Anno Accademico 2017-2018
Vol. 62, n° 3, Luglio - Settembre 2018
ECM: Cuore e Polmone 2018
27 marzo 2018
UO di Pneumologia Oncologica, Az. Osp. San Camillo-Forlanini, Roma
ECM: Cuore e Polmone 2018
27 marzo 2018
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Negli ultimi 10 anni le strategie di trattamento del carcinoma polmonare non a piccole cellule (NSCLC) si sono evolute dall’impiego della chemioterapia con un approccio “one fits all” ad una gestione più personalizzata basata sull’identificazione di differenti sottotipi tumorali che esprimono specifici marcatori1. Ad oggi, circa la metà dei pazienti con NSCLC metastatico viene trattato, in prima linea, con terapie a bersaglio molecolare (circa il 20%) o con immunoterapia (circa il 30%) cioè con terapie che hanno un’efficacia spesso superiore e un profilo di tossicità molto più favorevole rispetto alla chemioterapia tradizionale e che consentono a questi pazienti una qualità di vita impensabile fino a pochi anni fa. Grazie all’intensa attività di ricerca clinica in atto e all’alto numero di molecole in fase di studio, è facile prevedere che queste percentuali cresceranno ulteriormente nei prossimi anni2.
TERAPIE A BERSAGLIO MOLECOLARE
L’Epidermal Growth Factor Receptor è un recettore, la cui attivazione determina la crescita cellulare, la proliferazione e la ridotta apoptosi ed è coinvolto nel normale metabolismo degli epiteli3. In presenza di mutazioni cosiddette “attivanti” del dominio tirosinochinasico (l’area della molecola che media la trasmissione del segnale all’interno della cellula), l’attivazione del recettore avviene in maniera continua e determina la trasformazione della cellula normale in una cellula neoplastica. Le mutazioni attivanti più comuni sono le delezioni a carico dell’esone 19 del gene e le mutazioni puntiformi nell’esone 21 e si riscontrano più frequentemente nel sesso femminile, nell’etnia asiatica e nei non fumatori4. Gli inibitori del dominio tirosino-chinasico dell’EGFR (EGFR-TKI) sono piccole molecole che si legano al dominio tirosino-chinasico al posto della molecola di ATP e impediscono la trasmissione intracellulare del segnale oncogeno, inibendo la crescita cellulare, la neo-angiogenesi, l’invasione e la produzione di metastasi3. Diversi studi hanno dimostrato l’efficacia degli EGFR TKI nel trattamento degli adenocarcinomi con mutazione dell’EGFR, che rappresentano circa il 15% degli adenocarcinomi nei caucasici e che vengono identificati con un test molecolare (PCR o sequenziamento del DNA)4, 5. Attualmente sono commercializzati in Italia tre EGFR-TKI, due di I generazione (gefitinib ed erlotinib) e uno di II generazione (afatinib): tutti hanno dimostrato una sopravvivenza libera da progressione (PFS) doppia o tripla rispetto alla chemioterapia5. Il profilo di tossicità di questi farmaci è caratterizzato da un’alta percentuale di effetti collaterali di lieve entità, principalmente legati all’azione dell’EGFR normale nel trofismo degli epiteli: rash acneiforme, diarrea, paronichia, stomatite. E’ ormai ben noto che la gravità di questi effetti collaterali è tanto più contenuta quanto la sua gestione è precoce ed attenta, che si ottiene prima di tutto attraverso l’educazione del paziente.
Malgrado questi farmaci siano efficaci in circa l’80% dei pazienti, con alti tassi di risposte parziali e complete al trattamento, dopo circa 10-12 mesi (mediana), la neoplasia sviluppa resistenza al farmaco e il paziente sperimenta una progressione di malattia6. La ricerca ha dimostrato che nel 50% dei casi, la resistenza è dovuta ad una singola mutazione puntiforme (treonina invece di metionina) in posizione 790 del gene per l’EGFR: questa mutazione modifica nuovamente la tasca per l’ATP del dominio TK e impedisce il legame dei TKI di I e II generazione7. L’osimertinib è un TKI in grado di legarsi alla molecola di EGFR portatrice della doppia mutazione (mutazione attivante + mutazione di resistenza), impedendo il legame con l’ATP e la trasmissione intracellulare del segnale oncogeno8. Lo studio AURA3, pubblicato nel 2017, ha dimostrato come l’assunzione di osimertinib in seconda linea dopo comparsa di resistenza al trattamento di prima linea, riesce a prolungare di circa un altro anno la PFS di pazienti con adenocarcinoma polmonare metastatico e mutazione attivante dell’EGFR. Al momento attuale, quindi (l’osimertinib verrà commercializzato in Italia da giugno 2018), questi pazienti hanno di fronte due anni di trattamento orale in regime ambulatoriale (si tratta di compresse da assumere tutti i giorni), con un’ottima qualità di vita, prima di essere avviati al trattamento chemioterapico.
Il gene ALK (Anaplastic Lymphoma Kinase) è un oncogene embrionale, in grado di attivare una serie di vie biochimiche intracellulari che portano alla proliferazione cellulare incontrollata, all’inibizione dell’apoptosi, alla neoangiogenesi, alla metastatizzazione, in una parola alla trasformazione della cellula in senso neoplastico9. In condizioni normali, nell’adulto, il gene ALK non viene trascritto, ma a causa di una traslocazione o di un’inversione cromosonica, il gene ALK può finire sotto il controllo del gene regolatore di un altro gene che viene trascritto di frequente: le traslocazioni ALK sono responsabili di circa il 5% degli adenocarcinomi nelle popolazioni caucasiche e sono più frequenti nei giovani e nei non fumatori4-6. Anche la proteina ALK ha un dominio tirosinochinasico con un ruolo chiave nella trasmissione intracellulare del segnale; nel 2009 è stato scoperto che un’inibitore della tirosino-chinasi di MET, il crizotinib, era in grado di legarsi alla TK di ALK e dopo una veloce sperimentazione di fase I e in fase III che ne hanno dimostrato l’efficacia, il farmaco è stato approvato e commercializzato per l’utilizzo in prima linea nei pazienti con adenocarcinoma metastatico dovuto a traslocazione ALK. Il tasso di risposta dimostrato dal crizotinib è pari a circa l’80%, addirittura superiore a quello degli EGFR-TKI, con una PFS paragonabile, di 10-12 mesi. Anche il crizotinib è caratterizzato da un profilo di tossicità estremamente favorevole, con un’elevata incidenza di effetti collaterali di lieve entità (in particolare i disturbi visivi) e una minima quota di effetti collaterali gravi, principalmente l’incremento delle transaminasi secondario a danno epatico. Purtroppo, il trattamento con crizotinib condivide con quello degli altri TKI l’inevitabile comparsa di resistenza, che si manifesta dopo 10-12 mesi. I meccanismi di resistenza sono molteplici e non è stato identificato un meccanismo prevalente contro il quale costruire una nuova molecola; la ricerca farmacologica si è quindi orientata verso la sintesi di farmaci a maggiore affinità nei confronti del recettore TK. Sono attualmente in fase di commercializzazione almeno tre inibitori di ALK: ceritinib, brigantinib e alectinib. Tra questi l’alectinib ha dimostrato la migliore tollerabilità, mentre il brigantinib è stato associato ad una percentuale insolitamente elevata di polmoniti immuno-mediate, che rappresentano un raro ma potenzialmente letale effetto collaterale di tutti i TKI. Il trattamento di seconda linea con questi farmaci si è dimostrato in grado di prolungare di circa un altro anno la PFS dei pazienti con questo sottotipo di adenocarcinoma.
L’imaging ha un ruolo limitato nel predire la presenza delle diverse mutazioni attivanti, tuttavia alcune caratteristiche radiologiche sono più frequentemente riscontrate in presenza di determinate mutazioni. Ad esempio, le alterazioni ground glass o il broncogramma aereo sono più comuni nelle neoplasie con mutazione dell’EGFR10. Tra gli adenocarcinomi in fase avanzata o metastatica, i tumori EGFR mutati sono più frequentemente ovaliformi, mentre quelli con altre mutazioni o quelli senza mutazioni identificate tendono ad essere più voluminosi, di forma irregolare ed a contenere aree di calcificazione11. I margini spiculati sono più comuni nelle forme con mutazione dell’EGFR, mentre i margini lobulati si osservano più spesso in quelli con traslocazione ALK12. Per quanto attiene alle sedi di metastatizzazione, i tumori ALK+ sono associati più frequentemente a linfangite carcinomatosa, a linfoadenopatie mediastiniche (N2 o N3) ed a metastatizzazione pleurica o pericardica, mentre le forme EGFR+ hanno una maggiore tendenza alla disseminazione ematogena, ad esempio a livello polmonare o osseo, e meno alla produzione di metastasi linfonodali12, 13. Sono stati effettuati anche diversi studi sulle caratteristiche metaboliche degli adenocarcinomi con mutazioni attivanti mediante PET-TC con 18-FDG14, 15. Il SUV (Standard Uptake Value) delle neoplasie ALK+ tende ad essere più elevato di quello delle neoplasie EGFR+ o di quelle senza una mutazione identificabile16. Nonostante ciò, il ruolo della PET-TC nella valutazione dei tumori con mutazione attivante e nella determinazione della risposta ai TKI non è ancora stata chiaramente definita17.
Per quanto attiene il ruolo dell’imaging nella definizione della tossicità da TKI, certamente la TC ad alta risoluzione ha un’importanza chiave nella diagnosi delle manifestazioni di tossicità polmonare da TKI, che possono includere i quadri più diversi, dal danno alveolare diffuso alla polmonite organizzativa, alla fibrosi polmonare18. La TC può essere d’aiuto anche per diagnosticare alcune forme di colite da erlotinib o le cisti renali complesse da crizotinib che mimano neoplasie renali primitive o metastatiche19, 20.
L’IMMUNOTERAPIA
L’immunoterapia è basata sul fatto che il sistema immune ha, in condizioni fisiologiche, un’azione antitumorale molto efficace. Le cellule tumorali maligne, però, sono in grado di evitare l’azione citotossica dei linfociti T grazie alla loro capacità di attivare i check-point inibitori, specifiche vie metaboliche dei linfociti T attivate attraverso la stimolazione di specifici recettori che sono in grado di determinare l’apoptosi delle cellule T. In condizioni fisiologiche, l’attivazione dei check-point inibitori si verifica per limitare le reazioni immunitarie troppo intense ed evitare il danneggiamento eccessivo dei tessuti in cui queste reazioni si svolgono: in presenza di alte concentrazioni di citochine infiammatorie, come IFN-gamma ed interleuchina 12, le cellule dendritiche esprimono alcune molecole (ad esempio il PD-L1), che, legandosi al relativo recettore (ad esempio il PD1) sui linfociti T, ne determinano l’apoptosi. La cellula neoplastica maligna è in grado di mimare l’intera sequenza degli eventi, dalla produzione di IFN-gamma e IL12 all’espressione dei ligandi (come il PD-L1), con conseguente attivazione dei check-point inibitori e apoptosi dei linfociti T peritumorali che diventano così incapaci di un’efficace attività antitumorale.
L’immunoterapia consiste della somministrazione di anticorpi monoclonali in grado di legarsi in maniera specifica ai recettori linfocitari dei check-point inibitori e di bloccarli: viene impedita, così, l’apoptosi dei linfociti T indotta dalle cellule tumorali e, naturalmente, anche quella indotta dalle cellule dendritiche21.
Il Pembrolizumab e il Nivolumab sono i soli anticorpi monoclonali attualmente commercializzati in Italia per il trattamento di I e II linea del NSCLC avanzato o metastatico. Il Nivolumab è stato approvato nel 2015 per il trattamento sia del carcinoma squamoso che di quello non squamoso in fase avanzata o metastatica refrattario alla chemioterapia e la sua somministrazione non richiede di testare, prima, l’espressione del PD-L1 sulle cellule tumorali. Due trial di fase III, il Check Mate 017 e il Check Mate 057, hanno dimostrato la maggiore efficacia del Nivolumab rispetto al Docetaxel nel trattamento di seconda linea del NSCLC avanzato e metastatico, confermando i dati osservati negli studi di fase I e II. Nel CheckMate 017, la mediana di sopravvivenza era 9.2 mesi nei pazienti trattati con Nivolumab e 6 mesi in quelli trattati con Docetaxel; nel CheckMate 057, la mediana di sopravvivenza era 12.2 mesi nel gruppo sperimentale vs 9.4 mesi nei pazienti trattati con Docetaxel22. Solo in quest’ultimo studio, il farmaco dimostrava un’efficacia molto maggiore nelle neoplasie che esprimevano in alta percentuale il PD-L123.
Il Pembrolizumab è il primo immunoterapico approvato per il trattamento di prima linea dei pazienti con NSCLC metastatico, ma al contrario di quanto avviene per il Nivolumab, può essere prescritto solo in presenza di un’espressione di PD-L1, determinata con l’immunoistochimica, superiore al 50%. L’impiego del Pembrolizumab è supportato dallo studio KEYNOTE-024, nel quale l’efficacia del Pembrolizumab veniva confrontata con quella delle doppiette a base di platino nel trattamento di I linea dei pazienti con NSCLC metastatico che esprimevano il PD-L1 in almeno il 50% delle cellule tumorali24. Il trattamento con immunoterapia era associato ad un miglioramento della PFS (10.3 vs 6 mesi), della sopravvivenza complessiva a 6 mesi (80% vs 72%) e del tasso di risposta (44.8% vs. 27.8%) rispetto al trattamento chemioterapico standard 2.
Anche gli eventi avversi correlati all’immunoterapia sono completamente diversi rispetto a quelli che si osservano in corso di trattamento chemioterapico, sono di tipo autoimmune e vengono attribuiti ad un ridotta inibizione delle reazioni immunitarie cellulo-mediate25. Gli eventi avversi immuno-correlati possono essere estremamente vari e presentarsi con gravità variabile dalle forme molto lievi a quelle gravi o gravissime. Tra le più comuni, ricordiamo le endocrinopatie, in genere di facile gestione, come l’ipo e l’ipertiroidismo o le ipofisiti, e le alterazioni dermatologiche che possono giungere fino alla necrolisi epidermica generalizzata. Meno frequentemente si possono riscontrare coliti, nefriti, neuropatie, miocarditi ed epatiti immunomediate26, 27. Una menzione a parte meritano le polmoniti immunomediate che si verificano nel 5-10% dei pazienti e che in circa l’1% dei casi possono essere di grave entità, al punto di compromettere severamente la funzione respiratoria e richiedere, oltre alla sospensione dell’immunoterapia e l’istituzione di una terapia cortisonica, anche il ricovero ospedaliero e il trattamento ventilatorio. Sono stati descritti diversi pattern TC: con opacità ground glass, tipo polmonite organizzativa, tipo polmonite non specifica (NSIP), tipo polmonite da ipersensibilità e ad interessamento interstiziale. Le manifestazioni radiologiche degli eventi avversi immunocorrelati possono nel tempo: ad esempio, pazienti con alterazioni tipo polmonite organizzativa possono sviluppare opacità ground glass diffuse e pazienti con opacità di tipo ground-glass possono presentare in un secondo momento opacità a diffusione interstiziale28. Le reazioni simil-sarcoidee sono piuttosto rare e possono esordire come noduli diffusi di piccole dimensioni con o senza aree di ground glass ed essere associate a voluminose linfoadenopatie ilari e mediastiniche che pongono importanti problemi di diagnosi differenziale con la progressione della malattia neoplastica29.
L’introduzione dell’immunoterapia ha richiesto lo sviluppo di specifici criteri per la valutazione della risposta al trattamento, denominati immune-related Response Evaluation Criteria in Solid Tumours, o immunoRECIST30, 31. Sostanzialmente, sono stati adattati i criteri RECIST alle caratteristiche proprie della risposta delle neoplasie all’immunoterapia. Ad esempio, si raccomanda di effettuare una valutazione della risposta mediante due TC effettuate a 4 settimane di distanza l’una dall’altra, sia a causa di un possibile ritardo nella risposta sia a causa di un fenomeno noto come pseudo-progressione. In circa il 10% dei pazienti in trattamento immunoterapico, infatti, si assiste ad un incremento significativo (>20%) delle lesioni o alla comparsa di nuove lesioni che in realtà sono dovuti ad un ricco infiltrato infiammatorio peritumorale che può rendere apparentemente più voluminose lesioni in precedenza visibili alla TC oppure rendere visibili piccole lesioni in precedenza non visualizzabili. L’esecuzione ravvicinata di due TC consente di distinguere la progressione di malattia (ulteriore incremento delle lesioni) dalla pseudo-progressione, in cui si assiste ad una repentina riduzione dimensionale delle lesioni osservate.
LA CARDIOTOSSICITA’ DELLE TERAPIE ONCOLOGICHE
La cardiotossicità dei trattamenti antineoplastici è emersa negli ultimi anni, anche grazie al miglioramento della sopravvivenza in molti tipi di neoplasie. Gli studi più importanti riguardano il carcinoma della mammella, in cui è stato ampiamente dimostrato che le patologie cardiovascolari rappresentano la principale causa di morte tra le sopravvissute a questa malattia. Anche gli studi condotti sui bambini colpiti da cancro e guariti grazie alle nuove terapie, hanno documentato come la mortalità cardiovascolare avesse una prevalenza 10-15 volte superiore a quella osservata nei coetanei “sani”. La valutazione dello stato di salute cardiovascolare del paziente, quindi, è di grande importanza per mantenere il patrimonio di sopravvivenza assicurato dai moderni trattamenti antineoplastici.
La tossicità dei diversi trattamenti antineoplastici può essere dovuta a danni diretti sul muscolo cardiaco, come la disfunzione ventricolare sinistra e lo scompenso cardiaco, l’ischemia, l’ipertensione arteriosa e le aritmie, oppure indiretti, come la modificazione degli stili di vita. La chemioterapia tradizionale, in particolare quella che include le antracicline, il cisplatino e i taxani, determina un danno diretto dei miociti mediato dalla liberazione di radicali liberi dell’ossigeno (ROS), che possono causare la perossidazione della membrana dei cardiomiociti, o interferire con la DNA topoisomerasi innescando processi che possono condurre alla disfunzione ventricolare sinistra e allo scompenso cardiaco. Con meccanismi diversi, anche i “nuovi farmaci” possono danneggiare i miociti e ridurre la funzione contrattile del cuore: la stimolazione dei recettori della famiglia HER può interferire con il metabolismo delle cellule cardiache, mentre gli inibitori del VEGF inibiscono la AMP ciclico kinasi, un importante regolatore della risposta dei miociti allo stress. In tutti questi casi, il danno miocardico può essere reversibile o irreversibile a seconda della sua estensione: se supera un certo valore soglia, si determina un deficit contrattile permanente; se, al contrario, il problema viene identificato precocemente e si istituisce un trattamento adeguato, persino il danno da antracicline può essere irreversibile.
L’ipertensione, come è noto, può essere causa di disfunzione ventricolare sinistra. Gli inibitori del VEGF sono frequente causa di ipertensione, mediata principalmente dalla riduzione dell’estensione del letto vascolare, ma anche dall’interferenza con la produzione di molecole ad azione vasoattiva, come quella dell’ossido nitrico, che viene ridotta e quella dell’endotelina, che viene incrementata.
Il VEGF è inoltre notoriamente associato ad un incremento degli eventi trombotici, favoriti dal rilascio di sostanze ad azione pro-coagulante dal carcinoma polmonare (soprattutto nei casi di adenocarcinoma) e di disturbi del ritmo, come l’allungamento dell’intervallo Q-T che può portare allo sviluppo di aritmie ventricolari. Anche il crizotinib, anche se meno frequentemente, può determinare un allungamento del tratto Q-T. In tutti questi casi, va posta particolare attenzione all’interazione con altri farmaci presenti in terapia e al mantenimento di valori normali degli elettroliti plasmatici.
Anche la radioterapia ha una nota cardiotossicità, anche se ridotta rispetto al passato, grazie alle nuove tecniche che consentono di mirare il fascio di radiazioni sulla lesione target risparmiando gli organi circostanti. Il danno dell’endotelio vascolare può determinare la comparsa di aterosclerosi coronarica, mentre la fibrosi che segue l’infiammazione determinata dalle radiazioni può causare valvulopatie, alterazioni della conduzione (per fibrosi del sistema di conduzione con bradicardia e blocchi atrio-ventricolari), pericarditi e disfunzione diastolica.
La diagnosi di danno miocardico è principalmente affidata all’ecocardiogramma che valuta la frazione di eiezione e il miocardial strain, una misura della deformazione miocardica, che consentono di valutare la funzione cardiaca globale e regionale e riconoscere precocemente le deformazioni miocardiche indotte dalla terapia antineoplastica. È ancora in fase di valutazione l’accuratezza diagnostica di marcatori come la troponina: alcuni studi hanno documentato come i pazienti che avevano un valore persistentemente elevato anche un mese dopo il trattamento antineoplastico, erano quelli a maggior rischio di sviluppare una riduzione della frazione di eiezione ed eventi avversi maggiori cardiovascolari.
Non esiste al momento una terapia specifica per la cardiotossicità da farmaci antineoplastici, ma è noto che alcuni farmaci hanno un effetto protettivo sul cuore. Tra questi i beta-bloccanti, in particolare il carvedilolo, per il suo effetto antiossidante, gli ACE inibitori e i sartanici, per il loro effetto cardioprotettivo, mediato non solo dalla riduzione della pressione arteriosa, ma anche dall’interferenza con la produzione di chinine vasoattive ad azione anti-infiammatoria, come la bradichinina, che giocano un ruolo importante nell’emodinamica locale e sistemica, nella permeabilità vascolare, nella risposta infiammatoria, nell’attivazione neurormonale e nella proliferazione cellulare.
Anche le statine sono dotate di una ben nota attività anti-infiammatoria, solo in parte dovuta alla riduzione dei livelli plasmatici di colesterolo. La terapia con statine, infatti, è associata ad una riduzione dell’adesione cellulare e dell’infiltrazione monocitaria dell’endotelio, ad una modificazione della migrazione delle cellule muscolari lisce nelle placche in formazione e ad una stabilizzazione delle placche, che possono influire sull’andamento clinico di questi pazienti.
BIBLIOGRAFIA