Anno Accademico 2017-2018

Vol. 62, n° 4, Ottobre - Dicembre 2018

Conferenza: La Medicina di genere: realtà o chimera?

22 maggio 2018

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La Medicina di genere: realtà o chimera?

S. Basili

La “Medicina di Genere” rappresenta un concetto relativamente nuovo in Medicina. Fin dagli albori della scienza Medica, l’attenzione era rivolta pressoché totalmente al corpo maschile; nel 1543 Andrea Vesalio, nel suo De humanis corporis fabrica - trattato di anatomia umana considerato un testo in grado di rivoluzionare l’approccio allo studio del corpo umano1 – riteneva “sufficiente studiare il corpo maschile, forma neutra universale, per capire anche il corpo femminile”. Tale approccio resterà, sostanzialmente immutato, fino agli anni ’90 del secolo scorso: il corpo maschile è il riferimento sul quale costruire le conoscenze; le uniche differenze riconosciute tra uomini e donne sono limitate allo studio degli apparati genitali/riproduttivi. A “squarciare il velo di Maya” contribuisce, nel 1991, Bernardine Healy, cardiologia e prima donna nella storia degli Stati Uniti a dirigere il National Institute of Health, che in un editoriale pubblicato sul New England Journal of Medicine pone l’accento sulla disparità di cure e le minori attenzioni cui le donne affette da cardiopatia ischemica sono sottoposte2, sottolineando come decenni di ricerca improntata all’esclusivo studio del sesso maschile avessero, in qualche modo, contribuito a generare una visione distorta del tema, tralasciando aspetti centrali in grado di differenziare la patogenesi nei due sessi. Healy introduce il tema fondamentale della sotto-rappresentazione delle donne nei grandi studi scientifici; un problema che risulta ancora attuale3 (non solo in ambito cardiovascolare) e determinante nel compromettere il raggiungimento della piena conoscenza in campo medico.

Limitatamente alle malattie cardiovascolari, ancora oggi la rappresentazione delle donne nei trial clinici randomizzati non rispecchia la prevalenza, nel sesso femminile, delle malattie oggetto di studio4, nonostante nel corso degli anni siano state promosse diverse iniziative per cercare di migliorare la gestione sesso-specifica della cardiopatia ischemica e le conoscenze relative all’impatto del sesso su tale spettro di patologie. Tra questi interventi rientrano la produzione di linee guida specifiche per la prevenzione cardiovascolare nelle donne5 e l’iniziativa “Go Red for Women”, promossa dall’American Heart Association al fine di sensibilizzare non solo la comunità scientifica, ma tutta l’opinione pubblica, sull’impatto delle malattie cardiovascolari nel sesso femminile, sulle loro manifestazioni e sulla disparità di accesso alle cure tra i due sessi.  

La promozione di tali iniziative rende comunque evidente come la comunità scientifica abbia cominciato, soprattutto nel corso degli ultimi 20 anni, a porsi il problema della “salute della donna”. Diversi fattori hanno probabilmente contribuito - interagendo peraltro fra loro - a questo cambiamento di paradigma: la spinta culturale del femminismo americano; l’aumento della rappresentazione femminile tra il personale sanitario e, particolarmente, tra i medici (in Italia, fino al 1876, alle donne era vietato iscriversi a Medicina); la possibilità, per alcune di esse, di raggiungere posti di alta responsabilità e ad elevato potere decisionale, anche grazie alla “massa critica” raggiunta dal numero di donne nel mondo della Medicina.

L’evoluzione e lo sviluppo di tale attenzione nei confronti degli aspetti sesso-specifici delle malattie, tuttavia, non è limitata al sesso femminile. Così come la patologia cardiovascolare veniva ritenuta patologia di prevalente interesse negli uomini, altre malattie sono state per lungo tempo considerate di specifico (e quasi esclusivo) impatto nelle donne. L’osteoporosi, ad esempio, è stata negli ultimi anni riconsiderata sotto la prospettiva della Medicina di genere, e numerosi studi stanno focalizzando la propria attenzione sulle manifestazioni di tale patologia nel sesso maschile6-8.  Tuttora, però, molti farmaci utilizzati per il trattamento dell’osteoporosi risultano studiati prevalentemente nelle donne, e similmente la determinazione della densità minerale ossea è effettuata molto più spesso nelle donne rispetto agli uomini, sebbene questi ultimi sperimentino una mortalità, successiva a fratture, superiore rispetto al sesso femminile9.

La Medicina di genere deve essere quindi tesa a considerare, in maniera equa e bilanciata, le problematiche sanitarie di entrambi i sessi, tenendo in considerazione le differenze che sempre più spesso vengono evidenziate in termini di patogenesi, prognosi e differente risposta agli approcci terapeutici che sussistono tra uomini e donne.

L’identificazione della parola “genere” con il sesso femminile (o con problematiche sanitarie riconducibili alle donne) è dunque erronea, poiché la Medicina di genere considera entrambi i sessi con eguale dignità ed attenzione ed è ormai chiaro come esistano degli scenari clinici in cui la sotto-rappresentazione negli studi clinici e la minore attenzione a tali problematiche riguardi il sesso maschile.

Un’ulteriore distinzione necessaria risulta peraltro quella tra le parole “sesso” e “genere”. Il sesso identifica le differenze biologiche, e indica quali caratteristiche contraddistinguono il sesso maschile da quello femminile.

Il sesso comprende quindi l’assetto cromosomico e le caratteristiche genitali, ormonali e riproduttive dei singoli soggetti. Le differenze biologiche, peraltro, non sono caratteristiche immutabili, ma influenzabili da alcuni fattori ambientali ed epigenetici che possono modulare l’attività dei geni10.

Il genere, al contrario, identifica gli aspetti sociali, comportamentali e culturali che influenzano l’autodeterminazione di ogni individuo, nonché la sua salute. Sotto il termine “genere”, dunque, rientrano i concetti di “identità di genere” (come gli individui percepiscono se stessi) e di “norme” sociali e relazionali che influenzano i comportamenti degli individui all’interno di nuclei familiari, luoghi di lavoro e rapporti interpersonali11.

“Misurare” il genere risulta molto più complesso rispetto all’identificazione del sesso di una persona, e a tutt’oggi non esistono dei sistemi validati e universali per quantificare tale variabile; sono stati tuttavia proposti diversi metodi e score per stimare le caratteristiche legate al genere12, 13.

Si comprende, dunque, poiché si è definita la Medicina di genere come nuovo concetto, ma non come nuova specialità o “branca”. Essa rappresenta infatti una naturale dimensione della Medicina, necessaria a studiare come sesso e genere influenzino la fisiopatologia delle malattie e la capacità di intervento terapeutico14. A tal riguardo è ormai acclarato come sussista una risposta sesso-specifica nella risposta terapeutica in differenti scenari clinici, tra cui diabete15, ipertensione polmonare16 e prevenzione cardiovascolare17. Tali differenze sono implicate nel determinare fallimenti terapeutici o differente insorgenza ed entità di effetti collaterali, contribuendo ad alimentare la disparità nell’accesso alle cure o nel raggiungimento della optimal medical therapy, che rappresenta un fattore fondamentale nel ridurre morbilità e mortalità di numerose patologie, particolarmente in ambito cardiovascolare18.

La cardiopatia ischemica è stata una delle prime e principali patologie studiate dal punto di vista della Medicina di genere, e tuttora rappresenta uno dei migliori esempi di come uomini e donne, pur essendo soggetti alle medesime patologie, possano presentare significative differenze riguardo insorgenza, progressione e prognosi in differenti scenari clinici. Le donne presentano generalmente un esordio di cardiopatia ischemica in età più avanzata rispetto agli uomini19, ma tendono a presentare una prognosi più grave successiva all’evento ischemico quando confrontate con uomini della stessa età: ciò è stato messo in relazione a una possibile risposta differenziale agli agenti anti-piastrinici esistente tra i due sessi19, 20, ma rende soprattutto conto di come un’adeguata diagnosi e prevenzione della cardiopatia ischemica sia necessaria nelle pazienti di sesso femminile.

Le differenze tra uomini e donne consistono anche nella presentazione clinica della cardiopatia ischemica e nella differente espressione dei marcatori di danno cardiaco (fra cui le troponine ad alta sensibilità), che contribuiscono a rendere ulteriormente difficile la diagnosi di cardiopatia ischemica nelle donne19, 21, 22. Alla base di queste disuguaglianze potrebbe sottostare una differente patogenesi della cardiopatia ischemica: un crescente numero di evidenze dimostra come, specialmente nelle donne, la coronaropatia ostruttiva non sia l’unico meccanismo fisiopatologico alla base della cardiopatia ischemica. Sebbene l’ostruzione coronarica rappresenti infatti il modello convenzionale, un numero rilevante di pazienti affetti da sindrome coronarica acuta presenta in realtà una malattia coronarica non ostruttiva, e fra questi le donne sono maggiormente rappresentate rispetto agli uomini23, 24. I concetti di “angina microvascolare” e “disfunzione del microcircolo coronarico” rappresentano due concetti di crescente interesse nell’ambito della cardiopatia ischemica, e sono state avanzate diverse ipotesi – tuttora oggetto di studio – per spiegare la patogenesi sesso-specifica di tali entità cliniche, che comprendono il ruolo degli ormoni sessuali e della modulazione che essi potrebbero esercitare nei confronti dell’aterosclerosi coronarica, della funzione endoteliale e dell’attivazione piastrinica25, 26.

Anche variabili genere-specifiche sono state messe in relazione con una differente espressione della cardiopatia ischemica, e in particolare con un differente tasso di recidive ischemiche27. L’approccio dettato dalla Medicina di genere, come testimoniato dalla cardiopatia ischemica, è quindi in grado di evidenziare caratteristiche importanti e critiche che differiscono non soltanto in base al sesso, ma anche in relazioni a variabili sesso-specifiche, e che potrebbero rappresentare fondamentali target terapeutici e di prevenzione.

In conclusione, la Medicina di genere rappresenta un campo in costante e rapida evoluzione; essa costituisce una dimensione necessaria e fondamentale della Medicina moderna, volta a considerare le variabili sesso e genere-specifiche nell’approccio fisiopatologico, diagnostico e terapeutico alle patologie umane.

La dimensione di genere rappresenta non soltanto una necessità di metodo e analisi, ma uno strumento di programmazione sanitaria, poiché permette di migliorare la prevenzione primaria e secondaria di patologie ad elevato costo umano, socio-sanitario ed economico.

Il principale mezzo di cui si avvale la Medicina di genere è rappresentato dalla ricerca scientifica: essa dev’essere sviluppata con particolare attenzione alle tematiche sesso- e genere-specifiche, garantendo prioritariamente la paritaria rappresentazione di ambo i sessi nei trial clinici.

È necessario quindi indirizzare gli sforzi all’individuazione di fattori di rischio sesso e genere-specifici in tutte le discipline di ambito sanitario. Le evidenze derivanti dalla ricerca scientifica rappresenteranno uno strumento fondamentale per sviluppare percorsi diagnostici e terapeutici orientati al sesso e al genere: ciò dovrà comprendere necessariamente un’adeguata formazione del personale sanitario, al fine di sensibilizzare i portatori di cure relativamente allo studio e alla conoscenza di tali tematiche e sottolineando l’importanza che queste ricoprono nel determinare la riuscita terapeutica degli interventi portati.


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