Dott. Lorenzo Paglione

Dipartimento di Prevenzione, ASL Roma 1

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2023-2024

Vol. 68, n° 2, Aprile - Giugno 2024

Simposio: Donna e Prevenzione

08 marzo 2024

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Determinanti urbanistico-architettonici di salute in un’ottica di genere

L. Paglione

“Ogni insediamento è un’iscrizione nello spazio delle relazioni sociali all’interno della società che lo ha costruito”

Jane Drake, Geografa


Si tratta di una premessa doverosa, in quanto, per poter analizzare il costruito, e comprendere l’impatto che la città ha come determinante di salute in un’ottica di genere, occorre prima di tutto chiarire il concetto che questa, la città, non è altro che una rappresentazione scritta dei rapporti sociali, che diventano cemento, pietra, asfalto. È possibile quindi già fare un primo parallelismo con la biomedicina, in quanto possiamo sostenere che, così come i farmaci vengono generalmente testati su un paziente tipo, classicamente maschio, bianco, anche la città “occidentale”, per come la conosciamo oggi, sia dal punto di vista organizzativo, ad esempio per quanto riguarda orari e funzionamento dei sistemi di mobilità, sia spaziale, in termini di pianificazione della sua struttura macroscopica e della disposizione degli elementi nel territorio, sia urbanistico architettonico, fino ad arrivare a come è pensato lo spazio “vuoto”, che è anche lo spazio pubblico, è fondamentalmente pensata per il maschio bianco lavoratore, tendenzialmente dotato di automobile, e che svolge mansioni fisse ad orari fissi.

Ma quindi, questa “iscrizione nello spazio delle relazioni sociali” non solo è un elemento legato alla produzione di questi rapporti, ma è anche un fattore di loro riproduzione nel tempo: lo spazio fisico plasma i rapporti sociali al suo interno. Non ovviamente in termini consapevoli o volontari, e nemmeno deterministici, ma agendo passivamente condizionando l’agire, le possibilità, perché restringe il campo di cosa le persone possono o non possono fare. Questo perché la città ha due componenti fondamentali, quella materiale, fatta di territorio, di spazialità, ma anche di pieni, come gli edifici, e quella immateriale, che riguarda sicuramente il tempo e le risorse, ma anche e soprattutto la percezione, la cultura, e ovviamente la struttura sociale e la socialità in generale.

Per capire queste dinamiche è utile fare degli esempi esplicativi, che, come tutti gli esempi, hanno il pregio di chiarire alcuni aspetti che ovviamente poi nella lettura della vita di tutti i giorni sfumano, ma si prestano a restare come possibili chiavi di lettura.

Un esempio di questa relazione tra ambiente costruito e struttura sociale è sicuramente la città dispersa statunitense, cresciuta a dismisura a partire dal secondo dopoguerra, e che ha costituito un pilastro fondamentale dello stile di vita americano: la grande casa, circondata da giardino, in un quartiere perbene, con l’automobile in garage o sul vialetto, nella felice cornice della famiglia nucleare, con il padre lavoratore pendolare e la madre casalinga. Oggi sono emersi tutti i limiti di questa strutturazione dello spazio, in quanto la lontananza dai servizi e la dipendenza dall’automobile hanno creato grandi periferie sterminate di anziani soli in grandissime case, ma già nella sua fase di sviluppo, questo modello mostrava evidenti problematiche legate ad esempio al lavoro di cura dei figli, che non potevano andare da soli a scuola in un quartiere senza marciapiedi, e che spesso dovevano essere accompagnati dalle madri su distanze lunghissime, in macchina, durante la normale routine quotidiana fatta di spostamenti in auto anche solo per andare a fare una piccola spesa. Per non parlare della socialità, frammentata e senza luoghi di aggregazione pubblici, che non fossero i giardini di altre famiglie. Su grande scala questo si è tradotto nella costruzione dell’enorme sistema autostradale statunitense, a partire dai grandi piani di Moses osteggiati a New York guarda caso proprio da attori sociali, ma anche intellettuali come Jane Jacobs, che provavano a ribaltare proprio la narrazione sull’urbano.

E allora abbiamo visto come proprio la strutturazione dello spazio sottragga risorse immateriali e materiali, tempo e soldi per gli spostamenti, soprattutto a chi, sempre per struttura sociale, non svolge quei ruoli attorno cui è sviluppata la città (come nel caso delle mamme che devono portare i figli a scuola e fare la spesa ad orari diversi da quelli del pendolarismo, e su traiettorie urbane per le quali non sono sviluppate infrastrutture o servizi specifici). E sappiamo come il potere, inteso in senso di poter scegliere, e di autodeterminazione sulle scelte della propria vita, è un fortissimo determinante sociale secondo Marmot. Ma anche come l’utilizzo dell’automobile, a scapito di forme di mobilità pubblica o attiva, comporti tutta una gamma di problemi di salute legati alle malattie croniche, dal diabete fino alle patologie psichiatriche. Torneremo su questo nelle conclusioni, in particolare in termini di prospettive.

E quindi proviamo ora ad affrontare, con altrettanti esempi, tre punti cardine di questo discorso sul rapporto tra città e salute in un’ottica di genere. Il primo riguarda il senso di “accessibilità come presupposto per la mobilità”. Il secondo il tema dell’“aggregazione e vivere collettivo”, il terzo “sicurezza e spazio pubblico”. Ciascuno di questi tre temi appunto è una possibile chiave di lettura femminista sull’urbano, e tutti e tre permettono di collegare appunto l’urbano al tema dell’equità, e quindi della salute.


1. Accessibilità come presupposto per la mobilità

Un esempio su tutti, il fatto che la maggior parte delle città, e Roma in particolare, non sono assolutamente adatte a muoversi portando un passeggino. Muoversi è un incubo, prendere i mezzi praticamente impossibile: per accedere alla metropolitana le scale mobili non sono per forza di cose praticabili, gli ascensori pochi, guasti e sporchi, mentre sui marciapiedi, quando ci sono, e quando non sono ingombri di ostacoli di tutti i tipi, dalle macchine parcheggiate fino ai tavolini, passando per arredi e sottoservizi disposti a casaccio, occorre comunque fare slalom cercando di restare su un fondo il meno possibile sconnesso. E quando si arriva infine agli attraversamenti si ritrovano ancora macchine parcheggiate davanti agli scivoli (quelle rare volte in cui ci sono), e ancora dislivelli, ridotta visibilità in attraversamento, percorsi pedonali discontinui e alternati. È una piccola cosa, ed effettivamente per modificare la città e renderla a misura di passeggino occorre, come visto, agire sulle piccole cose che fanno la fruibilità e accessibilità dello spazio pubblico, come migliorare gli attraversamenti, ridurre la velocità dei veicoli, disporre dissuasori per il parcheggio improprio, pensare ai percorsi pedonali come infrastrutture al pari delle altre forme di mobilità.

Ma il problema dei passeggini è anche il problema delle persone a ridotta mobilità, da chi si muove in carrozzina fino agli anziani, ma anche i bambini, ma soprattutto, è il problema di ciascuno e ciascuna di noi anche solo a causa di una gamba ingessata, o di problematiche di salute anche solo temporanee. È quindi un aspetto, quello dei passeggini, che se letto in ottica femminista ed intersezionale interroga il tema della vulnerabilità e delle traiettorie di vita, e quindi la proiezione temporale dell’arco della salute, e quindi il tema dell’equità. Così come la vulnerabilità può essere anche transitoria, così allora garantire accessibilità e fruizione dello spazio pubblico ai passeggini diventa motore di equità.


2. Aggregazione e vivere collettivo

Come accennato, l’urbano è leggibile anche attraverso il dualismo materiale-immateriale. Un altro aspetto di questo dualismo riguarda il rapporto tra pieni e vuoti. Il pieno sono gli edifici, i volumi nello spazio, ed è la modalità più frequente di rappresentazione e anche di “immaginazione” dell’urbano. Si pianificano i pieni, si celebrano i grandi architetti che elaborano complesse volumetrie monumentali. Ma il vuoto, ovvero lo spazio tra gli edifici, difficilmente rappresentabile, è lo spazio della vita, e richiede una pianificazione accurata anche più dei pieni. È lo spazio nel quale si sviluppano le relazioni sociali, è lo spazio della mobilità, lo spazio potenziale della partecipazione e della co-progettazione.

Soprattutto il vuoto, inteso come le piazze, le strade, i luoghi di aggregazione, lo spazio pubblico, non è uguale per tutti e tutte. A diverse età ad esempio mutano le esigenze di accessibilità ed aggregazione, ma a questo, nelle nostre città, corrisponde troppo spesso una diseguale disponibilità. Un esempio sono gli spazi per lo sport ed il tempo libero, quasi sempre pensati per le relazioni tra maschi, così come gli spazi per gli anziani, frammentati e isolati. In sostanza possiamo sostenere come sia profondamente differente l’uso che nello spazio si articola a seconda delle età e delle persone, il che comporta una differente geografia della città, così come una differente percezione della città.

Esistono ancora oggi, nella percezione così come nell’uso, spazi “riservati”, basti pensare alla differente percezione che abbiamo di una donna sola al bar o al ristorante o di un uomo solo al bar o al ristorante. Il che comporta inoltre atteggiamenti che sfociano nel victim blaming: “se ti ci avventuri è a tuo rischio e pericolo”, come ad esempio le frasi del tipo “perché sei passata proprio in quella strada?”. Ma in tal senso occorre comunque fare attenzione alla cosiddetta “rigenerazione urbana”, che a volte può comunque nascondere al di sotto elementi di mercificazione dello spazio con la scusa dell’accoglienza e dell’inclusività.

Il binomio inclusione-esclusione, così come la possibilità di utilizzare o meno dei luoghi, di accedervi e sentirvisi accolti e al sicuro, permettono di definire con chiarezza il legame che il vivere collettivo, inteso come la presenza di reti sociali, formali e informali, di supporto, ha direttamente con lo stato di salute e con la possibilità che le persone, in particolare quelle più fragili, hanno per evitare di restare incastrate nella trappola della povertà e dell’isolamento.


3. Sicurezza e spazio pubblico

Occorrerebbe in tal senso sviluppare una nuova forma di analisi geografica femminista della città. Ogni donna infatti interiorizza i percorsi, che danno vita a nuove geografie dei quartieri, e quasi sempre questi percorsi sono valutati sulla base di elementi legati alla sicurezza, in una forma di difesa dalle molestie quotidiane, attraverso sistemi di evitamento o resilienza, calcolando rischi e benefici. Vi è una differente percezione della città, che si riflette in una differente fruizione, in un differente uso, e questo fin da bambine, in un continuo farsi domande: a che orari dovrò utilizzare i mezzi pubblici? Con chi? Esco o non esco di casa oggi? Vado al parco a fare la passeggiata al tramonto? Come arrivo ai luoghi di aggregazione? Tutto questo comporta un continuo e costante carico di stress che condiziona l’agire, ed ha importanti ripercussioni sulla salute.

In tal senso la soluzione ci viene offerta ancora una volta da Jacobs, che sostiene come la sicurezza derivi dalla presenza di “occhi sulla strada”, che non sono le telecamere di sorveglianza, ma spazi sicuri perché frequentati e vitali, spazi arricchiti dalla familiarità pubblica urbana, quella fatta di conoscenze, anche se in prima apparenza superficiali, come il commerciante, il vicino, ecc, però di fatto fondamentali per costruire quella rete di supporto informale che non soltanto permette sicurezza per le donne, ma anche orientamento per i bambini e gli adolescenti, e capitale sociale contro l’isolamento degli anziani. Tutti fattori assolutamente collegati con lo stato di salute. Ancora una volta, come visto, è la cassetta degli attrezzi femminista a permetterci di avere uno sguardo più ampio sulla città, sulla vita delle persone, ed in definitiva su salute, equità ed inclusione sociale.

Per concludere, è utile riprendere quanto detto in apertura, per quanto riguarda la forma stessa della città che condiziona i rapporti sociali. Le nuove forme di socialità, genitorialità ed affettività che viviamo quotidianamente richiedono quindi nuovi spazi, pubblici come privati, capaci di accogliere questo nuovo vivere condiviso urbano, e che ancora una volta riguarda tutte e tutti: famiglie monocomponenti o monogenitoriali, anziani e co-housing, convivenze e abitare condiviso. Occorre ricordarsi inoltre come il lavoro di cura spesso ricada sulle donne, e come questo, nelle forme urbane attuali, voglia dire districarsi in un ambiente ostile, come visto, tra genitori/anziani e figli, spesso rinunciando al vivere sociale, con conseguente ritiro e dispersione di energia creatrice.

Occorre quindi rivedere e cambiare l’abitare, basarlo sulla realtà delle cose e non su un modello di abitante standardizzato, occorre cambiare le città per rigenerarle e basarle sul concetto di cura, intesa come cura del territorio, cura della socialità, cura delle persone e di sé stessi. Ripensare i percorsi, ripensare il costruito, ripensare l’accessibilità dello spazio pubblico da un punto di vista materiale e immateriale, e tutto questo dando voce a queste nuove esigenze per trasformarle in prospettive progettuali.

Mettere quindi la salute e la cura al centro di una reale rigenerazione attraverso gli elementi dell’aggregazione e del capitale sociale, dell’accessibilità e della mobilità attiva, dell’equità e dell’inclusione, della sicurezza intesa in senso di benessere psicofisico, il tutto partendo dalle piccole cose basilari per la vita.


Dott. Lorenzo Paglione, Dipartimento di Prevenzione, ASL Roma 1

Per la corrispondenza: lorenzo.paglione@aslroma1.it