Anno Accademico 2023-2024
Vol. 68, n° 2, Aprile - Giugno 2024
Simposio: Metodologia di studio e trattamento dei pazienti pediatrici con disordini della differenziazione sessuale (DSD): l'esperienza OPBG
13 febbraio 2024
Responsabile U.O. Chirurgia Andrologica e Ginecologica, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma
Simposio: Metodologia di studio e trattamento dei pazienti pediatrici con disordini della differenziazione sessuale (DSD): l'esperienza OPBG
13 febbraio 2024
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Uno degli aspetti più controversi nella gestione terapeutica dei pazienti con Disordine della Differenziazione Sessuale (DSD) e che necessitino di chirurgia ricostruttiva, è rappresentato non solo dalla identificazione e dall’utilizzo della tecnica chirurgica più opportuna ma soprattutto dalla scelta ragionata e condivisa del momento giusto, il corretto “timing”, in cui sottoporre il paziente all’uso del bisturi. Molteplici aspetti, non solo strettamente clinici, possono amplificare a dismisura la difficoltà di queste scelte e solo uno studio condiviso di ogni singolo paziente, stratificato in relazione alle sue necessità, può ridurre al minimo (ma non eliminare) la possibilità di intraprendere percorsi in salita ed a volte con esiti catastrofici. Presso l’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù (OPBG) da ormai più di un decennio è operativo un cosiddetto “Intersex Team” che si occupa esclusivamente dei pazienti DSD. Il gruppo di studio e di lavoro è composto da endocrinologi, genetisti, chirurghi, radiologi, psicologi e bioeticisti dedicati alla cura di questi particolari pazienti e delle loro famiglie.
Il settore della gestione chirurgica dei pazienti con malformazione genitale complessa è stato storicamente controverso. Alcuni decenni fa se ne occupava il chirurgo pediatra che faceva tutto, poi l’avvento dell’urologia pediatrica ha in qualche modo destinato questa nicchia decisamente “impervia” alle sue competenze, con l’ausilio del ginecologo degli adulti ed a volte dei chirurghi plastici, ma, insomma, senza confini o orizzonti ben definiti e quindi con risultati spesso, è inutile negarlo, scadenti, e questo sia per quanto riguarda i tentativi di ricostruzione in senso maschile (genitoplastica mascolinizzante) che per ciò che concerne le ricostruzioni in cui si è convenuto un “gender assignment” di tipo femminile (genitoplastica femminilizzante).
Ma prima di addentrarci nel settore specifico della chirurgia è necessario ricordare alcuni concetti che reputiamo basilari.
Sappiamo che dobbiamo tener conto di una “gender identity” (sono femmina e so di esserlo o sono maschio e so di esserlo) e di un “gender role” (siccome sono maschio mi comporterò, mi vestirò, camminerò e parlerò in un certo modo). Verosimilmente la mia identità ed il mio ruolo non cambieranno nel corso della mia vita da quelli che sono stilemi, o stereotipi, tipicamente assegnati al sesso di appartenenza. Sono nato quindi e mi viene assegnato un sesso. Sarò un maschietto o una femminuccia perché il mio sesso fenotipico, incontrovertibilmente, è quello.
Ma nel caso dei nostri pazienti, DSD, come la mettiamo con la «gender assignation»?
In qualche modo dobbiamo pensarci noi ed ecco che, ad un certo punto, il bisturi viene a “devastare” un equilibrio indefinito (sembra un ossimoro ma è esattamente così), perché alla fine (sicuramente discusso e concertato prima tra psicologi, endocrinologi, bioeticisti, la famiglia), è il bisturi che scolpisce e determina il sesso fenotipico, quasi sempre in modo irrevocabile.
Ed è proprio il bisturi che può fare danni irreparabili.
Dunque, inevitabilmente, per colpa o per merito di quel bisturi un inconsapevole bambino o bambina o cos’altro si troverà ad affrontare una “identity” o un “role” che non ha potuto decidere, e che magari non gli calzerà a pennello, nel futuro.
Siamo perfettamente consapevoli dell’imperfezione che esiste a monte di tutto quello che andiamo a fare, a volte non siamo nemmeno completamente convinti di tutto ciò che andiamo a fare; quindi, l’unica cosa che possiamo e dobbiamo fare è: “farlo nel miglior modo possibile” e con la massima condivisione.
Il vasto e variegato mondo dei DSD (Fig. 1) è stato ripartito, secondo una delle classificazioni più recenti, in tre gruppi principali:
− i pazienti con mosaicismo cromosomico anche definiti “sex chromosome”;
− le pazienti genotipicamente femmine e quindi con cariotipo 46,XX DSD;
− il gruppo che interessa ai fini di questa trattazione cioè coloro che sono (46,XY DSD) genotipicamente maschi.
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I due gruppi principali nella catalogazione dei 46,XY DSD sono le disgenesie gonadiche ed i deficit di sintesi o di azione del testosterone. Sia in questi casi che in parte anche nel gruppo dei cosiddetti mosaicismi o chimere cromosomiche osserveremo un unico comune denominatore: una importante ipovirilizzazione che blocca lo sviluppo fenotipico genitale non oltre gli stadi 2 e 3 di Prader (Fig. 2).
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Nell’ambito delle disgenesie gonadiche distinguiamo quattro gruppi principali:
− le disgenesie complete;
− le disgenesie parziali;
− la cosiddetta sindrome da regressione gonadica;
− la ”ovotesticular DSD”.
In quello dei deficit di sintesi o azione del testosterone troviamo le relativamente rare forme da deficit di 17HSD3, di 5 alfa reduttasi, le mutazioni StAR.
Le sindromi complete o parziali da insensività agli androgeni (AIS), i disordini recettoriali come la sindrome da persistenza dei dotti mulleriani (PMDS).
Esistono poi le forme cosiddette “non classified” o “other”, non pochi casi, in cui si osserva una grave ipovirilizzazione pur in assenza di deficit specifici riconoscibili in una noxa genetica o endocrinologica. Talvolta, in anamnesi prenatale ed ostetrica di questi pazienti, si ha notizia di assunzione di progestinici ad alte dosi da parte delle madri.
Quasi sempre alla prima valutazione di questa categoria di pazienti troviamo delle cosiddette pliche labio-scrotali ingrandite con scroto bifido (Fig. 3). L’asta, che spesso assomiglia più ad un clitoride lievemente ipertrofico, è più o meno completamente trasposta nello scroto bifido. Alla base della struttura fallica c’è un unico orifizio che assomiglia molto al seno urogenitale (Fig. 4) che troviamo nelle bambine (46,XX DSD) con sindrome adreno-genitale (SAG). Le gonadi (testicoli nei difetti di sintesi del testosterone e nella maggior parte delle disgenesie gonadiche - ovaie o ovotestis nei sex chromosome DSD) - possono essere già palpate all’interno dello scroto bifido, o comunque lungo il canale inguinale.
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Le problematiche chirurgiche dei 46,XY DSD non si limitano alla porzione esteriore. Internamente, ad una distanza variabile rispetto all’orifizio esterno corrispondente all’uretra, si apre una cavità che può essere di dimensioni variabili e che viene denominata in vari modi. Riteniamo che debba definirsi «utricolo prostatico ingrandito» nei classici DSD 46,XY da deficit relativo al testosterone o alle capacità recettoriali e che possa invece denominarsi «pseudovagina» nelle forme di mosaicismo o in alcune forme di disgenesia gonadica. In questi ultimi casi, spesso alla sommità di questa cavità accessoria è presente un tipico «muso di tinca» uterino cui può più o meno corrispondere una formazione uterina (solitamente di tipo abortivo) con eventuali annessi e gonadi femminili associate. Questo almeno è quello che abbiamo notato nelle valutazioni laparoscopiche di questa sottocategoria di pazienti con una più marcata «ambiguità» (tipo i mosaicismi con una prevalente componente della porzione XX) o comunque con un deficit di virilizzazione ancor più severo.
Nonostante vi sia scarsa letteratura sull’argomento e notevole disaccordo su come comportarsi (togliere/lasciare) siamo fermamente convinti che la demolizione di queste strutture (soprattutto in assenza di comprovate risultanze genetiche che indichino assenza o scarso “tumor risk”) non sia una necessità dei primi mesi/anni di vita.
L’utricolo prostatico ingrandito o le più rare “pseudovagine” possono più avanti dare problemi legati alla continenza urinaria, agendo come una sorta di “reservoir” di urine in fase minzionale e creando “fughe” o gocciolamenti post-minzionali (la cosiddetta “dribbling incontinence”) ad esempio nel passaggio dalla stazione seduta a quella eretta. Il “discomfort” nella vita di tutti i giorni di una tale evenienza impone la necessità di rimuovere con un intervento non agevole, e con tecniche mininvasive (laparoscopia - robot), questo tipo di residui.
Stiamo iniziando ad osservare, ora, pazienti di 11, 12, 13 anni con sequele, operati circa un decennio fa con diagnosi iniziale di ipospadia grave (in alcuni casi misconosciute nella loro identità DSD) i quali, oltre agli esiti estetici e funzionali di una correzione della forma ipospadica, presentano seri problemi di continenza. Questa è quindi una evenienza, direi abbastanza emergente, di un problema una volta misconosciuto o comunque molto sottovalutato.
Quindi, come nelle femmine virilizzate 46,XX DSD (le SAG) ci si imbarca in un progetto di genitoplastica femminilizzante, in questa nostra categoria di pazienti ed in cui si sia deciso collegialmente di attribuire un “male gender assignment”, si deve procedere, una volta definita la “gender assignation” alla correzione dell’ipospadia (nella sua forma più grave), della trasposizione peno-scrotale, alla eventuale ricollocazione dei testicoli nello scroto o alla loro asportazione se disgenetici e dobbiamo decidere che fare di eventuali residui mülleriani.
La chirurgia dell’ipospadia scrotale o più spesso perineale è necessariamente una chirurgia in più tempi, “multistaged”. Non è pensabile e non giova al futuro del paziente di ricostruire in un unico tempo un’asta nelle condizioni che abbiamo finora visto.
L’obiettivo finale è quello di ricostruire un pene di dimensioni consone, con una nuova uretra che non potrà essere ricostruita se non con l’uso di “graft”, di impianti (o di prepuzio o di mucosa buccale), senza incurvamenti residui, efficiente dal punto di vista funzionale, ed esteticamente ben corretta.
In particolare, la correzione della curvatura congenita ventrale (sempre di ampia gradazione in tali casi) è a dir poco fondamentale. La maggior parte delle complicanze post-operatorie di una ipospadia corretta dipende da una mancata e completa correzione dell’incurvamento ventrale. Questo è ormai un dato assodato.
Siamo quindi passati, in queste situazioni estreme, dalla tecnica chirurgica in due tempi nota con l’acronimo STAG (straighten and graft) alla cosiddetta STAC (straighten and close), aumentando di un ulteriore tempo chirurgico (totale tre) l’intera procedura ma con risultati estetici e funzionali strabilianti.
Gli stessi pionieri di questa revisione della procedura (gli statunitensi Snodgrass e Bush) la hanno definita “the game changer”, cioè la svolta. Perché la svolta….
Perché il I tempo, prima non previsto (indubbiamente causa di un ulteriore stress chirurgico e di una anestesia generale in più) riesce però a risolvere due problemi fondamentali: la mancanza di lunghezza dell’asta ed il persistente incurvamento. Quest’ultimo, come detto, fonte di quasi tutte le complicanze secondarie (a loro volta causa di altri interventi ed anestesie), il primo invece causa di problematiche relazionali e psicologiche non indifferenti in questi futuri adolescenti e poi adulti.
Ecco sintetizzati i tempi principali di questo I tempo chirurgico, quello fondamentale, in cui partendo dalla situazione anatomica iniziale e dopo aver isolato i corpi cavernosi, distaccato completamente l’uretra (che viene poi riattaccata) si effettuano tre corporotomie (incisioni sui corpi cavernosi) sagittali a distanza di mezzo centimetro l’una dall’altra protette da un lembo di dartos prepuziale, ad ottenere un risultato di allungamento e raddrizzamento estremamente significativo (Fig. 5).
A distanza di 6 mesi circa da questo I tempo chirurgico al paziente viene ricostruita un’uretra prima inesistente utilizzando o lembi di cute prepuziale o di mucosa buccale (Fig. 6). Dopo altri 6 mesi l’uretra impiantata viene “tubularizzata” ed il pene definitivamente ricostruito (Fig. 7).
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Un altro aspetto fondamentale di questi pazienti è rappresentato dalla chirurgia delle gonadi, tenendo conto di due principali obiettivi: da un lato preservare la funzione testicolare, dall’altro prevenire ogni potenziale degenerazione neoplastica.
Nelle forme di disgenesia gonadica parziale e nei DSD da deficit di sintesi del testosterone, e per i quali si è deciso un “gender assignment” maschile, l’orchidopessi è consigliata, entro i due anni.
Nel sottogruppo degli ovotesticular DSD è possibile una chirurgia gonadica con preservazione del tessuto che concordi con l’identità di sesso assegnata.
Nelle disgenesie gonadiche, a maggior ragione se con un SRY (gene codificante per il fattore di determinazione del testicolo) positivo (ad esempio in DSD 46,XY con un assignment femminile) le gonadi vanno rimosse perché il “tumor risk” è elevato. Nelle Sindromi da Insensibilità Parziale agli Androgeni (PAIS), per lo stesso motivo, le gonadi vanno rimosse.
Mentre nelle pazienti fenotipicamente femmine con CAIS, forma completa di insensibilità agli androgeni, essendo teoricamente basso il rischio di sviluppo di neoplasie a malignità intermedia prima dell’età adulta, si può (sempre sotto stretto monitoraggio) pensare di attendere e favorire una pubertà spontanea con un migliore sviluppo mammario e crescita ossea.
La tendenza attuale nei confronti dei residui mulleriani, ed in particolare negli utricoli prostatici cistici o “enlarged” che troviamo caratteristicamente nei 46,XY è quello di non toccarli a meno che non diano luogo, nel corso della vita, ad una di queste tre possibili complicanze: infezioni urinarie ricorrenti e sintomatiche, formazione di calcoli all’interno ed incontinenza urinaria.
Come prima sottolineato, quest’ultimo in particolare è un problema non trascurabile. Stiamo iniziando a vedere pazienti operati circa 10-15 anni fa per forme di ipospadia grave in DSD misconosciuti con sequele (oltre che estetiche e funzionali a carico dell’asta) anche con questi rilevanti disturbi urologici. L’eventuale rimozione di queste formazioni (residui mülleriani) avviene normalmente con tecniche mininvasive, laparoscopia o robot.
Ma al di là dei tecnicismi (in questo caso chirurgici), assecondando una visione olistica del problema e finalizzata ad un approccio centrato sulla famiglia nella gestione del paziente con DSD, è opportuno ricordare quanto proprio per la famiglia e per il contorno familiare (spesso drammatica cassa di risonanza) sia devastante il confronto quasi sempre inatteso con situazioni del genere.
Il 31 % delle madri ed il 18 % dei padri di questi bambini riportano livelli critici di vere e proprie sindromi da stress post-traumatico. Percentuali del tutto simili a quelle di genitori di figli sopravvissuti al cancro.
Per cui, è necessaria da parte del clinico una comunicazione aperta, con un approccio empatico ma deciso, con spiegazioni molto dettagliate di quanto si andrà a fare e di quanto disagio questo comporterà sia al paziente che alla famiglia; evitare una terminologia ormai “vintage” come i termini “ambiguo”, “ermafroditismo”, “anomalie” (è ormai inammissibile leggere ancora oggi lettere di dimissione da Centri ritenuti di eccellenza, con diagnosi di “ambiguità genitale” …).
È necessario far capire ai genitori che non c’è nessuna fretta nel dare un nome e soprattutto una attribuzione anagrafica oltre che una identità sessuale, fino a che non si è definita una diagnosi. È anche altamente raccomandabile utilizzare termini neutri riferendosi al bambino che stiamo seguendo fino a che non si è definita l’assegnazione di sesso.
Come non bastassero le difficoltà tecniche che abbiamo in buona parte sin qui trattato, a rendere ancor più complesso ed estremamente fragile l’ipotetico castello di certezze che ci eravamo costruiti, possono intervenire fattori in parte imponderabili e relativi alla “identità” ed al “ruolo” di genere, in ossequio totale al principio di autodeterminazione, potenzialmente in grado di “sconfessare” e rendere vano tutto ciò che, anche dal punto di vista chirurgico, era stato precedentemente assemblato. Purtroppo, gran parte delle soluzioni chirurgiche in questo campo sono da considerarsi irreversibili.
E quindi, a rendere ancora più complesse e nello stesso tempo più drammatiche le nostre scelte contribuisce anche la possibilità che si verifichi una disforia di genere, una incongruenza di genere cioè, come viene definito “il grave malessere percepito da un individuo che non si riconosce nel proprio sesso fenotipico di nascita”. Quindi noi potremmo aver deciso, in ossequio al sesso genotipico di appartenenza ed alle caratteristiche anatomiche riscontrate, ed in età precoce, una connotazione maschile o femminile che potrebbe essere poi rigettata, più avanti, dal padrone del proprio corpo e della propria psiche.
L’esplosività potenziale di scelte così importanti può essere limitata negli effetti soltanto attraverso una condivisione tra esperti e famiglia ed attraverso il lavoro multidisciplinare di un “team” dedicato (in cui siano banditi personalismi e “primadonnismi”), ben sapendo che nemmeno questo ci rende completamente immuni da situazioni difficili e da condotte che potrebbero essere giudicate opinabili.
Il settore dei DSD è un vero labirinto di conoscenze, tipi e sottotipi di patologie in cui è rischioso e pericoloso avventurarsi se non se ne ha il completo ed aggiornato dominio culturale, se non si è in buona ed affidabile compagnia, e solo dopo aver scelto tutti insieme l’itinerario migliore.
Le insidie di un percorso di cura non ottimale e dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche sono, come ci insegna l’esperienza quotidiana, sempre dietro l’angolo.
Dott. Massimiliano Silveri, Responsabile U.O. Chirurgia Andrologica e Ginecologica, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS - Roma
Per la corrispondenza: massimiliano.silveri@opbg.net
BIBLIOGRAFIA
Snodgrass W, Bush NC. Persistent or recurrent ventral curvature after failed proximal hypospadias repair. J Pediatr Urol. 2019; 15: 344.e1-344.e6.