Anno Accademico 2022-2023

Vol. 67, n° 4, Ottobre - Dicembre 2023

Simposio: Fast track anemia: stato dell’arte e prospettive

30 maggio 2023

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“Fast track anemia”: stato dell’arte e prospettive

M. Rondinelli, A. Di Bartolomei

Il Patient Blood Management (PBM) è un approccio multidisciplinare, multimodale ed integrato per la gestione appropriata della risorsa sangue, che si applica con l’adozione dell’insieme di tecniche utilizzabili nel singolo paziente. È un approccio multi professionale, multimodale e paziente centrico per la gestione ottimale dell’anemia, dell’emostasi chirurgica, per il contenimento del fabbisogno trasfusionale allogenico nel perioperatorio e per l’impiego appropriato degli emocomponenti e dei farmaci plasmaderivati.

Le raccomandazioni internazionali delineano il percorso applicativo del PBM secondo “tre pilastri fondamentali”:

  1. primo pilastro: la preoperatoria;
  2. secondo pilastro: il contenimento delle perdite ematiche;
  3. terzo pilastro: correzione dell’anemia l’ottimizzazione della tolleranza all’anemia.

Il PBM comprende tutti gli aspetti di valutazione del paziente e tutto il management clinico attorno al processo che porta alla decisione di trasfondere, compreso il corretto e appropriato utilizzo delle indicazioni alla trasfusione, così come la riduzione delle perdite di sangue e l’ottimizzazione dell’emopoiesi.

Le differenti metodologie del PBM affiancano quindi tutto l’iter assistenziale e vengono selezionate sulla base della tipologia chirurgica e del controllo del processo di anemizzazione, basti pensare all’importanza che le metodiche di recupero perioperatorio del sangue hanno nella valorizzazione delle perdite ematiche chirurgiche, in particolare negli interventi chirurgici ad alto rischio emorragico.

Lo sviluppo di un network tra ospedale e cure primarie territoriali, parzialmente avviato solo in alcune regioni italiane, rappresenta sicuramente un nuovo scenario che necessita di sviluppo e modelli applicativi, con l’obiettivo di risultati assistenziali ottimizzati ed economicamente sostenibili.

Negli ultimi decenni, l’implementazione nella pratica clinica della Chirurgia mini invasiva ha consentito di ridurre significativamente i tempi di ripresa e la durata della degenza post-operatoria con un conseguente miglioramento dei risultati a breve termine e della qualità percepita da parte dei pazienti. Allo scopo di ottimizzare la riabilitazione dei pazienti dopo un intervento chirurgico, è stato introdotto a metà degli anni novanta, dal chirurgo danese Henrick Kehelet, il concetto della fast-track surgery che associa appunto tecniche chirurgiche mini-invasive ed endoscopiche e protocolli gestionali del paziente che mirano al ristabilimento precoce delle normali funzioni, al controllo del dolore, al risparmio di trasfusioni di sangue, alla riabilitazione post-operatoria intensiva (es. ripresa precoce dell’alimentazione e della deambulazione, alla rimozione dei presidi). Questo percorso di cura è meglio noto come Enhanced Recovery After Surgery (ERAS), ossia “miglior recupero post-operatorio”. L’obiettivo di questo approccio standardizzato, pianificato, coordinato, multimodale e multidisciplinare e basato sulle migliori evidenze scientifiche, è quello appunto di ridurre al minimo la risposta metabolica, neuroendocrina e dell’intero organismo allo stress chirurgico, ottenendo una ripresa funzionale più precoce, una riduzione delle complicanze post-operatorie, una degenza ospedaliera ridotta ed una conseguente riduzione dei costi sanitari, consentendo il miglioramento complessivo della qualità di cura.

Se si analizza il termine Fast Track (percorso veloce), si potrebbe pensare che l’obiettivo principale sia quello di ottenere una dimissione precoce del paziente indipendentemente dalle condizioni cliniche. La realtà dei fatti è che tale dimissione precoce è la diretta conseguenza del vero obiettivo di questo protocollo e cioè: migliorare la riabilitazione del paziente che viene sottoposto ad un intervento chirurgico maggiore e la riduzione di tutte le complicanze possibili. Nonostante le singole procedure dei protocolli Fast Track siano supportate da moltissime basi scientifiche, l’inserimento di questo programma nella pratica chirurgica moderna è ancora insufficiente. Probabilmente questa resistenza è dovuta sia alla difficoltà di porre fine a pratiche cliniche ormai consolidate, sia alla necessità di dover rivoluzionare l’intero assetto organizzativo della struttura ospedaliera, poiché il programma richiede un team fondato ad hoc in cui è fondamentale la collaborazione interdisciplinare. La creazione di uno specifico percorso ospedaliero diagnostico terapeutico certificato (PDTA) da un gruppo multidisciplinare diventa un elemento portante, soprattutto per identificare le priorità procedurali, le differenti competenze e i livelli di responsabilità.

L’approfondimento di questi indici permette quindi di caratterizzare in modo sistematico e puntuale l’eziopatogenesi dell’anemia e contrastarla con presidi terapeutici opportuni.

L’algoritmo di valutazione proposto da questo studio prevede anche la valorizzazione diagnostica degli indici di Wintrobe (MCV, MCH, MCHC) per l’orientamento differenziativo dell’anemia nelle diverse possibilità:

  1. anemia normocronica normocitica (anemia da flogosi cronica, anemia da insufficienza renale cronica);
  2. anemia ipocromica microcitica (anemia ferro carenziale);
  3. anemia normocromica macrocitica (anemia da deficit di acido folico e vit. B12, anemia diseritropoietica).

Elementi fondamentali sono poi rappresentati dalla determinazione del valore di ferritina sierica, dall’indice di saturazione della transferrina e dall’indice di creatinina clearance (vedi algoritmo terapeutico) proposto dallo stesso gruppo interdisciplinare.

L’utilizzo perioperatorio di ferro per uso parenterale deve essere infatti considerato di prima scelta, in quanto costituisce l’unica via di somministrazione in grado di incrementare i livelli di sideremia e rappresentare lo stimolo adeguato per il midollo eritropoietico, nelle forme di anemia da infiammazione cronica.

La controindicazione assoluta è rappresentata dalle forme di intolleranza e da possibili reazioni anafilattiche, che possono manifestarsi nel paziente, anche durante la prima somministrazione.

L’inizio corretto di un programma di terapia marziale deve necessariamente iniziare prevedendo l’infusione a goccia lenta di una dose test, che è rappresentata da 1/10 della dose totale in 250 cc di soluzione fisiologica allo 0,9%.

La prevalenza di queste reazioni è associata non tanto alla forma farmaceutica quanto alla dose totale e all’intervallo di somministrazione.

Le tipologie di ferro per uso parenterale presenti in commercio e la loro posologia sono di seguito descritte:

  1. ferro destrano ad alto peso molecolare: 125 mg in 100 cc di NACL allo 0,9% per due volte alla settimana;
  2. ferro destrano a basso peso molecolare: 125 mg in 100 ml di NACL allo 0,9% per due volte alla settimana
  3. ferro gluconato: 100 mg in 100 ml di NACL allo 0,9% per due volte alla settimana;
  4. ferro sucrosio: 100 mg in 100 ml di NACL allo 0,9% per due volte alla settimana;
  5. ferrocarbossimaltosio: 200 mg in 250 ml di soluzione fisiologica in monosomministrazione settimanale.

Quest’ultima preparazione farmacologica, non ancora disponibile in ambito nazionale ma presente in ambito europeo, ha la particolarità di prevedere un’unica dose terapeutica con una bassa incidenza di reazioni collaterali.

Le tipologie di ferro per uso orale sono rappresentate da:

  1. ferro solfato: 200 mg una compressa al giorno in assunzione orale;
  2. ferro saccarato: 100 mg una compressa al giorno in assunzione orale;
  3. ferro bisglicinato: 14 mg una compressa al giorno in assunzione orale.

Quest’ultima formulazione di ferro bisglicinato, presente come prodotto farmacologico da qualche anno, potrebbe essere una valida alternativa ed opportunità terapeutica da valorizzare in questo settore di applicazione; questa specificità è sostenuta dal fatto che il principio attivo è idrosolubile e biodisponibile con alta compliance da parte del paziente, presentando inoltre un alto profilo di sicurezza.

È possibile assumere che il 20-30% dei pazienti che accedono all’area Emergenza presenti un’anemia di grado da moderato a severo e che un’elevata percentuale riconosca una componente siderocarenziale, meno frequentemente associata anche a carenza di altri ematinici (vit. B12, acido folico).

La terapia trasfusionale in Emergenza (PS) è responsabile del consumo dal 10% al 30% delle unità trasfuse in ospedale. È probabile che la necessità di gestire il paziente in tempi più stretti rispetto a quelli del ricovero ordinario determini una minore adesione a criteri di appropriatezza.

 In mancanza di percorsi clinico-diagnostici alternativi per la rapida presa in carico del paziente, la terapia trasfusionale è vista come l’unica strategia possibile in area Emergenza. La terapia trasfusionale è inappropriata nel 21.4% dei casi nei pazienti trasfusi in PS.

 Al momento i pazienti con anemia che giungono in PS vengono generalmente trasfusi per poi essere dimessi o ricoverati presso i reparti per l’inquadramento diagnostico; ciò comporta l’uso di sangue allogenico (con i costi e i rischi ad esso legati). Infatti è dimostrato che i pazienti trasfusi hanno una mortalità maggiore rispetto ai non trasfusi, oltre a una degenza più lunga e una ricaduta più frequente se non posta diagnosi dell’anemia. È in tale ambito che è nato il progetto Fast-track anemia clinic in alcune realtà nazionali.

In questo percorso il paziente che giunge per anemia al PS viene innanzitutto valutato per grado di anemia, sintomatologia, tipo di anemia (acuta o cronica) e viene sottoposto ad esami clinico-strumentali e analisi cliniche (vengono eseguiti in PS l’emocromo, ferritina, sideremia, trasferrina, reticolociti, creatinina, coagulazione, acido folico e vit B12).

Il corretto approccio all’anemia subacuta/cronica anche di grado elevato, ma clinicamente tollerata dal paziente, dovrebbe prevedere di riservare la terapia trasfusionale ai pazienti che per grado di anemia, segni di instabilità e/o comorbilità abbiano bisogno di un rapido ripristino della capacità ossiforetica ematica.

Bisogna quindi procedere in tempi rapidi alla definizione diagnostica con:
- rapido inquadramento diagnostico;
- trattamento farmacologico appropriato.

Il rischio trasfusionale è dose-dipendente ed incide sull’outcome del paziente anche per una sola unità trasfusa.

È auspicabile l’istituzione all’interno del Dipartimento di Emergenza di una unità clinica per la diagnosi ed il trattamento tempestivo dell’anemia carenziale (modello “Unità di diagnosi rapida”). Viene quindi differenziato se è un’anemia ad insorgenza acuta (emolisi, emorragia) o cronica (carenziali). Dopo quest’attenta valutazione, dimostrato che si tratta di un’anemia cronico-carenziale, si può correggere la carenza integrando i depositi marziali. Nello specifico una saturazione della transferrina <20% deve essere reintegrata con Fe ev.


Conclusioni

Questa attuale incentivazione del PBM è sostenuta dall’appropriata ed indispensabile necessità di coniugare il miglioramento dell’outcome con la riduzione dei rischi assistenziali.

Il radicale cambiamento delle strutture ospedaliere, la contrazione delle risorse umane e tecniche, la necessità di codificare ogni ricovero chirurgico e clinico avvalorano i percorsi operativi di “Patient Blood Management”, in quanto sinergici con questa evoluzione.

Lo sviluppo di un network tra ospedale e cure primarie territoriali, parzialmente avviato solo in alcune regioni italiane, rappresenta sicuramente un nuovo scenario che necessita di sviluppo e di modelli applicativi con l’obiettivo di risultati assistenziali ottimizzati ed economicamente sostenibili.

L’obiettivo strategico della consulenza di Medicina Trasfusionale nei percorsi di Patient Blood Management è l’elaborazione di un “progetto peri operatorio” calibrato sulle caratteristiche ematologiche del paziente e sulle varie modalità di blood conservation disponibili, nel rispetto dei tempi di programmazione chirurgica.

Questa recente esperienza iniziata presso una struttura di PBM inserita in un contesto ospedaliero che annovera un’esperienza decennale in ambito di ottimizzazione di terapie alternative all’uso di sangue allogenico, potrebbe rappresentare un valido modello a cui riferirsi per l’avvio di una modalità assistenziale innovativa che possa coniugare il miglioramento della prognosi e la sostanziale riduzione dei rischi clinici e dei costi correlati.


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