantenga con lui il dovuto contatto nella forma del culto”. Tucidide, in seguito, ci dà notizia si era pensato che i Peloponnesiaci avessero avvelenato i pozzi e che là, al Pireo, non c’erano ancora fontane. Questo sembra essere un richiamo alle acque stagnanti da dove, secondo la dottrina ippocratica, potevano esalare arie malsane. La citazione delle fontane sembra porre a confronto i due tipi di acque: quelle stagnanti e percepite come circoscritte dei pozzi e quelle che scorrono, non inquinanti, delle fontane. Infine, la disgregazione sociale viene sottolineata nell’affermare che molti abitanti, non essendoci più case, erano costretti a dimorare in capanne. La capanna rappresentava ciò che stava al di fuori della città in un mondo “altro” rispetto a quello civilizzato. In conclusione, come accennato all’inizio di questa trattazione, la prima pestilenza del mondo Occidentale è narrata da Omero nell’Iliade e questi versi ci aprono nuovamente le porte per il passaggio dal “tempo della storia” al “tempo del mito”: “Ascoltami, dio dall’arco d’argento, che proteggi Crisa e la divina Cilla, che regni su Tenedo, o Sminteo, se ti è gradito il tempio che un giorno ho costruito per te, se per un tempo ho bruciato grasse cosce di tori e di capre, esaudisci il mio desiderio: scontino i Danai queste mie lacrime con le tue frecce. Così pregava e Febo Apollo lo udì. Dalle vette dell’Olimpo discese, con l’ira nel cuore; sulle spalle portava l’arco e la chiusa faretra; risuonavano i dardi sulle sue spalle mentre avanzava in preda alla collera; veniva avanti, smile alla notte.  Si fermò lontano dalle navi e scagliò una freccia: emise un suono sinistro l’arco d’argento; prima colpiva i muli e i cani veloci, ma poi prese di mira gli uomini con il suo dardo acuto. Fitti e senza tregua ardevano i fuochi dei roghi. Per nove giorni volarono per il campo le frecce del dio”.


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