Anno Accademico 2017-2018
Vol. 62, n° 3, Luglio - Settembre 2018
ECM: Cuore e Polmone 2018
27 marzo 2018
ECM: Cuore e Polmone 2018
27 marzo 2018
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La scoperta degli antimicrobici è stata un successo senza precedenti per la Medicina e la Società tutta; infatti meno di un secolo fa si moriva per malattie infettive che sono oggi perfettamente trattabili. I moderni risultati medici come la chirurgia maggiore, il trapianto di organi o la chemioterapia antitumorale non sarebbero possibili senza l'esistenza di trattamenti antimicrobici efficaci. Tuttavia, i nuovi meccanismi di antibioticoresistenza che stanno emergendo e diffondendosi a livello globale, minacciano le nostre capacità di trattare le malattie infettive in modo corretto, causando un prolungamento della malattia, disabilità e morte, aumentando in tal modo il costo dell’assistenza sanitaria.
Secondo una recente indagine della rivista “The Economist” nel 2050 le infezioni batteriche causeranno circa 10 milioni di morti ogni anno, superando i decessi per tumore (8,2 milioni), diabete (1,5 milioni), incidenti stradali (1,2 milioni) con una previsione di costi che potrebbe superare i 100 trilioni di dollari. Considerazione ben triste questa, se si pensa che Fleming ricevette il premio Nobel per la medicina nel 1945 per aver scoperto nel 1928 la penicillina. Ma già nel 1895 il capitano medico della Regia Marina Militare Italiana, Vincenzo Tiberio, aveva pubblicato sugli Annali di Igiene Sperimentale, una rivista edita solo in italiano, il suo lavoro sulle proprietà antibatteriche delle muffe, tra cui il Penicillium glaucum. Tiberio aveva sperimentato l'azione battericida degli estratti acquosi delle colture sia in vivo, su cavie e conigli, sia in coltura su stafilococco, sul batterio del tifo, carbonchio e colera.
Negli anni successivi videro la luce Cloramfenicolo, Aminoglicosidi, Cefalosporine, Tetracicline e Macrolidi (1950) poi Vancomicina, Chinoloni e Lincosanidi (1960), Trimetoprim-Sulfametossazolo e Rifampicina (1960) infine entrarono in commercio i Fluorchinoloni (1980) aprendo la strada al trattamento della maggior parte delle malattie infettive. Ma già nel 1943 erano presenti ceppi di Staphilococcus aureus PEN-R, nel 1967 di Streptococcus pneumoniae PEN-R e nel 1983 Enterococcus faecalis PEN-R; nel 1960 furono isolati ceppi di Staphylococcus aureus MET-R; nel 1992 l’Enterococcus spp era VAN-R e nel 1997 lo Staphylococcus aureus VAN-I; nel 1998 l’Enterococcus spp era Syn-R e nel 2000 l’Enterococcus spp era LIN-R. La penicillina, usata per decenni in tutto il mondo per trattare la polmonite, ha raggiunto una resistenza del 51%. Per questo il drastico rallentamento dall'inizio degli anni '80 ad oggi, nello sviluppo di nuovi antibiotici da parte delle industrie farmaceutiche e il crescente riscontro di germi multiresistenti ha destato serissime preoccupazioni nel mondo scientifico, sul prossimo futuro della terapia delle infezioni. Il rischio è quello di avere prognosi peggiori in termini di mortalità e di decorsi complicati oltre che prolungati. La percezione di questo problema, purtroppo, è ancora minima e spesso la convinzione è che il rischio sia solo teorico. L’OMS ha lanciato fin dall'ottobre 2015 il Global Antmicrobial Resistance Surveillance System (GLASS)1 per supportare un piano d'azione globale sulla resistenza antimicrobica. L'obiettivo è sostenere la sorveglianza e la ricerca dell’antibioticoresistenza a livello mondiale al fine di rafforzare e aiutare il processo decisionale e guidare le azioni regionali, nazionali e globali. Il GLASS promuove e sostiene un approccio standardizzato alla raccolta, all'analisi e alla condivisione dei dati dell’antibioticoresistenza a livello globale, incoraggiando e facilitando l'istituzione di sistemi nazionali di sorveglianza in grado di monitorare le tendenze dell’antibioticoresistenza e produrre dati affidabili e comparabili.
Una emergenza nell’emergenza è il gravissimo problema più volte sottolineato dall’OMS circa il riscontro di ceppi di Micobatteri tubercolari resistenti non solo agli antibiotici di prima linea ma anche di seconda linea con l’evidente impossibilità a trattare queste infezioni2.
Grecia, Italia e Romania sono i paesi europei dove è stata isolata, in media, la maggior quantità di batteri resistenti agli antibiotici che provocano ogni anno in Europa 4 milioni di infezioni e 37 mila morti. Nei Paesi scandinavi e in Olanda si hanno i tassi più bassi, nell'Europa meridionale i più alti: in sostanza va meglio dove i farmaci si usano di meno3. In Italia il livello di resistenza agli antibiotici è tra i più elevati d'Europa con una percentuale di pazienti infetti fra il 7 e il 10% (es. la resistenza di Klebsiella pneumoniae ai Carbapenemici da meno del 1% nel 2008 è passata al 34% nel 2013). I microrganismi interessati in maniera rilevante a questo fenomeno sono rappresentati dall’acronimo ESKAPE (Enterococcus spp., Staphilococcus aureus, Klebsiella pneumoniae, Acinetobacter baumannii, Pseudomonas aeruginosa, Enterobacter spp.)4. A preoccupare sono soprattutto le stime future che fanno pensare ad un fenomeno in crescita esponenziale legato all'utilizzo indiscriminato di antibiotici dentro e fuori i luoghi di cura, nonché in molti comparti della catena alimentare.
Anche nel nostro Paese ci si è mossi in maniera concreta nell’affrontare questa emergenza ed è del 2 novembre 2017 l’approvazione da parte del Ministero della Salute di concerto con le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano del Piano nazionale di contrasto all’Antibiotico Resistenza 2017-2020 (PNCAR)5. Gli obiettivi prefissati nel piano sono:
La resistenza non è semplicemente una conseguenza dell’uso degli antimicrobici ma parte integrante delle difese dei batteri, indica l’abilità di sopravvivere in un ambiente ostile e l’entità di utilizzo di un antibiotico ne condiziona la prevalenza. Tutto ciò comporta selezione di ceppi mutanti, spesso già durante la terapia, diffusione dei geni di resistenza tra i batteri, diffusione dei ceppi resistenti tra i pazienti in particolare nelle strutture per acuti, nelle lungodegenze e nelle residenze sanitarie assistite, dove il rischio di contagio inter-paziente di microrganismi multiresistenti è molto elevato. La resistenza può essere di due tipi: resistenza intrinseca, una resistenza già presente nel batterio ancora prima di assumere il farmaco, e resistenza acquisita o indotta che si sviluppa nel batterio solo dopo la somministrazione dell'antibiotico. L'abuso e il cattivo uso degli antibiotici hanno favorito lo sviluppo del fenomeno di resistenza acquisita e, più precisamente, l'instaurarsi della resistenza è dovuto a comportamenti sbagliati da parte dei pazienti e dei medici6. Per questo è stato introdotto il concetto di appropriatezza terapeutica: per valutare un trattamento essenzialmente dal punto di vista del rapporto costo-beneficio. Nella pratica clinica tale concetto si traduce in un uso appropriato del farmaco, attraverso la correttezza della diagnosi, ovvero l’individuazione corretta del problema clinico nel quale l’efficacia è stata dimostrata e che rappresenta l’indicazione dell’antibiotico. Essa si traduce in scelta del principio attivo, della dose, della durata e della via di somministrazione più opportuni, ma anche attraverso una scelta globale della strategia di utilizzo, che tenga in considerazione l’ecosistema nel suo complesso.
La terapia mirata rappresenta solo una piccola parte del totale delle terapie antibiotiche per diversi motivi: assente o tardivo ricorso agli esami microbiologici, risultati negativi per raccolta di campioni inadeguati o il precedente instaurarsi di terapia antinfettiva, mancanza di materiale adatto da inviare in Laboratorio. Nella maggioranza dei pazienti è necessario impostare da subito una terapia empirica, da trasformare in mirata appena possibile. In Pneumologia, così come nella maggior parte delle patologie infettive, vale il concetto di terapia antibiotica empirica. Questi protocolli hanno lo scopo di uniformare i comportamenti prescrittivi dei diversi medici per gruppi di pazienti con caratteristiche omogenee, prima dell’inizio di una terapia mirata, al fine di diminuire un uso improprio degli antibiotici che può determinare: sia l’insorgenza e la diffusione di fenomeni di resistenza, sia la comparsa di effetti collaterali (in primis l’enterite da Clostridium difficile). L’obiettivo primario in Pneumologia è permettere la facile identificazione di uno schema terapeutico congruo per scelta della molecola, dosaggio, durata e contenimento degli eventi avversi. Vari sono i fattori da considerare nella scelta della terapia antibiotica empirica appropriata:
- Gravità clinica in rapporto al tipo d’infezione
- Setting di comparsa dell’infezione
- Tipo e sede di infezione (necessità di copertura per Pseudomonas spp o MRSA)
- Comorbilità (diabete, BPCO, bronchiectasie etc.)
- Fattori di rischio per patogeni resistenti (colonizzazione con patogeni resistenti, uso di antibiotici nelle settimane/mesi precedenti)
- Dati di sorveglianza locale delle resistenze
- PK/PD dell’antibiotico
- Condizioni fisiopatologiche del paziente che possono incidere sulla variabilità PK dell’antibiotico
- Posologia e modalità di somministrazione dell’antibiotico in rapporto alla sua PK/PD
- Interazioni farmacologiche.
Nella pratica clinica, si può ottimizzare il regime posologico degli antibiotici (dose, via di somministrazione ed intervallo fra le dosi), correlando opportunamente le conoscenze di farmacocinetica e farmacodinamica relative a ciascuna classe di antibiotici (concentrazione o tempo-dipendenti). Esistono ormai numerose dimostrazioni in letteratura che questi indici, in maniera diversa per le varie classi di antibiotici e spesso anche per le molecole della stessa classe, correlano con l’efficacia clinica del trattamento antimicrobico, con l’eradicazione batteriologica, e talora con l’emergenza o la prevenzione della resistenza.
Per questo potrebbe essere richiesta copertura empirica anti-Pseudomonas nella neutropenia febbrile del paziente oncologico o per la polmonite associata a ventilazione meccanica o per la febbre di origine indeterminata nel paziente critico mentre generalmente non è richiesta nella polmonite comunitaria. La polmonite grave costituisce un ottimo esempio clinico nel quale la corretta impostazione e la tempestività della terapia empirica iniziale costituiscono fattori decisivi per determinare l’outcome e ridurre la mortalità.
La terapia ed in particolare la durata del trattamento sono un argomento non solo dibattuto ma anche controverso7, 8. Le valutazioni microbiologiche delle CAP pre/post trattamento sono scarse o aleatorie e la stessa "risposta clinica" è di difficile definizione per cui non sono utili per definire la durata del trattamento. La presenza di patologie concomitanti e/o batteriemia, la gravità del paziente all'inizio della terapia, il tipo di patogeno in causa sono variabili che rendono difficile la pianificazione e l'attuazione di studi che vogliano confrontare durate tradizionali rispetto a trattamenti più brevi. Si può pensare ad un trattamento di 2-3 settimane per Mycoplasma e Chlamydia, 21 giorni per Staphilococcus aureus, 21 giorni per la Legionella, 3-5 gg dopo lo sfebbramento per lo Pneumococco9. Negli ultimi anni la disponibilità di farmaci con migliore farmacocinetica (lunga emivita, migliore penetrazione tessutale) ha indotto ad esplorare per le CAP la possibilità di trattamenti più brevi. I vantaggi in termini di riduzione delle resistenze sembrano evidenti (il rischio di diventare portatori di pneumococchi a bassa sensibilità alla penicillina aumenta di 3-6 volte per trattamenti prolungati), così come la diminuzione della compliance, degli effetti collaterali e dei costi, in particolare per prevenire la temibile sovrapposizione dell’infezione da Clostridium difficile (CD)10. Infatti l'uso di fluorochinoloni, cefalosporine e clindamicina altera il microbioma in modo tale da aumentare la suscettibilità alle infezioni da CD. Le linee guida pubblicate dall’Infectious Diseases Society of America (IDSA) e dall’American Thoracic Society (ATS)11 nel 2007 raccomandano per la lunghezza del trattamento, invece di indicare a priori una durata ottimale, introducono il concetto di “stabilità clinica” come criterio di valutazione personalizzato per stabilire quando concludere la terapia antibiotica. Tra i criteri che permettono di stabilire il raggiungimento della stabilità clinica vi sono l’assenza di febbre per 48-72 ore e la stabilità di parametri emodinamici e respiratori11, 12.
Nel 2011 le linee guida europee pubblicate dalla task force congiunta European Respiratory Society e European Society for Clinical Microbiology and Infectious Diseases (ERS/ESCMID)13 hanno aggiunto un ulteriore tassello: l’utilizzo di biomarker, quali la procalcitonina, nel processo decisionale riguardo la sospensione della terapia antibiotica14.
La diagnosi di riacutizzazione di BPCO è generalmente basata su un peggioramento acuto del pattern abituale dei sintomi respiratori del paziente: aumento della dispnea, della tosse, dell'espettorato e/o della purulenza dello stesso. Non esiste un biomarker convalidato che dimostri la presenza di riacutizzazione, la causa più comune sembra essere l'infezione delle vie respiratorie da batteri in cui il trattamento antibiotico è in grado di assicurare un piccolo, ma statisticamente significativo miglioramento dei sintomi soprattutto per le forme clinicamente più impegnative. La durata tradizionale è di 7 giorni con equivalenza di successo tra le varie classi di antibiotici utilizzabili: amoxicillina ad alte dosi, amoxiclavulanato, cefalosporine orali di seconda e terza generazione, chinoloni ad attività antipneumococcica, azitromicina e claritromicina15. Recentemente il lavoro di J. Wedzicha ha dimostrato per le riacutizzazioni di BPCO l’utilità, anche se con evidenza moderata, del trattamento antibiotico, scelto secondo il locale pattern di sensibilità, in grado di distanziare tra di loro gli episodi di riacutizzazione15.
Nell’Antibacterial Agents in Clinical Development. An analysis of the antibacterial clinical development pipeline, including tuberculosis del 2017, l’OMS denuncia che la maggior parte dei farmaci attualmente nella pipeline clinica sono modifiche di classi esistenti di antibiotici già presenti e sono solo soluzioni a breve termine16. Infatti il rapporto ha rilevato pochissime potenziali opzioni di trattamento per quelle infezioni resistenti identificate come la più grave minaccia per la salute. A maggio 2017, la pipeline clinica comprendeva un totale di 51 antibiotici (incluse le combinazioni) e 11 biologici diretti verso i patogeni prioritari, compresi il Micobatterio della tuberculosi e il CD. Di questi, 12 dovrebbero essere attivi contro almeno uno dei tre patogeni critici (Pseudomonas aeruginosa, Acinetobacter baumannii e Enterobacteriaceae), e sette verso il Micobatterio tubercolare e il CD. Per il momento qualche speranza viene dall’utilizzo di vecchie molecole associate a nuovi scudi o viceversa, introdotti prima per le infezioni dei tessuti molli poi in Pneumologia: Ceftolozano/tazobactam è un’opzione terapeutica efficace contro Gram-negativi, Escherichia coli, Klebsiella pneumoniae e Pseudomonas aeruginosa; Aztreonam/Avibactam è attivo nei confronti di Enterobacteriaceae e Pseudomonas aeruginosa; Ceftazidime/avibactam ha dimostrato ottima attività nei confronti dei batteri Gram-negativi con altissime percentuali di ceppi sensibili; Ceftobiprole, cefalosporina di 5° generazione, è indicata per CAP, HAP e VAP.
In conclusione, è quindi evidente che non è l'antibiotico in sé a indurre resistenza, ma il modo in cui viene impiegato. Gli autori raccomandano il rispetto dell'indicazione, delle dosi e della durata della terapia. L'appropriatezza dell'utilizzo degli antibiotici di prima linea, nell'ambito della Medicina generale, è la strategia più idonea per contrastare il fenomeno crescente delle resistenze batteriche e per limitare, di conseguenza, l'altrettanto preoccupante incremento dell'uso di antibiotici di seconda linea in comunità.
BIBLIOGRAFIA