Anno Accademico 2020-2021
Vol. 65, n° 4, Ottobre - Dicembre 2021
Simposio: Appropriatezza nella diagnostica di laboratorio
11 maggio 2021
Responsabile Unit “Appropriatezza prescrittiva interna alle analisi della Microbiologia”, Policlinico Universitario “Tor Vergata”, Roma
Simposio: Appropriatezza nella diagnostica di laboratorio
11 maggio 2021
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In Medicina si definisce “necessaria” una procedura (diagnostica e/o terapeutica) se produce un beneficio e se è preferibile rispetto alle altre opzioni disponibili, mentre si definisce “appropriata” una procedura che produce benefici maggiori rispetto ai possibili danni, con un margine sufficientemente ampio da giustificarne l’uso. Al contrario, si definiscono “equivoche” le procedure per le quali siano teoricamente equivalenti i potenziali benefici ed i rischi di danno per i pazienti, ed “inappropriate” le procedure per le quali i rischi di danno per il paziente siano superiori ai potenziali benefici. L’appropriatezza in Medicina si misura sul singolo paziente analizzando gli esiti clinici, sia a livello di sistema sanitario, ovvero analizzandone gli effetti in termini economici e sulla popolazione generale. Dall’esperienza in campo medico sono derivati i concetti di appropriatezza in laboratorio. Tale concetto nasce negli anni settanta per compensare e rispondere a due fenomeni divergenti: il continuo e significativo aumento delle richieste di esami di laboratorio (effetto soprattutto della Medicina difensiva), l’introduzione di esami complessi, sempre più rilevanti per il ragionamento ed il processo decisionale clinico, per la guida mirata ed il monitoraggio delle terapie e per una Medicina sempre più personalizzata. Tra le motivazioni che conducano ad una eccessiva richiesta di accertamenti diagnostici vi sono: l’assenza di riscontri oggettivi alla prescrizione, deficit formativi (la Microbiologia ha subito nell’ultimo ventennio un arricchimento in tecniche e procedure e quindi in possibilità diagnostiche che devono essere conosciute a fondo per poterle utilizzare al meglio), l’incertezza diagnostica. Oggi l’appropriatezza di laboratorio è un concetto più vasto: definisce la necessità che un esame di laboratorio influisca sul processo decisionale clinico e sia in grado di determinare esiti validi. Per realizzare ciò occorre verificare tutti passaggi in cui si può nascondere un problema di appropriatezza: dal quesito clinico, agli effetti decisionali sul paziente includendo anche le modalità di comunicazione di un risultato di laboratorio. In questa relazione affronteremo alcune tematiche particolari a titolo esemplificativo incluse quelle emerse durante l’epoca COVID.
Infine ultimo aspetto, ma non in ordine di importanza, l’impatto della inappropriatezza sul sistema. Se da un lato è vero che i costi degli esami di laboratorio rappresentano meno del 2% della spesa sanitaria complessiva, il loro impatto complessivo è molto più elevato perché l’informazione che fornisce laboratorio influenza la maggior parte delle decisioni cliniche e determina, quindi, la richiesta di ulteriori esami e procedure diagnostiche-terapeutiche. Inoltre, per il laboratorio lavorare in appropriatezza significa lavorare meno sulle richieste di esami inutili e lavorare meglio per ciò che è utile ed efficace per il paziente.
È comunque vero che lavorare in termini di appropriatezza significa investire molte risorse umane e tecnologiche, perché occorre indagare e migliorare tutte le fasi di un percorso diagnostico: dal quesito clinico agli effetti decisionali sul paziente, includendo anche le modalità di comunicazione di un risultato di laboratorio.
Esempi frequenti di inappropriatezza sono: una richiesta iniziale inappropriata, la ripetizione inappropriata dell’esame, la raccolta/manipolazione del campione scorretta, il processo analitico scorretto, la validazione dei dati/refertazione scorretta, la comunicazione del referto scorretta/ritardata/poco efficace, infine il recepimento/interpretazione dell’informazione ritardati/errati. In campo microbiologico spesso assistiamo a richieste inappropriate, e va chiarito un punto: la diagnosi microbiologica deve essere a sostegno dei sospetti clinici, non deve sopperire all’inquadramento di casi clinici incerti: non chiedete al microbiologo di fare “tutto” su un campione, occorre porre un quesito diagnostico ben chiaro e definito. Quest’ultimo punto è così sentito che la Società Americana di Microbiologia assieme alla Società di Malattie Infettive hanno sentito la necessità di uscire con un documento congiunto dal titolo: “A Guide to Utilization of the Microbiology Laboratory for Diagnosis of Infectious Diseases: 2018 Update” by the Infectious Diseases Society of America and the American Society for Microbiology, autore J. Miller et al. Documento che illustra campione e per sindrome infettiva ciò che necessario ed opportuno richiedere ed eseguire e ciò che andrebbe evitato.
Nel nostro caso abbiamo trattato alcune tematiche particolari, quali: la diagnosi di tubercolosi latente ed attiva, la diagnosi di C. difficile infection, la diagnosi delle gastroenteriti, la diagnosi di sepsi, meningiti e infezioni fungine invasive. Queste scelte sono state dettate dall’evidenza di sacche di inappropriatezza nelle richieste per lo più dettate da alcuni elementi di confusione proprio nella distinzione fra i test che consentono la diagnosi di tubercolosi latente da quella attiva. I primi si utilizzano solo per individuare nei soggetti l’avvenuto contatto con il M. tubercolosis (MTB) che causa una memoria immunologica (da qui l’utilizzo di test come TST e test IGRA (Interferon gamma release assay), mentre i secondi (esame microscopico diretto, la coltura e la biologia molecolare) sono metodi di ricerca attiva dell’MTB ed indicano in caso di positività una infezione attiva in corso e quindi anche la contagiosità dell’individuo. Entrambi devono essere usati con criteri stabiliti (anche dal WHO) evitando ripetizioni inutili.
Per la diagnosi delle gastroenteriti (GI) viene universalmente applicata la regola dei “tre giorni”, ossia se un paziente è ricoverato da più di tre giorni di dà per assunto che la GI non può più essere sostenuta da patogeni comunitari (es Salmonella e Campylobacter), ma si deve pensare ad un agente nosocomiale, tra cui il C. difficile, ma anche alcuni virus. Per il C. difficile, trattandosi per definizione di “C. difficile associated diarrhoeae, CDAD” la condizione sine qua non è la diarrea. Purtroppo, il laboratorio si vede recapitare richieste poco utili su campioni di feci formate che andrebbero respinti. È, infatti, noto che il C. difficile tossigeno può essere presente anche nelle feci di soggetti sani, l’assenza della diarrea indica l’assenza della condizione base perché si possa parlare di CDAD! Anche nei pazienti con una precedente diagnosi di CDAD, la richiesta di esami successivi a quello diagnostico iniziale ha poco senso, perché la diagnosi di guarigione è clinico e non microbiologica!
Da alcuni anni abbiamo a disposizione per la diagnosi delle GI (incluse le comunitarie) dei saggi multiparametrici in biologia molecolare, ossia saggi che in un singolo test ci consentono di individuare dai 15-30 patogeni. I saggi sono previsti anche dal nuovo CUR regionale ed è bene che il soprattutto il medico di base ne conosca l’esistenza/richiedibilità, perché nei casi di diarrea il loro utilizzo consente la diagnosi eziologica con maggiore efficienza e rapidità rispetto ai saggi colturali che soffrono di una scarsa sensibilità. Dati ormai pubblicati dimostrano come tali saggi multiparametrici in biologia molecolare siamo in grado di colmare un gap diagnostico della coltura in oltre 70% dei casi.
Altra tematica critica: la diagnosi di sepsi. Sindrome molto diffusa anche in comunità, le stime della Global Sepsis Alliance descrivono come 80% degli eventi settici insorgano in comunità e poi siano causa di ricovero. Lo strumento principe per la diagnosi di sepsi è l’emocoltura, ma occorre utilizzarlo in modo adeguato. Per esempio nonostante sia chiaro in letteratura che il prelievo emocolturale debba essere effettuato il più precocemente possibile e prima dell’inizio della terapia antibiotica, spesso questo non accade causando ritardi diagnostici gravi ai fini della sopravvivenza del paziente. Inoltre, sia in ospedale ma anche nella Medicina territoriale si dimentica l’importanza di un prelievo corretto (che si traduce in una maggiore sensibilità analitica), da linee guide, prevede la raccolta di sangue del paziente in almeno 2/3 set di flaconi per emocolture (ossia un totale di 4/6 flaconi).
Ultimo, ma non certo in ordine di importanza, l’utilizzo di test non colturali per la diagnosi di infezioni fungine invasive (IF), tra cui il beta-1-3 D glucano. Si tratta di un componente della parete fungina di alcuni miceti (non tutti, per esempio il Cryptococcus ne è sprovvisto) la cui evidenza attraverso test simil ELISA, consente di avvalorare il sospetto clinico di una IF. Con l’aumento della popolazione fragile ed immunodepressa queste infezioni sono in costante aumento e la loro diagnosi tempestiva è fondamentale. Tuttavia, anche in questo caso l’utilizzo di questo utile strumento diagnostico non ponderato e non accompagnato da una serie di decisioni cliniche e terapeutiche successive ne vanifica l’utilità. In caso di positività, infatti, sarebbe utile, a fronte anche di altre evidenze cliniche, iniziare una terapia empirica con antifungini così come, in caso di negatività sarebbe opportuno evitarla o interromperla se già iniziata.
In conclusione l’appropriatezza in Microbiologia è un cammino che si può e si deve intraprendere. Non è semplice e non ci sono soluzioni esportabili dipende dall’ospedale e dal laboratorio, occorre un dialogo costante con il clinico, la continua condivisione di informazioni e un’attenta e costante valutazione dell’efficacia delle azioni intraprese.