Dott.ssa Gabriella Parisi

Direttore f.f. U.O.C. Microbiologia, Az. Osp. San Camillo-Forlanini, Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2015-2016

Vol. 60, n° 1, Gennaio - Marzo 2016

Simposio: Clostridium difficile: una infezione emergente

12 gennaio 2016

Copertina Atti primo trimestre 2016.jpg

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Epidemiologia, diagnosi microbiologica e clinica della infezione da Clostridium difficile

D. Orazi, G. Parisi, A. Kohn, L. Gasbarrone

Epidemiologia e prevenzione della infezione da Clostridium Difficile.

L’infezione da Clostridium Difficile (CD),  CD associated disease (CDAD) o infezione da CD (CDI) è una  vera  e  propria  epidemia  che  sta colpendo oramai tutta l’Europa in maniera abbastanza  indiscriminata. 

L’allarme è stato recepito anche dal Parlamento europeo1 che nel 2014 ha ospitato l’incontro di ben 90 “tecnici” provenienti da tutto il continente, infettivologi, epidemiologi, esperti di economia sanitaria e microbiologi, per discutere di questa emergenza sanitaria, stante l’impatto medico ed economico determinato dalla infezione:

  • un paziente con CDI prolunga l’ospedalizzazione mediamente per 2 settimane in più rispetto alla patologia causa del ricovero;
  • dal 2006 al 2014 in tutta l’Europa sono stati registrati il 70% di casi in più, con un costo economico complessivo di 5 miliardi di euro e con ulteriori ricadute negative in considerazione di eventuali aspetti risarcitori.

La CDI costituisce una delle principali cause di diarrea acquisita in ospedale (Hospital Acquired Infection, HAI); tipicamente colpisce pazienti fragiliospedalizzati con una lunga storia di trattamenti sanitari, molto spesso anziani. Si può avere una sintomatologia da lieve a moderata, ma in molti casi sempre più frequenti l’infezione si associa a quadri gravi che talvolta hanno esito fatale: il 10 - 15% di questi pazienti va incontro al decesso circa 30 giorni dopo la diagnosi2.

Il trend della infezione è in aumento sia in Europa che in Canada e negli USA, per cui il Parlamento Europeo è stato indotto ad intraprendere una risoluzione che invita gli stati membri e l’unione europea a fare di più per affrontare la CDI negli ospedali, poiché questa rappresenta una delle prime 10 cause di HAI. L’incontro del panel di esperti europei ha coinciso con la pubblicazione su The Lancet Infectious Disease di EUCLID3, uno studio multicentrico prospettico biannuale sulla prevalenza della CDI in pazienti ospedalizzati con diarrea. Lo studio, che ha raccolto dati provenienti da 482 ospedali di 20 paesi in Europa, costituisce il più grande studio europeo in merito, e pone attenzione ad alcune problematiche di fondo:

  • circa 40.000 nuovi casi ogni anno non vengono diagnosticati, dando luogo ad una preoccupante sottostima di rilievo
  • i tassi di prevalenza sono molto più elevati di quelli riportati negli studi passati, sottolineando il trend in incremento
  • la necessità di standardizzazione delle metodiche di diagnosi è quindi mandatoria.

Alcune caratteristiche del CD devono essere necessariamente riassunte per comprendere meglio le modalità di diffusione della malattia. Il CD è un batterio anaerobio produttore di spore; il paziente infetto ospedalizzato dissemina le spore nell’ambiente; le spore prodotte dal CD possono sopravvivere molti mesi sulle superfici degli ambienti.

La trasmissione della infezione avviene per via fecale - orale da operatori sanitari, superfici ambientali contaminate, pazienti stessi. Il serbatoio di CD è quindi costituito dalle persone infette, sintomatiche o asintomatiche (serbatoio umano) o dall’ambiente contaminato (serbatoio ambientale).

Inoltre costituiscono fattori di rischio per l’infezione specifiche situazioni, quali l’esposizione a terapia antibiotica nei mesi precedenti, in particolare fluorochinoloni, cefalosporine di terza generazione, clindamicina, i ricoveri ripetuti in strutture sanitarie anche di lungodegenza, così come le condizioni cliniche del paziente quali le comorbidità, l’età > 65 anni, i trattamenti chemioterapici e immunosoppressivi, la presenza di sondino naso-gastrico, la recente chirurgia di qualunque tipo e la terapia con inibitori di pompa.

Vista l’emergenza del problema, appare quindi importante prendere in considerazione le modalità per prevenire la malattia. Quali strategie di prevenzione dovrebbero quindi essere applicate? Sono fondamentali la sorveglianza, in genere effettuata per tutte le infezioni nosocomiali, una corretta e precoce identificazione microbiologica del germe, una corretta conoscenza e applicazione delle misure di precauzione da contatto, l’igiene delle mani correttamente eseguita, una buona sanificazione ambientale, una corretta politica antimicrobica ed infine l’educazione/informazione da parte di tutto il personale verso pazienti, visitatori, familiari. Solo il coinvolgimento e la consapevolezza di tutti gli attori in causa permette l’efficacia delle misure adottate.

Quando parliamo di CDI come associata alle cure sanitarie? Se la sintomatologia insorge in ambiente di ricovero dopo almeno tre giorni dalla ammissione o successivamente, o se insorge in ambiente comunitario entro quattro settimane dalla dimissione da una struttura sanitaria; si parla invece di CDI come infezione comunitaria se i sintomi insorgono al di fuori di qualunque ambiente di ricovero e in assenza di ricovero nelle precedenti dodici settimane, o al primo/secondo giorno di ricovero in struttura sanitaria in assenza di ricovero in strutture sanitarie nelle precedenti dodici settimane.

Le strutture sanitarie dovrebbero comunque dotarsi di un programma di sorveglianza della CDI, il cui scopo è non solo il monitoraggio locale della infezione ma anche la raccolta dati delle diverse realtà per configurare l’impatto globale determinato sui sistemi sanitari; solo l’aggregazione dei singoli dati permette di identificare caratteristiche epidemiologiche e microbiologiche complete della CDI. Mediamente in 300 strutture di ricovero europee con il 100% di occupazione di posti letto possono essere prevedibili sette casi di CDI ogni 3 mesi, ventotto in un anno, con una incidenza di tre casi di CDI/10.000 pazienti per anno. Un sistema singolo di sorveglianza dovrebbe contemplare al minimo tre mesi continuativi di rilievi, preferibilmente da ottobre a dicembre o da gennaio a marzo; è però raccomandata una sorveglianza attiva per dodici mesi, cominciando dal primo giorno del mese, ai fini della completezza dei dati raccolti.

Condurre la sorveglianza delle CDI è fondamentale per determinare i tassi di infezione specifici e fornire una misura del peso delle suddette infezioni nella struttura sanitaria. I dati ottenuti dalla sorveglianza sono essenziali anche per valutare l’efficacia degli interventi di prevenzione attuati. I tassi delle CDI possono essere un utile strumento per migliorare l’aderenza alle misure di prevenzione4.

Quali sono in particolare le idonee misure di prevenzione della trasmissione della CDI? In primo luogo le precauzioni da contatto, quindi:

  • posizionare i pazienti affetti in camere singole quando disponibili;
  • quando le camere singole non siano disponibili applicare il cohorting dei pazienti, raggruppando nelle stesse stanze pazienti con la stessa infezione, ma non con altri organismi epidemiologicamente rilevanti, ad esempio, VRE, MRSA;
  • assicurare che i dispositivi di protezione individuale, attrezzature dedicate e prodotti per l’igiene delle mani siano prontamente disponibili;
  • indossare camice monouso e guanti al momento dell’ingresso nella stanza del paziente; i guanti devono essere sostituiti immediatamente se visibilmente sporchi, dopo aver toccato o manipolato superfici o materiali contaminati o dopo il passaggio da un intervento sporco ad un intervento pulito;
  • utilizzare attrezzature dedicate per l’assistenza al paziente (es.: stetoscopi, sfigmomanometri), ove possibile;
  • rimuovere camice e guanti prima di uscire dalla stanza;
  • effettuare sempre l’igiene delle mani quando ci si sposta da un paziente all’altro;
  • effettuare l’igiene delle mani secondo CDC o WHO all’uscita dalla stanza del paziente;
  • applicare le precauzioni da contatto per tutta la durata della malattia durante l’assistenza e continuare per almeno 48 h dopo la risoluzione della diarrea e se possibile fino alla dimissione del paziente;
  • assicurare adeguati e specifici protocolli per la sanificazione di superfici e attrezzature: le spore del CD contaminano l’ambiente e le attrezzature utilizzate per l’assistenza e sopravvivono a lungo; le superfici e le attrezzature contaminate sono potenziali serbatoi per la trasmissione;
  • dedicare presidi per l’assistenza del paziente non critico (bracciali per la misurazione della pressione arteriosa, stetoscopi e termometri etc.).

In ogni caso è fondamentale l’attenzione al problema, quindi sospettare l’infezione in ogni caso di diagnosi non chiara, ed effettuare la notifica immediata da parte del laboratorio sia al servizio di controllo delle infezioni sia alla unità operativa interessata, al fine di mettere in atto in maniera tempestiva le precauzioni da contatto. Inoltre è necessario comunicare sempre lo stato di infezione da CD durante il trasferimento del paziente ad altre strutture sanitarie sia interne che esterne in modo che possano essere ovunque implementate le precauzioni appropriate.

E’ evidente quindi come la formazione degli operatori sanitari sia fondamentale: se non si conosce il problema non lo si può affrontare e contenere. E’ altresì importante che anche pazienti e familiari siano edotti circa le misure di prevenzione da adottare attraverso programmi di educazione/Informazione. La misura della aderenza alle raccomandazioni del CDC e dell’OMS sull’igiene delle mani e sulla applicazione delle precauzioni da contatto può costituire un utile indice del rischio a cui si pone ogni singola struttura sanitaria.

Diagnosi microbiologica

       Il CD, bacillo anaerobio, gram positivo e sporigeno, fu descritto per la prima volta nel 1893 da Finney, successivamente identificato come Bacillus difficilis nelle feci di neonati asintomatici nel 1935 da Hall & O’Toole. Solo nel 1978 Bartlett riconobbe un ruolo eziologico del CD nella colite pseudo membranosa e ad alcuni anni dopo, nel 1984, risale l’identificazione delle tossine A e B prodotte da CD. Il CD può esseretossinogenico, ovvero produttore di tossina A o enterotossina e di tossina B o citotossina, oppure non produttore di tossine, quindi non tossinogenico. I ceppi tossinogenici, i soli responsabili della malattia, sono diversamente identificati a seconda della diversa produzione di tossine: possono produrle entrambe (A+ B+) o una sola (A+ B-; A- B+). Tutti i ceppi hanno in comune un enzima, la glutammato deidrogenasi (GDH), codificato da un gene molto conservato5.

CD è stato isolato con maggiore frequenza dal suolo (21%), animali domestici (7%) e ospedali (20%). Molto significativa è stata la positività dell’87,5% delle acque dei fiumi e del 46,7% delle acque dei laghi, così come il 50% delle piscine, 2,4% di verdure crude e 2,2% delle superfici in case private6.

Le spore, che sopravvivono a lungo, sono riscontrate nel 70% dei neonati, nel 3-10% dei bambini di 3 anni, nel 3% (1,5-15,4) degli adulti in comunità e nel 10-25% degli adulti ricoverati nei nosocomi, dei quali il 37-40% svilupperà diarrea.

Fattori di rischio per lo sviluppo della malattia da CD sono costituiti da:

  • Età (> 65 anni, più significativo se > 80 anni); tuttavia il sistema di sorveglianza inglese nel 2007 ha rilevato un aumento del 20% di infezioni nella popolazione  < 60 anni
  • Terapia (chemio) antibiotica (polichemioterapia)
  • Comorbidità gravi (ad es. insufficienza renale cronica, fibrosi cistica, ecc.)
  • Chirurgia addominale, tubo nasogastrico
  • Antiacidi, PPI (soppressione secrezione acida gastrica)
  • Durata degenza, contiguità con pazienti infetti
  • Reparti a rischio: oncoematologie, geriatrie7.

Virtualmente ogni antibiotico può essere associato con l’insorgenza di CDAD. Nella pratica alcuni antibiotici, ad esempio il cotrimoxazolo, sono raramente all’origine del problema. I fluorchinoloni (FQs) sono il fattore di rischio predominante per la diarrea associata a CD e per epidemie da ribotipo 0278. Terapie antibiotiche effettuate con farmaci ad ampio spettro d’azione, che alterano la normale flora batterica intestinale, riducono la resistenza alla colonizzazione da CD. Nel 2000 l’interessante esperienza di un ospedale australiano ha evidenziato che, modificando la politica d’uso degli antibiotici, l’incidenza di CDAD è diminuita da 2,09 a 0,87 casi per 1.000 dimessi9. Anche ampicillina, clindamicina e cefalosporine sono considerati antibiotici predisponenti.

La malattia è causata dalle tossine A e B; l’importanza della tossina binaria rimane incerta. La diffusione di CD è ubiquitaria: 5-15% degli adulti sani può esserne portatore. Si è registrata nel tempo una aumentata incidenza: negli ospedali si ha una prevalenza del 5-25% a seconda del setting assistenziale, nelle residenze sanitarie a lungo termine si arriva al 57%, facilmente si sviluppano focolai epidemici a causa della resistenza delle spore e della trasmissione fra pazienti; in queste epidemie spesso severe l’indice di mortalità è alto, 2-20%, dipendendo dal ceppo e dall’età.

Perché quindi il CD rappresenta una emergenza? E’ aumentata l’incidenza della malattia, sono aumentati i casi gravi, le ricadute e la mortalità; inoltre vi sono in circolazione nuovi ceppi epidemici ipervirulenti e resistenti agli antibiotici (FQs o MDR). Negli USA l’incidenza è passata da 3,85/1000 dimessi nel 2000 a 8,53/1000 dimessi nel 2009, con un picco in età > a 85 anni per quest’ultimo anno di circa 20/1000 dimessi10. L’Italia con 50.546 casi registrati annualmente si colloca al terzo posto dopo Inghilterra e Francia ma prima di Germania e Spagna.

Le infezioni acquisite in comunità sono in aumento: il numero dei casi descritti in letteratura è variabile, ma comunque in aumento11-13.

Passiamo ad esaminare le tossine responsabili della sintomatologia clinica. La tossina A provoca secrezioni intestinali, danno alle mucose ed infiammazione; in vitro richiama polimorfonucleati e ciò giustificherebbe la marcata infiammazione nella colite pseudo membranosa.

La tossina B ha un effetto citopatico ed ha un’azione patogena 1000 volte più potente della tossina A. Vi sono comunque ceppi di CD non produttori di tossine e che non sono patogeni. Il meccanismo tossico si verifica a seguito del legame con recettori glicoproteici presenti sulla membrana degli enterociti.

La patogenicità di CDsi basa sull'azione di almeno una delle due grandi esotossine prodotte e secrete dal batterio stesso, denominate tossina A (TcdA) e tossina B (TcdB), che appartengono alla famiglia delle glicotossine. Inoltre, una tossina con attività ADP-ribosiltransferasica actino-specifica, tossina binaria (CDT), è stata individuata ed identificata in alcuni ceppi di CD anche se il suo ruolo patogenetico non è ancora stato completamente chiarito.

Le tossine A e B sono codificate rispettivamente dai geni tcdA e tcdB. Essi sono localizzati in un locus di 19,6 KB denominato locus di patogenicità (PaLoc). Tre ulteriori geni, tcdC, tcdD e tcdE che codificano per un regolatore negativo (tcdC) e uno positivo (tcdD), nonché per una proteina che facilita la secrezione delle due tossine (tcdE) sono localizzati in questo locus.

E’ del 2010 l’identificazione di un ceppo ipervirulento di CD e PCR ribotype 027/North American pulse-field type 1 (NAP-1) che ha provocato coliti severe e alto grado di mortalità più degli altri ceppi. L’aumento della virulenza può essere dovuto alla mutazione genetica nel gene regolatore di tossina (tcdC) che provoca una iperproduzione di tossina A e B; inoltre produce una tossina binaria associata a diarrea severa. Ne derivano ceppi tossinogeni diversi in base alle diverse tossine prodotte (Tab. 1) con diversa distribuzione nelle popolazioni14-16.

Dei ceppi ipervirulenti lo 027 è diffuso globalmente e a partire dal 2000 è attualmente predominante negli USA, è causa di epidemie e di gravi infezioni nosocomiali, presenta una elevata produzione di tossine A e B varianti, di tossina binaria, ha una sporulazione robusta e precoce, dimostra resistenza ai FQs, il cui uso è significativamente associato a CDI da 027. E’ un ceppo diffuso anche in Europa3.

La maggior parte dei ceppi ipervirulenti in EU appartiene al PCR-ribotype emergente 078, che produce tossine varianti e tossina binaria; è responsabile di infezioni in ambito ospedaliero e nella comunità in pazienti con età

Lo 018 non presenta variazioni nel PaLoc; è causa di outbreaks ed infezioni nosocomiali in pazienti con età >65 anni. Polmoniti ed uso di FQs sono significativamente associati ad infezioni gravi da 018; il 90% dei ceppi è MDR (ERY, MXF, RIF)16,17.

In Italia in 144 isolati clinici collezionati dall’ISS dal 2007 al 2012 nel 70% dei casi era presente il ceppo 018, nel 9% il ceppo 078 e a seguire in minore percentuale gli altri. Emilia Romagna, Lombardia e Toscana erano le regioni con il maggior numero di segnalazioni.

CD è causa di infezioni anche negli animali, in cavalli, cani, maiali, vitelli; è stato isolato da in quasi tutti i mammiferi, nei polli, tacchini, ostriche; molti ceppi sono di comune riscontro sia negli uomini che negli animali, cani e maiali geneticamente correlati, tanto da ipotizzare una trasmissione zoonotica6,18-20.

CD è presente anche negli alimenti, carne di manzo, vitello, maiale, pollo, tacchino, vegetali e frutti di  mare, prevalentemente per i ceppi 078 e 027, ma la trasmissione dal cibo non è al momento dimostrata6.

La diagnosi microbiologica non è ancora uno standard per tutti i laboratori di microbiologia poiché mancano Linee Guida unificate sia a livello regionale, nazionale che europeo. Alcuni laboratori stanno rivedendo le procedure interne di isolamento del CD, altri rimangono in attesa; dubbio è il significato diagnostico della ricerca del GDH soprattutto per quei laboratori che effettuano solo la ricerca delle tossine.

La diagnosi microbiologica si effettua sul materiale fecale mediante:

  • coltura per identificazione e tipizzazione del CD, per antibiogramma e tossinogenesi;
  • ricerca dell’antigene mediante latex test, EIA, IC
  • ricerca delle tossine mediante TCCA, EEIA, IC
  • ricerca dei geni codificantI per le tossine.

Per poter effettuare test attendibili, il campione di feci deve essere idoneo: feci diarroiche, che assumono la forma del contenitore, secondo i dettami della Bristol Stool Chart (feci del tipo 5, 6, 7). Non sono idonei campioni di feci formate o il tampone rettale. Il campione deve essere inviato in laboratorio entro 1 ora dall’emissione, altrimenti può essere conservato a +4°C per non più di 48 ore. In laboratorio la conservazione a -20°C (specie in presenza di ripetuti scongelamenti) compromette l’integrità delle tossine eventualmente presenti nel campione. In caso di indagine colturale il campione può essere mantenuto a temperatura ambiente senza pregiudizio per la vitalità delle spore di CD.

Ricordiamo che vanno sottoposti al test i pazienti con diarrea se: insorta dopo 48-72 ore dal ricovero con almeno tre scariche nell’arco delle 24 ore o se presente al ricovero/insorta entro 48 ore dal ricovero se provenienti da residenze sanitarie o dimessi da non oltre 4 settimane in terapia antibiotica o con diarrea severa, specie se anziani. Il test non va chiesto in caso di paziente asintomatico o di età < 2 anni. Il test non deve essere ripetuto nel corso del trattamento e neppure a fine trattamento (test of cure).

La coltura delle feci prevede la semina del campione, previo arricchimento, su terreni selettivi/differenziali. L’identificazione di specie si avvale di semplici criteri morfologici e organolettici (aspetto delle colonie, odore caratteristico). È attualmente ritenuto il test più sensibile e anche specifico a condizione che venga saggiata la capacità degli isolati di produrre tossine (coltura tossinogenica)

A causa del tempo richiesto (coltura più identificazione) non è indicata quale test di screening. Ha un’insostituibile valenza epidemiologica.

L’esame colturale è il più sensibile, in terreno selettivo à CCFA (Cicloserina-Cefoxitina-Fruttosio Agar) dà luogo ad una tipica fluorescenza giallo-verde sotto UV. Il limite consiste nella non distinzione tra ceppi tossinogenici e non e tempo di esecuzione molto lungo (48-72 h).

Il test di sensibilità in vitro agli antimicrobici si effettua con EUCAST Clinical Breakpoint. Il 55% degli isolati clinici resistenti è multi resistente8.

Fino al 2010 il gold standard per la diagnosi era costituito dal test di citotossicità basato sulla ricerca della tossina B nelle feci attraverso lo studio dell’effetto citopatico su colture cellulari (cellule Vero) e conferma con test di neutralizzazione con antisiero; il tempo di esecuzione di circa 72 ore ne rende impraticabile l’esecuzione in urgenza. Quindi si eseguiva di routine il test EIAs, con tempo di esecuzione circa 2 ore, più idoneo in casi urgenti21.

Dal 2011 il nuovo gold standard è la ricerca diretta della tossina nelle feci; ha una ottima sensibilità. Il GDH (Glutammate DeHydrogenase) test identifica un antigene comune espresso da tutti i ceppi; è un test rapido, si esegue in 15-45 minuti, conveniente, non costoso sensibile; non discrimina tra ceppi tossinogenici e non. L’enzima GDH, codificato dal gene Dglu, è prodotto in elevata quantità sia da ceppi tossinogenici che non tossinogenici di CD, e la sua rilevazione con anticorpi monoclonali murini permette di distinguere questo GDH da quello prodotto da altre specie batteriche, compresi altri Clostridi. Il test ha un alto valore predittivo negativo22.

Per la sua praticità e affidabilità la ricerca delle tossine A e B è il test più diffuso attualmente. Rispetto al test antigenico, risente maggiormente delle modalità di conservazione del campione perché le tossine si degradano piuttosto rapidamente. Come già detto è quindi necessario recapitare il campione al laboratorio nel più breve tempo possibile o conservarlo a 2 – 8°C nel caso non si possa eseguire il test immediatamente dopo la ricezione. Dati i problemi di stabilità della tossina è necessario dotarsi di un sistema ad alta sensibilità; non tutti i kit commerciali sono uguali e le sensibilità differiscono di molto: per la tossina A da 0.63 ng/ml a 7 ng/ml, per la tossina B: da 0.08 ng/ml a 7 ng/ml .

Il NAAT è un test rapido, della durata inferiore alle due ore, sensibile, ha un minimo limite di individuazione di 105 per grammo di feci. Il costo è purtroppo 5-10 volte superiore ai test EIA per la tossina A/B. Ha una sensibilità del 91% versus 67% di EIA e dell’84%-94% versus TC, simile a CCN. Individua il gene che codifica la tossina ma non la sua presenza nelle feci. E’ possibile una sovra-diagnosi nei portatori asintomatici. Inoltre la diagnostica molecolare non distingue tra patogeno vitale e non vitale, determina la presenza del gene per la produzione della tossina; sono stati riportati alcuni casi pediatrici positivi alla biologia molecolare, che non hanno mai espresso la tossina; in questi casi il trattamento antibiotico probabilmente non è necessario.

Nell’aprile del 2012 in Inghilterra sono stati pubblicati gli aggiornamenti delle linee guida per la diagnosi di CD. Queste raccomandazioni sono basate sulla letteratura corrente e sui dati ottenuti dal più grande e completo studio clinico mai condotto, uno studio prospettico su oltre 12.400 pazienti. La grande quantità di campioni vagliata ha permesso di determinare con grande precisione la sensibilità e la specificità di diversi prodotti commerciali per la rilevazione di C. difficile: due kit immunoenzimatici per la determinazione delle tossine (EIA), un kit per la rilevazione del gene della tossina (biologia molecolare o NAAT) e un kit immunoenzimatico per la determinazione della glutammato deidrogenasi (GDH) (EIA).

Questi dati, inoltre, sono stati utilizzati per determinare l'accuratezza degli algoritmi diagnostici per la diagnosi di laboratorio della CDI e la loro relazione con il decorso della malattia (morbilità e mortalità a 30 giorni). Riportiamo le conclusioni dello studio:

  1. i test per la determinazione della sola tossina non sono adatti alla diagnosi di CDI;
  2. il kit per la determinazione delle tossine TechLab Tox A/B II ha mostrato una sensibilità superiore (83.2%) rispetto al kit Meridian Premier Toxin A/B (67.0%);
  3. i campioni risultati positivi alla coltura tossinogenica (TC), ma negativi per al test TechLab Tox A/B II hanno mostrato risultati clinici simili a pazienti non affetti da CD; questo significa che la positività alla coltura non è sufficiente a garantire la presenza della malattia, inoltre dal confronto con i risultati clinici è emerso che lo screening NAT non è abbastanza specifico ai fini diagnostici;
  4. il test in biologia molecolare non è raccomandato né come test da usare da solo (stand-alone) né come test di conferma dal momento che è altamente sensibile, ma manca di specificità;
  5. l’algoritmo consigliato unisce GDH EIA (o NAAT / PCR) seguito da un test per la tossina che abbia la maggiore sensibilità possibile.

Nello studio il saggio  di citotossicità è il metodo di riferimento che meglio definisce i veri casi di CDI. È stato seguito algoritmo in due fasi: GDH + Tox A/B; nessun test è adatto per l'uso stand-alone, compreso il test molecolare GeneXpert che mostra un basso valore predittivo positivo (VPP). Nell’ambito della diagnosi di CDI la ricerca delle tossine è determinante. Il test Alere TechLab ha mostrato prestazioni superiori rispetto al test Meridian, con una sensibilità del 83,2% e del 66,9% rispettivamente23.

Lo studio EUCLID si propone di raccogliere i dati epidemiologici della CDI nelle popolazioni ospedalizzate in Europa che presentano diarrea per analizzare la distribuzione geografica dei ceppi di CD nei diversi paesi, l’incidenza della CDI ed eventuali problemi correlati a mancata esecuzione dei test e quindi a CDI sotto diagnosticata3.

Clinica della CDI

Il CD è molto diffuso nell’ambiente; alberga normalmente nell’acqua, nei cibi, nel suolo, nelle feci; si acquisisce attraverso l’ingestione delle spore, molto resistenti all’ambiente acido dello stomaco per poi riprodursi in forma vegetativa nel piccolo intestino; l’alterazione del normale equilibrio della flora intestinale, ad esempio in conseguenza dell’uso di antibiotici, ne permette la proliferazione. Le manifestazioni cliniche possono variare dalle forme asintomatiche del portatore, a diarrea severa, fino alla morte per colite fulminante da megacolon tossico. La variabilità della sintomatologia clinica dipende dalla interazione fra fattori protettivi, come una elevata risposta anticorpale alla tossina A, e fattori di rischio quali la presenza di comorbidità. Nel caso prevalgano i fattori protettivi, l’infezione può decorrere asintomatica o sviluppare una diarrea di lieve entità che si risolve per lo più spontaneamente in un soggetto che diventa portatore dell’infezione da CD e costituisce un possibile reservoir per la diffusione ospedaliera di CD. Nel caso prevalgano i fattori di rischio si sviluppa una CDI, che nel 60-95% dei casi in base alle condizioni cliniche dà luogo a guarigione e scarsa probabilità di recidiva, mentre nel 5-40% dei casi, in presenza di età > 65 anni, concomitanti terapie antibiotiche e serie comorbidità, può avere un decorso grave con elevata frequenza di recidive e reinfezioni.

In Europa lo 0-3% degli adulti è portatore asintomatico di CD che nello 0,6% è produttore di tossina; la frequenza aumenta in Paesi come il Giappone dove arriva al 15% della popolazione adulta. Nei pazienti ospedalizzati il numero dei portatori asintomatici arriva al 7-25% e nel caso di ceppi produttori di tossina fino al 2-8% dei ricoverati; la frequenza rimane elevata (4-20%) nei residenti in strutture sanitarie e in istituti di lunga degenza24.

Si definiscono pazienti con CDAD/CDI quelli che presentano diarrea e/o megacolon/ileo paralitico in presenza di uno più dei seguenti criteri:

  • Test di laboratorio positivo per tossina A o B/ o coltura /PCR positiva per ceppo tossigeno di CD
  • Colite pseudomembranosa diagnosticata endoscopicamente o all’atto chirurgico
  • Colite pseudomembranosa diagnosticata istologicamente.

Viene definita recidiva sintomatica un nuovo episodio entro 8 settimane dal primo. Dopo un primo episodio di CDI il rischio di recidiva è del 20%, dopo il secondo episodio è del 40% e in caso di più di due episodi successivi di CDI il rischio di recidiva sale al 60%25,26.

I fattori di rischio per CDI possono dipendere  - dall’ospite, più frequenti nell’età avanzata, nelle donne, in caso di comorbidità e condizioni di innunodepressione, - da alterazione del microbiota indotte da farmaci, antibiotici, chemioterapici, inibitori di pompa protonica immunosoppressori e da procedure invasive (chirurgia, clisteri, sondini naso-gastrici), - dalla frequenza di esposizione al CD in seguito a ricoveri ospedalieri o in strutture sanitarie e a scarsa igiene delle mani.

La patologia è ovunque in incremento. Dati preliminari dagli USA indicano che il numero di decessi in ospedale per enterocolite da CD come causa principale di morte è passato da 793 nel 1999 a 7483 nel 2008. Nella nostra realtà dati più recenti dimostrano che i soggetti con test positivo per antigene e tossina A e B del CD sono passati da 25/10.000 ricoveri nel 2011 a 47/10.000 ricoveri nel 201210,27,28.

Oltre ai fattori di rischio già menzionati, le possibili cause dell’incremento dei casi sembrano essere il maggior numero e complessità delle procedure correlate all’assistenza, il diverso profilo di rischio dei pazienti, l’aumentata incidenza di infezioni contratte al di fuori di strutture sanitarie e la possibile selezione di ceppi ipervirulenti di CD.

I quadri clinici variano da lievi/moderati caratterizzati da diarrea e altri segni o sintomi non compresi nella definizione di severità o complicazione, severi definiti dalla presenza di diarrea, albuminemia < 3 g/dl e leucociti ≥ 15.000/mm3 o dolorabilità addominale, e severi complicati con febbre > 38 °C, ipotensione, distensione addominale severa, leucociti ≥ 35.000/mm3 o < 2000/mm3, lattati > 2,2 mmol/l, stato confusionale, insufficienza d’organo e necessità di ricovero in terapia intensiva. Nelle forme severe, la mortalità totale è del 15% e quella correlata all’infezione è del 5%; nelle forme fulminanti la mortalità sale a valori intorno al 50%26.

La presenza di colite ulcerosa aumenta la mortalità di oltre due volte (26% rispetto a 10%)28,29.

La diagnosi corretta di CDI si fa solo in presenza di diarrea. Per tale motivo la ricerca del CD si effettua solo su feci liquide. Diversi studi hanno dimostrato che la ripetizione del test dopo un primo risultato negativo dà un risultato positivo in meno del 5% dei campioni testati; la ripetizione del test viene sconsigliata in quanto aumenta la probabilità di falsi positivi.

In caso di sospetto fondato di CDI deve essere iniziata terapia empirica indipendentemente dai risultati di laboratorio, poiché se il sospetto è fortemente fondato il valore predittivo negativo del test non è sufficientemente alto ad escludere con sicurezza l’infezione in questi pazienti26. Un atteggiamento terapeutico appropriato prevede di sospendere, se possibile, qualunque trattamento antibiotico concomitante e di non prescrivere antiperistaltici se non indispensabili e solo dopo avere iniziato il trattamento antibiotico per la CDI.

Nei pazienti con Malattie Infiammatorie Croniche Intestinali (MICI) la CDI è più spesso acquisita in comunità, senza una precedente storia di esposizione a terapie antibiotiche, più spesso in corso di trattamenti con farmaci immunomodulanti e steroidi; può essere una malattia grave con una mortalità più elevata e in alcuni casi può coinvolgere l’intestino tenue30.

La presenza di ceppi tossinogenici di CD è di riscontro frequente nei pazienti con MICI in fase di remissione (8,2%) con una eterogeneità dei ceppi identificati spiegabile con l’origine comunitaria della infezione da fonti molteplici. L’elevato numero di portatori asintomatici sembra legato ad alterazioni della immunità innata, ai fenomeni di disbiosi batterica e allo stato di cronica infiammazione della mucosa intestinale presente nelle MICI31.Nella popolazione pediatrica con MICI il fenomeno è più evidente con una frequenza di portatori asintomatici di CD che arriva al 17%32.

Non è chiaro se il rischio di riaccensione della malattia intestinale sia maggiore nei soggetti con MICI portatori di CD. La ricerca del CD nei pazienti ospedalizzati con MICI in fase attiva va sempre effettuata, mentre non è raccomandata nei pazienti ospedalizzati con la malattia intestinale in fase di remissione; i portatori asintomatici non vanno trattati ma isolati come le forme sintomatiche33.

In caso di colite severa, nei pazienti con MICI e sospetta infezione da CD si può iniziare simultaneamente la terapia empirica per la CDI e la terapia per la colite severa ancora prima del risultato del test di laboratorio. In caso di conferma di CDI non deve essere sospeso il trattamento steroideo o immunosoppressivo in corso per la MICI.

Dal punto di vista della gestione clinica della infezione vi sono alcune criticità per le quali necessitiamo di risposte concrete da studi clinici condotti nel “mondo reale” per poter applicare i risultati nei pazienti che si vedono nella pratica clinica. Abbiamo necessità di elementi predittivi della recidiva e della risposta alla terapia medica, soprattutto nelle forme severe e nei pazienti anziani, in vista della emergenza di nuovi ceppi batterici e di criteri clinici per selezionare i pazienti da avviare a colectomia urgente. Una parziale risposta a questi quesiti ci viene dalla recente proposta e validazione di uno score (ATLAS) basato su cinque variabili cliniche e di laboratorio, misurate al momento della diagnosi di CDI, che combinate in un sistema di punteggio sono in grado di predire la risposta alla terapia in modo da poter stratificare i pazienti per scegliere il trattamento appropriato e migliorare i tassi di guarigione34.

 



 

 Fig. 1: diffusione dei ceppi di CD nelle popolazioni

 Fig. 1: diffusione dei ceppi di CD nelle popolazioni (da "The Lancet" 2011; 377: 63-73)

 

 

 


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