Anno Accademico 2015-2016
Vol. 60, n° 3, Luglio - Settembre 2016
Settimana per la Cultura
12 aprile 2016
Settimana per la Cultura
12 aprile 2016
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Gli uomini, comʼè risaputo, non sono uguali tra di loro sotto il profilo morfologico, fisiologico e psichico, per cui dire che gli uomini sono tutti uguali è un assunto biologico errato.
Sono invece uguali, almeno lo dovrebbero essere, nellʼesercizio dei diritti e nellʼosservanza dei doveri, ovviamente se inseriti nel medesimo contesto sociale con relativo ordinamento.
Del resto, se pensiamo al mondo degli animali, dobbiamo dire che tutti i cani sono cani, ma non tutti i cani sono uguali.
Quindi, anche per gli uomini vale lʼassunto che tutti gli uomini sono uomini, ma non tutti gli uomini sono uguali tra di loro.
Lʼuomo, come si sa, appartiene al regno animale e, più precisamente, al sottoregno dei vertebrati e, tra questi, fa parte dei primati, alla classe dei mammiferi, nonché ad una determinata specie, quella umana, che a sua volta risulta di più razze, che sono sottospecie e si distinguono tra di loro.
Per razza si intende un gruppo umano, cioè un popolo o un insieme di popoli, che presentano particolari caratteristiche morfologiche, fisiologiche e psicologiche, le quali costituiscono il loro fenotipo.
Il fenotipo è la manifestazione visibile del genotipo e può essere rappresentato dalla conformazione dello scheletro, dal colore della pelle, dalla forma degli occhi, dai lineamenti del volto, dallʼattitudine allo sport, dalla predisposizione alla musica, al canto, alla danza, allʼattività lucrativa, ecc.
Sul fenotipo possono agire vari fattori, quali lʼambiente e le condizioni di vita di quel dato popolo o razza, il grado di civiltà da esso raggiunto e la sua acculturazione, talché esso può in parte variare.
Il genotipo è, invece, lʼinsieme dei caratteri ereditari, che risiedono nel DNA, molecola presente nel nucleo delle nostre cellule.
Questa molecola risulta di nucleotidi, che sono esteri fosforici, costituenti lʼacido nucleico, e sono disposti a catena.
Il DNA é un acronimo, cioè una sigla, che sta ad indicare il Desoxyribo Nucleic Acid, cioè lʼacido desossiribonucleinico.
Del DNA sono costituiti i geni, i quali sono collocati nei cromosomi, risultanti di formazioni allungate di cromatina nucleare.
Lʼuomo ha 46 cromosomi, dei quali, 44 sono somatici e 2 sessuali. I 2 cromosomi sessuali sono, nel maschio, XY, nella femmina XX. La sessuazione avviene tra la 7° e lʼ8° settimana di gestazione.
I geni, che sono lʼunità funzionale dellʼinformazione genetica, controllano, infatti, i caratteri, cioè le caratteristiche di ogni uomo, che trasmettono per via ereditaria.
I caratteri ereditari non si perdono lungo lʼasse ereditario, il quale, anzi, si arricchisce con gli incroci generazionali.
Quindi, gli uomini hanno unʼidentica composizione organica, spesso una diversa funzionalità, ma sempre un diverso quoziente intelletivo e una diversa personalità.
Queste diversità, Gregor Iohann Mendel (1822-1884) le attribuiva per il 75% ad un fatto congenito e per il 25% a fattori acquisiti.
I caratteri presenti nel DNA si distinguono in dominanti, che si manifestano nel prodotto del concepimento per via ereditaria, ed in recessivi, che si trasmettono, ma non si manifestano.
Nella procreazione intraetnica, non solo vengono trasmessi i caratteri dominanti propri di quella etnia, ma anche quelli recessivi, che, se sono presenti in entrambi i genitori, diventano purʼessi dominanti.
Ciò potrebbe spiegare lʼattitudine al commercio dei popoli semiti, la predisposizione alla musica jazz ed allo sport dei popoli africani, la vocazione per la musica ad archi dei nomadi originari dellʼIndostan, cioè dei Rom, e la religiosità e sensibilità di molti popoli slavi.
Concludendo, possiamo dire che tra gli uomini ci sono differenze, che possono essere congenite o acquisite.
Esistendo, però, differenze congenite tra uomo ed uomo, tra popolazione e popolazione, e tra razza e razza, non significa che ci siano uomini, popoli e razze superiori o inferiori, non esistendo un parametro per il confronto tra di loro.
Se, invece, ci si volesse riferire al livello di civiltà dei diversi popoli o razze, dovremmo riconoscere che questo é un parametro basato su fattori acquisiti e non congeniti.
E veniamo al razzismo, che è un neologismo che nasce dalla parola razza.
Taluni ritengono il razzismo una ideologia filosofica, supportata dalle differenze biologiche esistenti tra le varie razze, altri, invece, vedono in esso una ideologia sociopolitica.
Il razzismo, che oggi viene spesso chiamato in causa nello scontro sociale, politico, economico e financo religioso tra appartenenti a popoli o a razze diverse, non sempre si limita a difformità di pensiero nel merito, ma si esplicita con lʼodio, la discriminazione, la persecuzione, arrivando anche al genocidio.
Il razzismo nasce lontano nel tempo, potremmo dirlo nellʼantica Grecia, dove i greci ritenevano inferiori a loro i barbari e, rispetto agli uomini liberi, gli schiavi.
Anche Roma antica riteneva i barbari inferiori al civis romanus.
Forse, sarebbe più corretto parlare in questo caso di etnocentrismo, anziché di razzismo, nel senso che gli antichi greci e gli antichi romani ritenevano di appartenere essi ad un popolo superiore, rispetto a tutti gli altri popoli.
Solo nel Settecento con Karl Linneo (1707-1778) e nellʼOttocento con Charles Robert Darwin (1809-1882) e Cesare Lombroso (1835-1909), si parlerà di razzismo, sottolineando le differenze tra le varie razze e la possibile esistenza di una superiorità razziale tra le varie specie umane.
Ed è su questa ipotesi biologica che si innesterà il razzismo, teoria fondata sul principio della differenza sostanziale fra le razze umane, sia sotto il profilo biologico che spirituale, con conseguente gerarchia fra di loro.
La prima gemma del razzismo fu inclusa nel fenotipo umano, divenendo in non pochi casi un vero e proprio carattere congenito, dal francese Joseph Arthur conte di Gobineau (1816-1882), letterato, sociologo, romanziere, scultore, studioso delle religioni e filosofie dellʼAsia Centrale e della storia persiana.
E fu come diplomatico ed inviato straordinario in Persia che egli attese ai suoi studi orientali, scrivendo la gran parte delle sue opere, dalle quali emerge, per come infiammò lʼEuropa della prima metà del Novecento, il suo “Essai sur lʼinegalitè des races humaines” del 1854.
Nel suo saggio sullʼineguaglianza delle razze umane il de Gobineau sviluppò il concetto della razza come fattore fondamentale della storia, teorizzando la superiorità della razza ariana.
Egli vide, infatti, nella razza, intesa come complesso di caratteri, non solo fisici, ma anche intellettuali e spirituali, il fattore determinante la genesi ed il divenire delle diverse civiltà.
A proposito della razza ariana chiamata in causa va ricordato che gli ariani o arii erano gli antichi abitanti di una regione, oggi divisa tra Iran, Turkestan ed Afganistan, bagnata dai fiumi Oxus (Amu Daria) ed Arius (Heri Rud), i quali sarebbero, secondo taluni, i progenitori dei popoli indoeuropei, talché dalla loro lingua si sarebbero originate le lingue arie, cioé il sanscrito, il greco, il latino, il germanico e le lingue slave.
Senonché, una moderna suddivisione del genere umano, anziché basarsi sul colore della pelle e riconoscere cinque razze (bianca, gialla, nera, bruna e rossa), lo distingue in più gruppi, in base al complesso delle diversità somatiche, riunendo nel gruppo degli indoeuropei, assieme agli arii, i semiti ed i camiti.
Anche il Biasutti (1941), nel disegnare il ciclo delle forme primarie boreali, annovera nel ramo degli europoidi due sottogruppi, quello europeo, al quale appartengono, tra le altre, la razza nordide (teutonica) e le razze mediterranide e adriatide (italiani), e quello afroasiatico, al quale afferisce, tra le altre, la razza assiride (ebrei). Il che non fa troppo distanti, sotto il profilo etnico, gli ariani dai semiti.
Indubbiamente, il genere umano, distribuito fra le varie razze, ha in esse caratteristiche biologiche diverse, che, a prescindere dal grado di civilizzazione raggiunto, condizionano il modo dʼessere etico-psicologico e quindi sociale dei componenti.
Ma se le diversità somatopsichiche fra le razze non giustifica una gerarchia fra le stesse, mancando parametri assoluti, sarebbe, però, grave errore pretendere di livellare le diverse razze, con forzature egualitaristiche, per evitare il razzismo.
Lʼidentità etnica delle singole razze va tutelata e se, sotto il profilo etico, nulla osta allʼibridismo, questo, sulla scorta della moderna visione genetica, non andrebbe favorito, per cui il rispetto da portare allʼidentità biologica delle diverse razze umane dovrebbe essere almeno pari a quello che lʼuomo porta alle diverse razze della medesima specie animale, salvo che non voglia migliorarla.
NellʼItalia fascista il razzismo ebbe le sue basi dottrinali nel “manifesto degli scienziati razzisti” del 14 luglio 1938, che ne trattò solo sotto il profilo biologico, senza implicazioni filosofiche o religiose.
Il regime, al fine di perseguire la “difesa” etnica e spirituale del popolo italiano, ritenuto di discendenza ariana, dispose nel novembre del 1938 provvedimenti restrittivi per i rapporti con gli altri gruppi etnici, promulgando una dichiarazione sulla razza, con pesante discriminazione verso la razza semita, camita o comunque non ariana.
La conseguente legislazione, riguardante soprattutto gli ebrei, istituì per essi una cittadinanza speciale, di grado inferiore, a diritto limitato.
Il razzismo nazionalsocialista invece si ispirerà a due grandi idealisti, Fichte e Hegel. Johann Gottlieb Fichte, nato in Lusazia nel 1762 da poveri genitori, salirà alla cattedra di filosofia di Jena e poi allʼUniversità di Berlino dove, nellʼinverno 1807-1808, pronuncerà i suoi “Discorsi alla nazione tedesca”, incitandola a liberarsi dal giogo napoleonico e riconoscendole una supremazia che avrebbe schiuso una nuova era, rispecchiante lʼordine cosmico, vedendo nei latini, specie francesi, e negli ebrei due razze decadenti. Fichte morirà a Berlino nel 1814, in tempo però per venire a sapere della sconfitta napoleonica a Lipsia.
A Fichte subentrerà nella cattedra di filosofia di Berlino Wilhelm Friedrich Hegel, nato a Stoccarda nel 1770 e morto a Berlino nel 1831.
Per Hegel le diverse civiltà che si sono succedute nella storia rappresentano le diverse manifestazioni dello spirito, che di volta in volta sceglie a suo esponente un popolo, dando il primato ad una determinata civiltà.
Lo storicismo hegeliano sta, quindi, nellʼassioma che la storia degli uomini è la storia dellʼidea.
Tra i seguaci dellʼhegelismo ci saranno pure Karl Marx (1818-1883) e Friedrich Engels (1820-1895), appartenenti alla sinistra hegeliana e promotori del socialismo scientifico, che vedranno nella storia degli uomini non più la storia dellʼidea, ma il valore economico, al quale ricondurre ogni valore dello spirito.
Per quanto attiene il denunciato razzismo di molti italiani verso gli appartenenti ad altre razze, va precisato che il più delle volte non è così.
Il nostro Paese, infatti, ha poche materie prime, ha scarse risorse, ha unʼalta disoccupazione, inoltre ha unʼorganizzazione debole, unʼeconomia fallimentare, una sanità non molto sana, una giustizia permissiva ed unʼistruzione inefficace.
La densità demografica, poi, del nostro Paese, in gran parte montagnoso, ci lascia pochi spazi abitativi disponibili.
Il terzo mondo lʼabbiamo in casa anche noi, con i vecchi ignorati, i malati di mente non sempre ben seguiti, i minori non adeguatamente protetti ed ancor meno controllati ed i lavoratori per nulla coinvolti nel reddito produttivo, mentre la natura viene costantemente violentata.
A chi dovesse obiettare che tanti italiani nei primi decenni del Novecento sono emigrati in Belgio, Francia e nelle Americhe, potremmo rispondere che in quei paesi, allʼepoca bisognevoli di mano dʼopera, noi abbiamo fatto i minatori, gli operai e gli artigiani ed abbiamo concorso a fare le loro fortune.
Parlare, poi, troppo spesso, come si fa ora, di profughi politici, non è corretto; profugo politico è chi rifiuta lʼideologia di un determinato regime, a prescindere dal sistema economico che ne discende, che, invece, è spesso lʼunica causa dellʼodierna emigrazione verso paesi ad economia più florida.
Ma tutto questo interessa ben poco a molti reggitori della cosa pubblica, che, raggiunte ambite posizioni di potere, non tanto per merito loro, quanto per causa nostra, per il nostro disinteresse politico, la nostra sterile rabbia e la nostra critica da salotto, operano solo per conservarle, a prescindere dallʼinteresse superiore della società.
Ma non sono loro che vanno spazzati via, siamo noi che dobbiamo crescere socialmente, sì da vergognarci per chi lasciamo ci rappresenti.
Inserire nel nostro contesto sociale, in queste condizioni, gli immigrati, vuol dire danneggiare gli italiani, senza aiutare sostanzialmente quelli che da noi arrivano, i cui bisogni non vanno appagati con miopia politica, nè con demagogia sociale.
Gli italiani, pertanto, non provano odio o disprezzo per gli immigrati, ma solo preoccupazione per il sicuro aumento dei loro oneri fiscali e paura per il futuro dei loro figli.
Se la nostra società avesse risorse economiche eccedenti, il che non è vero, mentre ha tecnologia ed uomini di valore in esubero, mettiamoli a disposizione di questi popoli che immigrano nel nostro Paese e aiutiamoli a rimanere nel limite del possibile nel loro, che spesso ha molte più risorse del nostro, purtroppo non adeguatamente sfruttate o godute dai potentati locali.
Dinanzi alle prepotenze tribali presenti dei loro paesi, alle guerre ed agli odi religiosi o etnici spesso in atto, lʼO.N.U. non dovrebbe rimanere assente, se non vuol dimostrare, una volta di più, la sua dubbia utilità.
Concludendo, ritengo che gli italiani non siano razzisti, salvo in casi sporadici.
Ciò non toglie che, se un individuo non desidera socializzare con essi perché hanno usi o costumi da lui non condivisi, non si può parlare di discriminazione.
Questa non voluta socializzazione sarebbe di fatto lʼesito dʼuna sua opinione o di un suo modo di sentire, anche discutibile, se vogliamo, ma se essa non avrà finalità denigratorie rimarrà una libera opinione del tutto lecita.
Se tuttavia si dovesse perseguire questo individuo, si istituirebbe una nuova figura giuridica, quella del reato dʼopinione, segnando la fine della libertà di pensiero, di critica e di ideazione.
In tal senso si è mosso in questi anni lʼon. Ivan Scalfarotto che a suo tempo ha proposto un disegno di legge, che prevederebbe responsabilità penali per chi esprime pubblicamente idee difformi da quelle “politicamente corrette” su razza, sesso, genere, matrimonio e famiglia. Si tratterebbe, praticamente, di una legge antiomofobica, che il senatore del partito democratico, dichiaratosi omosessuale, auspica venga inserita nella legislazione italiana, supportato in ciò dalla collega di partito, senatrice Monica Cirinnà, promotrice della legge per le unioni civili in genere e dei gay in particolare.
Nel merito il cardinale Angelo Bagnasco, Presidente della C.E.I., nel settembre del 2014, ha ravvisato in questo orientamento politico la volontà di introdurre un totalitarismo culturale, cioè il pensiero unico su determinate realtà, dal quale non sarebbe consentito scostarsi.
Questa sarebbe la fine della libertà, che oggi non consolerebbe neppure Maximilien Francois Isidore Robespierre, che dal palco della ghigliottina guarderebbe sorridente i suoi sciocchi epigoni, intransigenti solo sulle scelte più stupide della cosiddetta democrazia.