Anno Accademico 2023-2024

Vol. 68, n° 2, Aprile - Giugno 2024

Conferenza: Diabete ed interculturalità

12 marzo 2024

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Diabete ed interculturalità

R. Giordano

Nell’introdurre questa trattazione scientifica su “diabete ed interculturalità” bisogna fare una premessa. La diversità culturale va pensata sempre come risorsa positiva per i complessi processi di crescita della società e delle persone. Promuovere una “educazione alla interculturalità” potrebbe delinearsi come una specie di promozione verso i difficili processi di crescita della società e delle persone, passando attraverso l’accettazione ed il rispetto del “diverso” e transitando prima di tutto verso il riconoscimento della sua identità culturale nella ricerca continuativa di dialogo, comprensione, collaborazione in una prospettiva di reciproco arricchimento. Quindi va usato il termine INTERCULTURALITÀ invece di multiculturalità e bisogna impegnarsi a passare dalla Multiculturalità alla Interculturalità.

Quindi veniamo ad occuparci del diabete e della necessità nella gestione di questa patologia di tenere conto dei fattori culturali ed etnici. L’epidemia di diabete è in continua crescita nel mondo. Voler provare a segnalare i numeri si rischia continuamente che quando esce la pubblicazione scientifica il dato è stato già superato. La stima attuale è di 540 milioni di diabetici diagnosticati nel mondo con una ipotesi di crescita importante da qui al 2045. L’International Diabetes Federation (IDF) nel 2021 ha calcolato che nel mondo c’erano 536,6 milioni di persone tra 20 e 79 anni (il 9,2% degli adulti) diabetici e che un ulteriore 1,2 milioni di bambini e adolescenti (0-19 anni) aveva il diabete di tipo 1. Il numero di adulti con diabete è inoltre destinato ad aumentare fino ad oltre 642 milioni nel 2030 e l’ultima stima parla di ben 783 milioni di persone con diabete nel 2045. Nel 2021 le morti attribuibili al diabete, tra 20 e 79 anni, sono state 6,7 milioni con il 32,6% del totale nei soggetti di età inferiore ai 60 anni. 240 sono invece i milioni di persone con diabete non ancora diagnosticate ma con la patologia in atto.

Veniamo all’Italia dove gli ultimi dati ISTAT (del 2023) dicono che la popolazione è di 59 milioni scarsi e che gli stranieri sono circa un decimo della popolazione. Quindi 58.997 milioni sono i residenti in Italia e gli immigrati-stranieri sono 5.050.000. Sono in calo gli italiani (-3.3) ed in aumento gli stranieri (+17.4), 8,7% nella popolazione, con un incremento di oltre 500 mila rispetto all’anno precedente. Tra questi il 33% sono di fede islamica. Ora veniamo ai numeri del diabete in Italia. Il 5,5% della popolazione ha il diabete, ma la presenza nel territorio è molto disomogenea: ad esempio nel Lazio siamo al 10,3 % della popolazione con la patologia diabetica diagnosticata. E, dato enorme, quasi il 20% di questi diabetici sono di altra etnia.

Per fare una analisi del comportamento ed una fotografia dell’immigrato con diabete sono ancora validissimi i dati dello studio DAWN. Il primo dato che emerge da questo studio storico è che la distribuzione degli immigrati per classi di età  è notevolmente diversa da quella degli italiani. Infatti c’è una importante concentrazione nella fascia di età sotto i 44 anni ed una quasi totale assenza nelle classi di età sopra i 65 anni. E questo dipende dalla minore età media degli immigrati rispetto alla popolazione italiana. Solo il 25% degli immigrati diabetici è al corrente di avere o di aver avuto parenti diabetici a fronte del 60% degli italiani, e questo fa capire che gli immigrati hanno una scarsa informazione sulla malattia. Prendere le medicine è il consiglio medico più seguito dalle persone di altre etnie con diabete, per contro il consiglio meno seguito è quello dell’attività fisica. Ma anche il rispetto dell’organizzazione giornaliera, l’autogestione della patologia, ed il seguire una dieta appropriata appaiono rispettati integralmente solo da minoranze e da certe etnie molto di più rispetto ad altre. Molto poco per esempio dai cinesi che chiedono indicazioni dietetiche molto precise e puntigliose, che poi non seguono rimanendo legati alle loro tradizioni. I pakistani invece per esempio vogliono diete con molti carboidrati e molto condite! Per i mussulmani ovviamente è fondamentale la gestione del Ramadan. Tra gli stranieri appare più complicato spesso arrivare ai Centri di Diabetologia e nell’assistenza è importante la barriera linguistica spesso aiutata dal “mediatore culturale”. Infine sono in numero maggiore i diabetici di tipo 1 rispetto agli italiani e il diabete gravidico è presente tra le immigrate nel 50% dei casi seguiti, ma questo dipende anche dal fatto che gli immigrati fanno più figli degli italiani.

E veniamo a quello che è il comportamento alimentare più importante collegato al diabete: il Ramadan. Per i musulmani quello di Ramadan è il mese sacro durante il quale il digiuno canonico (Sawm), uno dei cinque “pilastri” dell’Islam (il quarto, per l’esattezza), è obbligatorio per tutti. Il mese di Ramadan dura 29-30 giorni, durante i quali il consumo di cibo e di bevande è proibito dall’alba al tramonto. A seconda della stagione e della posizione geografica, ogni periodo di digiuno può durare da dieci a venti ore. È obbligatorio per tutti gli adulti musulmani (compresi gli adolescenti che hanno raggiunto l’età della pubertà), ma alcuni gruppi, come anziani o persone affette da patologie, prima tra tutte il diabete, sarebbero esentati dall’osservanza. Tra le persone con patologie sono incluse le persone con diabete, anche se molte di esse praticano comunque il digiuno a prescindere dall’esenzione. A causa della natura metabolica della malattia, le persone che vivono con il diabete sono tuttavia a maggior rischio di complicazioni da marcati cambiamenti nell’assunzione di cibo e liquidi. I potenziali pericoli per la salute includono ipoglicemia, iperglicemia, disidratazione e complicazioni metaboliche acute come la chetoacidosi diabetica (DKA). Inoltre, il digiuno del Ramadan non solo modifica l’orario dei pasti, ma può anche disturbare i modelli del sonno e i ritmi circadiani, tutti fattori che possono influenzare lo stato metabolico di un individuo. Si segnala poi un possibile carico extra di calorie: l’iftar, il pasto serale che interrompe il digiuno al tramonto, spesso è un momento di festa, con consumo di notevoli quantità di cibo carico di zuccheri e carboidrati, poiché c’è una variazione culturale nei cibi tradizionali consumati durante l’iftar. Un dietologo ben addestrato e al centro della gestione del diabete e del team di follow-up dovrebbe sempre tenerne conto. Se la restrizione assoluta dell’assunzione di liquidi tra l’alba e il tramonto è un aspetto integrale del Ramadan, ciò può avere conseguenze potenzialmente importanti, in particolare negli individui con diabete scarsamente controllato. Alcuni effetti che devono essere affrontati, in individui altrimenti sani, sono l’entità della perdita di liquidi ed elettroliti durante le giornate di digiuno e i potenziali effetti avversi o benefici che quello può avere sulla persona. Cambiamenti che possono avere un impatto sui livelli ormonali e sui loro normali ritmi. Talvolta si registrano anche cambiamenti fisiologici favorevoli tra gli individui sani, come calo ponderale e miglioramenti del profilo lipidico. Nelle persone con diabete, tuttavia, il digiuno del Ramadan può essere associato ad alcuni rischi a causa della fisiopatologia che interrompe i normali meccanismi omeostatici del glucosio.

Parlando invece di una possibilità di linee guida farmacologiche diverse in rapporto alle etnie, bisogna notare che esistono delle obiettive differenze nel funzionamento di alcuni farmaci collegate alle etnie. Infatti in molte delle etnie immigrate prevale come causa patogenetica del diabete tipo 2 il deficit della prima fase di secrezione insulinica più che l’esistenza di insulinoresistenza. A questo specifico difetto va associata l’abitudine alimentare di assumere molti carboidrati. Ecco perché specialmente nei paesi del sud est asiatico l’acarbose viene usato più della metformina proprio per l’azione sulla iperglicemia post prandiale. Oltretutto negli asiatici l’acarbosio da molti meno effetti negativi gastro intestinali della metformina. Ci sono altri studi sui DDP4 che segnalano che alcuni di essi come il vildagliptin ma non solo, o il pioglitazone funzionino di più in certe etnie (tipo nativi d’America o negli americani di colore).

Poi nelle scelte farmacologiche non bisogna dimenticare quelle di tipo economico. Quasi tutte le linee guida europee ed americane hanno praticamente cancellato le sulfaniluree sia come farmaci di prima scelta che come farmaci di seconda o terza scelta mettendo al primo posto nell’utilizzo oltre alla metformina gli analoghi GLP1 e i SGLT2. Viceversa le linee guida mondiali IDF e le prescrizioni in real world di buona parte del mondo “meno ricco” continuano ad utilizzare in particolare Glicazide e repaglinide.

Oltretutto per me che mi occupo di Comunicazione è molto importante ricordare che il “non verbale”, il “paraverbale” ed anche la comprensione del verbale cambiano in modo importante nelle varie culture. Tra i fattori che condizionano la gestione comunicativa della patologia ci sono:
- la ridotta health literacy (che porta ad una ridotta comprensione dell’importanza del controllo glicemico e del significato dei valori ottenuti);
- le difficoltà culturali rispetto alle patologie croniche (diabete silente);
- la preferenza per modelli di cura centrati sulla famiglia e non sulla persona;
- le possibili barriere nella relazione tra medico/paziente (lingua/linguaggio, aspettative sul ruolo, malattia/salute).

Quindi se il 20% dei pazienti che frequentano gli Ambulatori di Diabetologia in Italia sono di altra etnia (questo dato è del 2023 ed è stato raccolto dagli Annali AMD) bisogna che il medico presti molta attenzione e adegui la sua comunicazione, le prescrizioni terapeutiche e dietetiche, le indicazioni sullo stile di vita alle varie etnie per poter mantenere una giusta compliance, favorire l’aderenza, ridurre l’inerzia e ovviamente combattere il proprio burn out e quello del paziente. Tante sono le sfide e tra queste c’è quella della gestione dell’interculturalità in questa patologia cronica, il diabete, che colpisce una persona su dieci nel Mondo!!!!.


Prof. Renato Giordano, UOC di Diabetologia e Dietologia ASL Roma 1

Per la corrispondenza: regiordano.rg@gmail.com; regiordano@libero.it

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