Anno Accademico 2018-2019
Vol. 63, n° 1, Gennaio - Marzo 2019
Seduta Inaugurale
06 novembre 2018
Seduta Inaugurale
06 novembre 2018
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«È solo questione di poche ore prima che la morte arrivi …..
È orribile. Si può reggere alla morte di una, due o venti persone,
ma vedere questi poveri diavoli morire come mosche …..
Siamo nella media di 100 decessi al giorno …..
La polmonite significa in quasi tutti i casi morte sicura …..
Abbiamo perso un grande numero di infermiere e dottori.
Il trasporto dei morti richiede l'uso di treni speciali.
Per diversi giorni non ci sono state bare disponibili
e i corpi sono stati accatastati grossolanamente”.
Testimonianza del Dr. R. Grist, in servizio nell’autunno 1918 a Camp Devens, presso Boston e pubblicata nel 1979 sul “British Medical Journal”1
Le malattie infettive cambiano costantemente: è un modello evolutivo con un fortissimo impatto sulla salute pubblica delle popolazioni, a livello mondiale2. Negli ultimi anni, siamo stati testimoni di un mix di eventi biologici, quali la comparsa o la (ri)comparsa di microrganismi cosidetti “emergenti”, mutazioni di vecchi e nuovi agenti patogeni, sviluppo di resistenze che consentono a batteri, virus e funghi di non soccombere ai trattamenti terapeutici, nonché di eludere il sistema immunitario dell’ospite. Tutto questo si inserisce, e in quest’ambito va considerato e interpretato, nel quadro della cosiddetta “globalizzazione”, che coinvolge l’economia, le contese, usi e abitudini individuali e di massa, viaggi e migrazioni, i drammatici cambiamenti climatici3.
Ma, allo stesso tempo, si sono verificati tre eventi considerevolmente positivi: 1) Creazione e implementazione di un network di sorveglianza infettivologica internazionale, nei riguardi di patologie vecchie e nuove, a carattere sporadico, endemico e pandemico, anche e soprattutto per prevedere, prevenire e contenere queste ultime. 2) Clamorosi progressi nella diagnostica molecolare e nelle tecniche di sequenziamento che offrono nuove, importanti possibilità nel controllo di numerose malattie infettive: diagnostica di base e avanzata, monitoraggio delle resistenze, comparsa di mutazioni, etc.4 (Un esempio: dalla prima coltura in tessuti del coronavirus sospettato di essere l’agente causale della SARS al sequenziamento del genoma, nel 2003, passarono solo 3 settimane! E oggi si può fare ancor prima5. Tutto questo è la base per preparare vaccini specifici). 3) Prevenzione e terapia: allestimento di nuovi vaccini, miglioramento di quelli già disponibili, preparazione di ulteriori farmaci anti-virali. Rimane il problema della diffusione e della disponibilità degli uni e degli altri a livello planetario.
L'influenza si diffonde nel mondo in epidemie stagionali che causano, annualmente, oltre 5 milioni di casi gravi e da 250.000 a 500.000 morti. Nelle aree temperate le epidemie si presentano soprattutto in inverno, mentre nei paesi tropicali ed equatoriali possono diffondersi in ogni stagione. Le grandi pandemie di influenza sono meno frequenti; dati certi, prima dell’ottocento, non ve ne sono, perché diverse epidemie influenzali vennero sicuramente scambiate per altre patologie e viceversa. A fine ‘800 se ne registrarono due, assai gravi e devastanti. Nel XX secolo se ne sono verificate tre: l'influenza spagnola nel 1918, l'influenza asiatica nel 1958, l'influenza Hong Kong nel 1968. L'Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato la diffusione di un nuovo tipo di influenza A/H1N1 come “pandemia” nel giugno 2009. Le epidemie come quella del 1918 si verificano quando un virus infetta direttamente l’uomo, passando dagli uccelli, o si modifica e infetta altre specie, come i maiali, per poi passare agli uomini. La più grave rimane comunque “La Spagnola”, definita come “il più grande olocausto medico della storia, al pari della Peste Nera!”.
L'influenza provoca una serie di costi diretti e indiretti, conseguenti alla perdita di produttività, ai trattamenti medici specifici, alla ricerca, all’adozione di misure preventive (campagne vaccinali); negli USA ha un costo di oltre 10 miliardi di dollari l'anno e si stima che affrontare una pandemia potrebbe richiedere centinaia di miliardi di dollari. L'impatto economico delle pandemie passate non è stato studiato. Sono state ipotizzate le conseguenze finanziarie di una pandemia grave come “la spagnola” nell'economia americana: con l'infezione del 30% dei lavoratori, il 2,5% dei decessi e un periodo di malattia di 20 giorni/pro capite, il PIL diminuirebbe del 5%. Il trattamento medico di un numero variabile da 18 a 45 milioni di persone costerebbe 700 miliardi di dollari. Per prevenire l’aviaria, G.W. Bush ottenne dal Congresso nel 2005 7 miliardi di dollari; > 10 miliardi di dollari furono spesi e più di 200 milioni di volatili abbattuti per tentare di contenere la stessa influenza aviaria.
Note di virologia.
I virus dell’influenza sono classificati in 3 gruppi: A, che può infettare l’uomo e diversi animali e provocare epidemie e pandemie; B e C, che infettano solo l’uomo e sono responsabili di piccole epidemie e forme cliniche relativamente lievi. Ci occuperemo pertanto delle epidemie da virus A, di solito specie-specifico anche se alcuni ceppi possono infettare diverse specie animali. Le mutazioni, soprattutto dell’emoagglutinina H e neuraminidasi N di superficie, dei ceppi che infettano gli uccelli (in particolare i migratori), il maiale e l’uomo hanno possibili ricadute in patologia umana.
I virus dell’influenza appartengono agli Orthomyxoviridae, contengono RNA a singolo filamento segmentato a polarità negativa, posseggono un involucro lipidico o pericapside derivato dalla cellula ospite in cui sono infisse le due glicoproteine H ed N (in rapporto 4,5:1), codificate da 2 geni specifici; gli altri geni codificano per le proteine M1,M2,NS, NP e polimerasi. L’instabilità genetica è massima proprio per H ed N, soggette a mutazioni minori o drift, alla base delle epidemie stagionali e maggiori o shift, per riassortimento, a monte invece delle gravi pandemie periodiche6.
H lega il virione al recettore (acido sialico) presente sulla superficie della cellula-bersaglio, in seguito al taglio delle due sub unità H1 e H2 da parte di specifiche proteasi cellulari. H favorisce la fusione del virus alla membrana delle vescicole endocitiche, agglutina le emazie, stimola la produzione di anticorpi protettivi. Se ne conoscono 18 varietà antigeniche (H1/H18).
N è una glicoproteina ad attività enzimatica che scinde l’acido sialico presente nelle glicoproteine del muco sulla superficie delle cellule respiratorie infettate, facilitando il rilascio del virus. E’ il bersaglio di farmaci quali Oseltamivir e Zanamivir. Se ne conoscono 11 varianti (N1/N11)7.
Le proteine M1, M2 e NP sono tipo-specifiche e vengono impiegate per la tipizzazione virale; i virus A e B sono classificati in sottotipi secondo la struttura antigenica delle glicoproteine di superficie; nel virus A dell’influenza umana sono state riscontrate solo 6 H (H1-2-3-5-7-9) su 18 e 2 N (N1-2) su 11. I sottotipi sono definiti e classificati in base a 5 criteri: tipo, luogo e anno dell’isolamento, numero del ceppo, tipo di H ed N; ad esempio, A/Singapore/1/57/(H2N2), il virus responsabile dell’Asiatica.
La variabilità genetica dei virus influenzali è da imputare alla particolarità del genoma, costituito da un RNA segmentato e dalla mancanza di attività “proof reading” della RNA polimerasi; inoltre il virus A ha un ampio spettro d’ospiti. Le mutazioni puntiformi dei geni che codificano per H ed N generano nuovi ceppi o varianti virali: sono correlati geneticamente alle varianti già in circolazione in una data popolazione e possono infettare chi è stato infettato dallo stesso sottotipo. È quanto avviene nelle epidemie stagionali in seguito ad un drift antigenico. Il riassortimento (shift antigenico) dei geni che codificano per H ed N avviene quando una cellula è infettata da 2 o più virus diversi e segmenti di RNA di un virus sono inseriti nel nucleocapside dell’altro. Gli 8 segmenti di RNA di 2 virus possono dar luogo a 256 ipotetiche combinazioni; questo fenomeno è alla base di una pandemia periodica ed occasionale8.
Tutte le specie aviarie sono suscettibili di infezione: gli uccelli sono il crogiolo evolutivo di origine di tutti i virus influenzali che si sarebbero adattati nel corso di milioni di anni. Il maiale possiede recettori sia per i virus aviari che umani: può svolgere un ruolo di incubatore evolutivo e di anello di trasmissione interspecifica, essendo il responsabile e la “sede” del riassortimento genetico. E’ ormai dimostrato che il maiale può essere infettato con pari efficienza sia da virus influenzali umani che aviari.
Pandemie influenzali.
Perché si abbia una pandemia non basta la comparsa di un virus diverso da quelli già circolanti, ma si devono verificare necessariamente 3 situazioni: il sottotipo virale emerso è nuovo soprattutto immunologicamente, cioè non è riconosciuto dagli anticorpi che la popolazione già possiede; si deve replicare nell’uomo; deve crearsi una elevatissima diffusibilità interumana.
Nel corso dell’ultimo secolo sono avvenuti diversi shift antigenici: sono apparse 3 H e 2 N che l’orologio molecolare ha dimostrato essere dapprima assenti. Per quanto riguarda le 3 pandemie maggiori del XX secolo, l’origine e la trasmissione dei virus responsabili sono stati differenti. H1N1 della “Spagnola” passò (sembra) direttamente dagli uccelli all’uomo, anche se la sua storia è ancora in parte misteriosa e forse il gene H1 era già presente tra gli umani; H2N2 della “Asiatica” originò per riassortimento tra ceppo aviario e ceppo umano, con 3 segmenti aviari (geni per H, N e PB1) e 5 umani; H3N2 di “Hong Kong” anch’esso per riassortimento fra ceppo aviario e umano, con 2 segmenti del primo (H e PB1) e 6 del secondo9. Anche il focolaio avvenuto nel 1997 a Hong Kong fu causato da un virus (A/H5N1), trasmesso dagli uccelli all’uomo, ma fortunatamente quest’ultimo sottotipo non è poi riuscito a rimescolarsi e ad acquisire la capacità di trasmettersi efficacemente da uomo a uomo.
Riassumendo le caratteristiche del virus A, rileviamo come sia il responsabile di pandemie ed epidemie, delle forme cliniche più severe, provenga da serbatoi animali (uccelli selvatici, perlopiù), passi direttamente all’uomo o mediante ospiti intermedi (suini), il suo genoma, segmentato in 8 frammenti genici, sia soggetto a fenomeni di drift e shift (riassortimento); infine, è sensibile ad amantadina, rimantadina e inibitori della neuraminidasi.
Il pattern completo di sottotipi H ed N è stato ritrovato solo nelle specie aviarie, mentre l'uomo e altri animali ne ospitano solo alcuni: pertanto sono gli uccelli i serbatoi naturali del virus A, in particolare i volatili acquatici selvatici, che occasionalmente lo trasmettono alle altre specie e possono essere la causa di focolai devastanti nel pollame domestico oppure di pandemie nell'uomo.
Ha scritto R. Ghirardi: “Tutte le grandi pandemie precedenti e susseguenti la Spagnola originarono probabilmente in Asia, in quell’area vasta compresa tra Russia siberiana e Cina occidentale, gli ampi spazi silenti descritti da A.G. Clifford e D. Gill in “The Genesis of Epidemics” (1928); …È nella sterminata campagna cinese che, in condizioni igieniche precarie, si verifica la stretta coabitazione tra pollame, suini e uomo,…lì sono insorte le più rilevanti pandemie influenzali; non trascurando il ruolo svolto dagli uccelli, migratori e non, il modo di diffusione della malattia pandemica e il contagio interumano diretto”10.
Spagnola11.
Una delle più gravi calamità sanitarie di cui si abbia memoria, in epoca storica, sia per morbilità che per mortalità, colpì quasi tutto il mondo fra il 1918 e il 1919. 560 milioni sarebbero stati gli infettati dal virus (1/3 della popolazione mondiale); dati incerti sui decessi, fra i 40 e gli 80 milioni di persone, a fronte dei 17 milioni di morti per la guerra; perì il 7.1 - 14.2% degli infettati, fra il 2.3 e il 4.6% della popolazione mondiale12. L’epidemia fu chiamata Spagnola perché la Spagna, tra i primi, ma non il primo paese europeo coinvolto dall’influenza “importata” dagli Stati Uniti, era senza censura, in quanto non belligerante e i giornali locali ne riportarono la diffusione. I paesi in guerra cercarono, inizialmente, di minimizzare l’entità dell’epidemia, nascondendo e riducendo i dati epidemici mediante la censura della stampa.
La Spagnola è stata definita “la madre di tutte le pandemie” e H1N1 “il virus patriarca”. Quella del 1918 è conosciuta come “la generazione perduta”: milioni furono gli “orfani dell’influenza” in tutto il mondo per la perdita dei genitori in giovane età1. E. Rostand, poco prima di morire di Spagnola, simboleggiò i due pericoli che incombevano sull’umanità nel 1918, guerra e pandemia, in una colomba malata.
Ancora oggi rimane sconosciuta l’origine del virus: 3 ipotesi, Cina, Francia o USA (Kansas)? Già nell’estate del 1917, sul fronte francese, alcuni soldati erano deceduti per complicanze polmonari di una forma influenzale che aveva provocato una piccola epidemia: le autopsie evidenziarono polmoni congesti, fortemente infiammati e con emorragie più o meno estese, il quadro che caratterizzerà un anno dopo la Spagnola. Orologio molecolare e ricostruzione dell’albero genealogico del virus evidenziano che 7 degli 8 geni erano simili a quelli degli uccelli migratori del nord-America che frequentano anche diverse aree del Kansas. Invece H1 circolava da tempo tra gli umani nella forma del virus del 1918; il virus della Spagnola sarebbe stato una ricombinazione tra quest’ultimo gene e gli altri 7 di derivazione aviaria: resta solo un’ipotesi, che indicherebbe comunque un’origine “americana” della pandemia.
La pandemia colpì in più ondate, la prima nella primavera del 1918, la seconda, peggiore della prima, nella tarda estate e in autunno-inverno del 1918: rimangono poco chiari i rapporti fra i 2 (?) ceppi virali, il 2°, mutato, più letale del 1°. Ondata primaverile: i primi focolai insorsero probabilmente in Nord-America, fra il 4 e l’11 marzo 1918, nei campi di addestramento reclute a Camp Funston e Fort Riley, Kansas,ove il virus, in precedenza passato dagli uccelli selvatici a quelli d’allevamento, sarebbe stato trasmesso da questi (forse anche tramite i maiali) ai militari; accompagnando le truppe americane, l’influenza si diffuse, tra aprile e giugno, progressivamente, in Francia, Gran Bretagna, Spagna e Italia, poi invase l’est europeo e il sud-est Asiatico. Seconda ondata: fra agosto e settembre 1918 la “nuova” influenza cominciò a diffondersi, dapprima in Francia, Africa, USA, fra i reduci tornati dal fronte e ben presto fra i civili. Europa e Asia furono ancora pesantemente colpite, il sud-America quasi risparmiato. Il tributo maggiore lo pagarono, in entrambe le ondate, i giovani fra i 15 e i 45 anni, l’80% dei deceduti, mentre gli >50 erano risparmiati o si ammalavano meno gravemente, forse perché, si disse allora, parzialmente immunizzati dalle epidemie di fine ‘800, come la “russa”, anche se oggi sappiamo che i ceppi virali erano diversi13.
Il virus colpì migliaia di soldati di tutti gli schieramenti, ma infierì particolarmente tra le truppe dell’esercito austro-ungarico, ove si registrò il triplo di morti rispetto agli italiani (il contrario avvenne tra i civili degli stessi paesi): ciò fu dovuto sia alle sanzioni imposte dagli alleati francesi, inglesi e italiani, con conseguente carenza di approvvigionamenti alimentari, sia ai diversi fronti ove combattevano e maggiori possibilità di contagio. Gli Imperi Centrali hanno attribuito a lungo (qualche storico ancor oggi) la causa della sconfitta alla pandemia influenzale e non alla disfatta militare. Reduci dal fronte contribuirono, al ritorno, a diffondere il virus tra i civili in tutto il mondo, durante la seconda ondata.
“La guerra, come una grande Idra, assorbì e asservì a se ogni risorsa e provvedimento legislativo, depauperando soprattutto la sfera sanitaria; l’organizzazione sanitaria, già precaria, ne fu pesantemente condizionata, specie per la popolazione civile. La guerra richiamò a sé le energie migliori di personale, di congegni, di mezzi, in difesa di interessi superiori”1. Ad esempio, la riduzione delle vaccinazioni, dal 1914 in poi, ebbe gravi conseguenze: a guerra conclusa, vi fu un’epidemia di vaiolo, importato dai reduci provenienti dai Balcani, che causò la morte di 17.000 bambini nel 1919-20, non vaccinati. Proprio negli ultimi mesi del conflitto, forse quando già si assaporava il traguardo della vittoria, irruppe la pandemia e anch’essa richiese il suo tributo di morti. Scrisse il Presidente del Consiglio dei Ministri, V.E. Orlando: “Non è esagerazione dire che in questo momento il paese è più depresso per l’epidemia che per la stessa guerra. La gioia che la strepitosa vittoria degli alleati contro i teutonici ha provocato dappertutto, tra gli italiani è stata amareggiata dall’epidemia che imperversa in tutta Italia14”. Il 1918 rimane, nella memoria collettiva, l’“annus horribilis”.
In Italia l’epidemia esordì alla fine della primavera del 1918, con un decorso relativamente benigno; ben più devastanti furono la seconda ondata, in autunno e una terza, durante tutto l’inverno 1918: sin da agosto diversi casi si registrarono nell’esercito, ma le autorità civili e militari sottovalutarono la situazione, ritardando o non attuando misure di contenimento e isolamento dei malati15. L’Italia è stato il paese europeo a pagare il tributo maggiore in fatto di malati, 6/7 milioni (1/5 della popolazione) e di vittime, 600.000, come i caduti in tutta la guerra 1915-18, ma anche tra i primi al mondo.
La censura adottata in tempo di guerra, in Italia ma anche nella maggioranza dei paesi belligeranti, riguardava il privato, corrispondenza da e per il fronte, ove si ritrovano solo accenni generici all’epidemia influenzale, ma soprattutto i giornali: mai le notizie sull’influenza riuscirono a “bucare” le prime pagine (tant’è che E. Tognotti parla di “Spagnola censurata”16), facendosi largo a fatica “tra resoconti di battaglie, bollettini e proclami provenienti dai luoghi più noti o lontani di un mondo in guerra”1. Il “Corriere della Sera” fu censurato poiché pubblicava giornalmente i dati sui decessi e, secondo le autorità civili, spargeva il panico nella popolazione. A vittoria conseguita, poi, l’epidemia sparì dai giornali, soppiantata da titoli cubitali e articoli che celebravano il successo militare e la fine del conflitto.
La maggioranza dei decessi avveniva per complicanze respiratorie, estensione dell’infezione al parenchima polmonare e alla pleura, sovrapposizioni batteriche, broncopolmoniti emorragiche17. All’epoca, la comunità scientifica era divisa sull’agente causale dell’epidemia: chi sosteneva come responsabile fosse un batterio (H. influenzae), chi un virus sconosciuto. I veri agenti causali dell'influenza, i virus della famiglia Orthomyxoviridae, furono scoperti da R. Schope solo nel 1931. L'isolamento del virus nell'uomo fu opera di P. Laidlawal nel 1933. Un’attendibile registro autoptico dell’Università di Pisa evidenziava come la causa del decesso fosse, nel 56% dei casi, l’estensione del processo flogistico a livello bronco-polmonare a carattere emorragico. B. De Vecchi, anatomopatologo bolognese, notava l“intensa congestione polmonare con essudazione alveolare e lesioni endoteliali vascolari18”.
Oggi conosciamo assai bene le caratteristiche molecolari del virus H1N1 responsabile della “spagnola”, anche grazie alla ricostruzione del suo genoma19, 20 e di diversi prodotti proteici, dopo averlo recuperato da biopsie di soldati deceduti nel 1918 e da scheletri ben conservati delle vittime di 100 anni fa. Sappiamo così che il virus del 1918 era sostanzialmente nuovo per l’umanità: rapidamente apparve, rapidamente (ma non del tutto, vedi oltre) scomparve tra il 1919 e il 192021.
Perché la “Spagnola” fu così devastante e provocò un altissimo numero di morti, soprattutto fra i giovani? Mutazionidell’H122, 23 permettevano al virus di aderire alle cellule dell’epitelio respiratorio più facilmente, di penetrarvi e di provocare lesioni che conducevano al danneggiamento dell’epitelio stesso e a copiose emorragie, fra le prime cause di decesso degli infettati. Presto infatti i clinici si accorsero che molti pazienti morivano con i polmoni “infarciti di sangue”. E’ ormai dimostrato che il virus della pandemia del 1918/20 penetrava, si replicava e provocava lesioni emorragiche non solo a carico delle cellule delle alte e medie vie respiratorie, come la maggior parte dei virus influenzali, ma anche delle basse vie e in particolare degli alveoli, attraverso le cui pareti, danneggiate, fuoriusciva sangue che inondava le cavità alveolari. È stato individuato e codificato un insieme di tre geni (PA, PB1 e PB2) che, in combinazione con un quarto gene chiave, NP, codificava per l’RNA polimerasi specifica, necessaria per la replicazione del virus, ma anche per una serie di varianti proteiche che, insieme ad H1 mutata, permetteva al virus di colonizzare le cellule dei polmoni. Infine, NS1 e H1, ma non N1, ricostruiti del 1918, sono risultati in grado di inibire IFN e di iperstimolare i geni tissutali preposti alle reazioni infiammatorie e all’apoptosi, mediante una “cytokine storm”, che si traducevano in esteso danno polmonare, più accentuato nei giovani nei quali le reazioni immunitaria e infiammatoria sono più complete e pronte.
Come già ricordato, molti decessi furono causati dalle complicanze e sovrainfezioni batteriche, per le quali non vi erano ancora antibiotici a disposizione, cosa che ha permesso di calmierare la gravità delle epidemie influenzali e limitare il numero dei morti dopo il 1940: l’asiatica del 1957-58, il cui virus H2N2 non era meno letale di quello del 1918, la cinese H3N2 del 1968-69 e la variante H1N1 del 1977-7812. Anche per questa situazione la biologia molecolare ci viene in soccorso: è stata scoperta una proteina e il gene che la codifica, comune a tutti i virus dell’influenza A, spagnola e aviaria incluse, denominata PB1-F2, la quale aumenta la patogenicità in modelli animali (furetti) dell’infezione e potrebbe avere un ruolo nelle infezioni batteriche secondarie, mediante interferenze tra virus e batteri, i cui meccanismi molecolari rimangono peraltro sconosciuti. L’espressione di PB1-F2 aumenta l’incidenza della polmonite batterica in un modello murino e l’esposizione a forme di polmonite assai più gravi.
Asiatica.
Si diffuse dalla Cina all'inizio del 1956 e durò 3 anni; Il ceppò originò da una mutazione avvenuta nelle anatre selvatiche in combinazione con un ceppo umano già esistente. Il virus era già stato identificato per la prima volta nel 1954 nella provincia cinese di Guizhou. Raggiunse Singapore nel febbraio 1957, Hong Kong ad aprile e gli Stati Uniti a giugno; ultima, l’Europa. Le stime mondiali di decessi variano tra 1 e 4 milioni. In contrasto a quanto osservato nel 1918, le morti si verificarono soprattutto nelle persone affette da malattie croniche, anziani e bambini piccoli, defedati e immunodepressi; meno colpiti da forme gravi furono i soggetti sani. Lo stesso virus dell’Asiatica si dimostrò fortemente anergizzante e tale da causare immunodeficit. A seguito dell’isolamento e dell’identificazione del virus, fu preparato un vaccino che contenne, in parte, l’epidemia. Il virus dell’Asiatica (H2N2) era destinato ad una breve permanenza tra gli esseri umani e scomparve dopo soli 11 anni, soppiantato dal sottotipo A/H3N2 Hong Kong.
Particolarmente letali si dimostrarono le associazioni fra influenza e morbillo nei bambini e fra influenza e tubercolosi sia in età pediatrica che fra gli adulti24: le patologie menzionate potevano agire in sinergia, tutte fortemente immunodepressive, ognuna aumentando la suscettibilità verso le altre. Tuttavia i quadri clinici e anatomo-patologici erano assai differenziati e, per completezza, riportiamo le osservazioni e le conclusioni delle ricerche all’epoca eseguite presso il Centro Studi del “Forlanini”, a Roma25, illuminanti ancor oggi. “Il virus ha un’azione lesiva diretta, oltre che sulle pareti dell’epitelio respiratorio, alveoli inclusi, anche sulle pareti vascolari, per cui si verificano fenomeni plasmorragici, un’intensa e diffusa essudazione endo-alveolare siero-ematica, raramente fibrinosa, talora esclusivamente emorragica, nel qual caso gli alveoli appaiono zaffati solo da globuli rossi.….Da un lato è ben precisato il carattere interstiziale congestizio primitivo ed emorragico, dall’altro appaiono chiarificati i rapporti che intercorrono tra “influenza” e lesioni tubercolari, distinguendone l’azione nulla o scarsa sui focolai tubercolari sicuramente guariti e lo stimolo riattivante sui focolai biologicamente ancora attivi, sia pure in fase involutiva, stimolo risultante proporzionale all’entità delle medesime, concomitanti lesioni tubercolari. L’essudazione siero-emorragica o siero-fibrino-monocitaria opera un rivolgimento nelle condizioni biologiche locali e quindi sul metabolismo dei micobatteri ivi contenuti, con trapasso definitivo in forme di broncopolmonite caseosa….La netta impronta emorragica va attribuita al ben noto angiotropismo del virus A, le cui conseguenze emorragiche nel parenchima polmonare erano state messe in evidenza da Goodpasture nell’epidemia del 1918-19: si parlava di polmonite emorragica influenzale o red lung pneumonia”26. A commento possiamo aggiungere che il mix letale, biologico e clinico, fra virus e micobatteri si palesava soprattutto qualora fosse presente un substrato polmonare già lesionato e devastato dalla tubercolosi, riemergendo in tal modo quei quadri di polmonite emorragica fatale che avevano caratterizzato anche la spagnola.
Influenza di Hong-Kong.
È stata provocata da un ceppo del sottotipo H3N2 derivato dall'H2N2, tramite il meccanismo dello spostamento antigenico: i geni di diversi sottotipi si possono riassortire per formarne uno nuovo. La pandemia, che si svolse tra il 1968 e il 1969, infettò milioni di persone con una mortalità più contenuta rispetto alle pandemie precedenti (circa 1.000.000 di decessi), forse per una parziale immunità acquisita nel tempo; negli USA furono infettate 50 milioni di persone e 33.000 perirono. L’epidemia si trasmise inizialmente in Asia, con gravità variabile da zona a zona e nel tempo, ad es. in Giappone fu modesta per tutto il 1968, più letale l’anno successivo. Il virus fu poi introdotto nella costa occidentale degli USA con significativi tassi di mortalità, contrariamente all’esperienza dell’Europa dove l’epidemia, nel 1968–1969, si dimostrò assai meno letale. In Italia vi furono circa 20.000 decessi, perlopiù per complicanze polmonari.
Altre epidemie dell’800 e ‘900.
“Russa” (1889-92): si ritiene sia stata causata da un virus A, sottotipo H2N2, ma le prove non sono conclusive. È stata la prima pandemia influenzale di cui sono disponibili dati epidemiologici e clinici: causò oltre 1 milione di morti.
Altra epidemia infierì nel 1900-01 e sembra sia stata causata da un virus A/H3N8, di origine aviaria.
Sebbene non classificate come pandemie, tre importanti epidemie si verificarono anche nel 1947, nel 1976 e nel 1977. I discendenti del virus H1N1 della “Spagnola” circolano ancora oggi nei maiali e, forse, hanno continuato a circolare anche tra gli esseri umani, causando epidemie stagionali fino agli anni ’50, quando si fece strada il nuovo ceppo pandemico A/H2N2 che diede luogo all’Asiatica del 1957. I virus imparentati a quello del 1918 non diedero più segnali di sé fino al 1977, quando il virus del sottotipo H1N1 riemerse negli Stati Uniti causando un’epidemia importante nell’uomo.
I virus più recenti: aviaria, suina, altri attuali ed emergenti.
Influenza “aviaria” (1997), virus H5N1, “a Nasty beast”, dotato di altissima letalità, ma scarsissima diffusibilità interumana. Il ceppo HPAI A(H5N1), altamente patogeno, adattato da quello aviario ma non generato da riassortimento, è endemico in molte popolazioni di uccelli, dal sudest asiatico si è poi diffuso a livello globale. È epizootico e panzootico, ha ucciso decine di milioni di volatili e ha provocato l'abbattimento di centinaia di milioni di altri volatili per controllare il propagarsi dell’infezione. Attualmente non ci sono prove che dimostrino una trasmissione efficiente da uomo a uomo del virus. In quasi tutti i casi le persone infettate hanno avuto contatti fisici con volatili infetti: tuttavia, in futuro, l'H5N1 potrebbe mutare o subire un riassortimento in un nuovo ceppo in grado di trasmettersi efficacemente da uomo a uomo. A causa dell'elevata mortalità, virulenza, presenza endemica e vasta gamma di ospiti, il virus H5N1 è considerato la minaccia pandemica maggiore nel mondo, tale da imporre un adeguato piano di prevenzione e monitoraggio su scala internazionale.
A livello virologico, distinguiamo, tra i virus aviari, quelli a bassa (LPAI) o alta (HPAI) patogenicità: i primi infettano le cellule epiteliali degli apparati respiratorio e digerente dei volatili (sottotipi da H1 a H16), i secondi le cellule epiteliali di quasi tutti gli organi (sottotipi H5 e H7, i più letali). Sottotipi H5 e H7 possono mutare da LPAI a HPAI.
L’uomo non ha un’immunità valida verso H5N1, il quale dal 1997 ha acquisito la capacità di replicarsi nei mammiferi (suini); infine alcuni ceppi di H5N1 e H7N7 sono stati trasmessi all’uomo.
L’influenza “suina” fu provocata dal virus 2009 S-OIV H1N1, dotato di scarsa letalità ma altissima diffusibilità: un quadruplo riassortante di 2 ceppi suini, uno umano e uno aviario. In particolare, i segmenti genici H, NP e NS sono di un virus suino classico, N e M provengono da un riassortante suino “avian-like” Eurasian, PB1 da un virus H3N2 umano, PA e PB2 da un ceppo aviario nord-americano. Denominata inizialmente “suina”, perché trasmessa da questo animale all'uomo, ha avuto origine in Messico nel marzo 2009, estendendosi in breve tempo a più di 80 Paesi27. L'OMS ha deciso di considerarla una pandemia Influenzale, non tanto per la sua gravità (ha comunque causato 203.000 morti), ma per la difficoltà di contenere il virus responsabile, essendo facilmente trasmissibile. Rimane la possibilità che questo nuovo agente patogeno si combini con altri ceppi dell'influenza stagionale, o peggio con altri virus aviari, con l’eventualità di creare un nuovo riassortante fortemente virulento. Il periodo di massima allerta è durato circa 1 anno. Da maggio a ottobre 2009 in Italia si sono avuti 16.000 casi definiti “Influenza Like Illness”: il 19% è stato confermato dai test molecolari come influenza suina. 4 i decessi.
Infine, i virus sotto osservazione in quanto ritenuti possibili responsabili di prossime pandemie, se, dopo riassortimento con altri virus influenzali umani o animali, aumenteranno in patogenicità e capacità di diffusione interumana, sono28:
- H5N1, già minaccia pandemica nel 1997/98;
- H7N7, che ha un potenziale zoonotico;
- H1N2, endemico negli umani e nei suini;
- H9N2, H7N2, H7N3 e H10N7.
Considerazioni epidemiologiche, oggi.
Negli ultimi 20 anni numerosi microrganismi, conosciuti, nuovi o emergenti, hanno causato epidemie in diverse zone del pianeta o rappresentato una minaccia pandemica: tra questi, come ricordato, alcuni virus influenzali, H5N1 dell’aviaria nel 1997, la variante “suina” H1N1 nel 2009, un altro virus degli uccelli, H7N9, nel 2013, senza dimenticare il coronavirus responsabile della SARS nel 2003. Le misure di sorveglianza adottate, la collaborazione internazionale, i nuovi mezzi diagnostici e terapeutici hanno permesso di evitare, in questi casi e per altri patogeni, l’estendersi di una epidemia a livello globale.
Un dato è incontrovertibile: la quasi totalità dei virus influenzali, oggi come ieri, ha origine nel sud-est asiatico e in Cina, da cui le epidemie muovono i primi passi e iniziano la diffusione. E la SARS non ha fatto eccezione. Il che vuol dire che quelle condizioni (su cui torneremo) di scarsa igiene negli allevamenti e nei mercati, di possibilità di contatti fra animali selvatici e domestici, di promiscuità tra questi e gli umani, di vendita diretta di bestie vive e non macellate, in sostanza di abitudini ataviche ben lontane da standard igienico-sanitari di un paese moderno, insistono e persistono, anzi talora si aggravano con l’introduzione nella dieta di nuove specie (furetti!). Ad esempio, è stato dimostrato che in Cina, dal 2013, vi è un rapporto diretto tra casi di infezione da H7N9 e carica virale da una parte, numero di mercati e quantità di volatili vivi dall’altra. Tutto questo non può non favorire l’incontro fra virus diversi, il riassortimento fra i loro genomi e il pericolo di generazione e contagiosità di ceppi virali patogeni e diffusivi anche tra gli umani, in definitiva la base per l’insorgenza di una pandemia su scala mondiale (virus nuovo e aggressivo, mancanza di copertura immunitaria, diffusione inter e intra-umana).
Al tempo in cui treni e aerei non esistevano, i viaggi sulle lunghe distanze avvenivano via mare: germi e malattie entravano con le navi nei porti, classico punto d’ingresso delle epidemie. I lazzaretti erano costruiti nei pressi dei moli o in isole al largo. La Spagnola si diffuse mediante le navi che portavano i reduci, ma anche al seguito delle truppe che viaggiavano nelle “tradotte”. In Africa e in Asia centro-orientale fu il treno il principale vettore del virus. Oggi tutto questo è stato sostituito dagli aerei e sono i grandi “hub” internazionali le porte d’ingresso di possibili pandemie, come già accaduto per SARS e H5N1.
Accennavamo nell’introduzione alla globalizzazione che ormai coinvolge ogni aspetto della nostra vita: in riferimento a infezioni che possono diffondersi a carattere epidemico-pandemico, non possiamo non sottolineare quei fattori, anch’essi “planetari”, in grado di favorirle o quanto meno di interferire con la loro estensione; ci riferiamo innanzitutto ai cambiamenti climatici e ai fenomeni demografici e migratori, entrambi interconnessi. Ma vi è tutta un’ampia tipologia di eventi che, sovrapponendosi a vario titolo, ad un tempo causa e/o conseguenza l’uno dell’altro, agiscono sulla mancata eliminazione di vecchi patogeni, la (ri)emersione di nuovi, la diffusione degli uni e degli altri. Abbiamo individuato almeno 4 gruppi di fenomeni: 1) urbanizzazione, modificazione del clima, inquinamento da attività umane; 2) crescita della popolazione, povertà e/o disuguaglianze sociali ed economiche, malnutrizione, carenza idrica; 3) organizzazione socio-sanitaria deficitaria, guerre, migrazioni di milioni di individui, rifugiati e creazione di campi profughi permanenti; 4) viaggi, comportamenti a rischio, uso improprio di antibiotici e antivirali, invecchiamento della popolazione. L’insieme di questi fattori provoca la modificazione degli ecosistemi, lo sviluppo di nuovi patogeni e di malattie emergenti29, 30.
E già cominciano ad affacciarsi problemi nell’uso di antivirali per il virus dell’influenza A31. Alcuni ceppi possono presentare vari gradi di resistenza agli antivirali in uso (Oseltamivir, Zanamivir), ma è impossibile prevedere quale grado di resistenza potranno presentare in futuro gli stessi e altri ceppi virali. Anche il virus H5N1 dell’aviaria, inizialmente sensibile agli inibitori della Neuraminidasi, ha sviluppato presto in diversi infetti resistenza all’Oseltamivir: è conseguenza dell’uso/abuso che ne è stato fatto, soprattutto in Cina. La resistenza all'amantadina e alla rimantadina in America dell'H3N2 è incrementata al 91% già nel 2005, mentre il virus H1N1 della “suina” non ha evidenziato resistenza all’ Oseltamivir. La riproduzione sintetica di H1N1 della Spagnola ha consentito di stabilire che sia l’amantadina che l’Oseltamivir sarebbero stati, almeno in teoria, efficaci contro questo virus.
…e domani?
Per il prossimo futuro una pandemia influenzale devastante costituisce sempre una minaccia realistica: se da una parte vi sono elementi che permetteranno di prevederla e contenerla (misure igienico-sanitarie efficaci, possibilità di studio del “nuovo” virus in tempi stretti e, conseguentemente, allestimento di vaccini, disponibilità di farmaci anti-virali, rete di allarme a livello planetario, misure farmacologiche nei confronti delle complicanze), dall’altra dobbiamo temere una diffusione rapida e totale in un’epoca in cui tutto è globalizzato, viaggi e spostamenti di popolazioni, mezzi di trasporto, nonché la persistenza in numerose aree del mondo di sistemi sanitari inefficienti o deficitari. E’ stato calcolato che un virus aggressivo, con le stesse caratteristiche molecolari dell’H1N1 della spagnola oggi sarebbe potenzialmente letale per non meno di 60 milioni di persone, se si diffondesse con la stessa rapidità di un secolo fa, nonostante le nostre attuali conoscenze e un miglior armamentario profilattico e terapeutico.
In caso di epidemia influenzale, 6 “steps” necessariamente rapidi e precoci devono essere attuati, secondo una sequenza-base che proponiamo: 1) Precoce ricognizione dell’epidemia; 2) e 3), contemporaneamente: identificazione rapida e accurata del microrganismo responsabile, identificazione degli aspetti epidemiologici e delle modalità di trasmissione; 4) interventi e adozione di misure precoci, rapide e appropriate; 5) controllo effettivo dell’epidemia; 6) prevenzione di future epidemie. Rapidi e precoci sono gli attributi che ricorrono più frequentemente per ogni misura, due qualifiche imprescindibili se si vuole fermare un’epidemia sul nascere o prima che apporti guasti fuori controllo.
Strategie di prevenzione a breve termine sono state messe a punto dal “Council on Foreign Relations”32; se l'influenza resta confinata tra gli animali e la trasmissione da uomo a uomo è limitata, non costituisce ancora una pandemia, ma è comunque un rischio. Per evitare la trasformazione in pandemia, sono previsti:
1) La vaccinazione e/o la soppressione degli animali.
2) La vaccinazione delle persone che lavorano a contatto con gli animali contro l'influenza comune (< le possibilità di riassortimento tra virus).
3) La limitazione dei viaggi nelle zone a rischio (ZI, zone infette, ZP, zone protette).
4) L’incremento della disponibilità dei vaccini ad uso veterinario e la riduzione dei costi.
5) Allevamenti: miglioramento delle norme igieniche, pessime in Cina e sud-set asiatico; riduzione /proibizione dei contatti tra il pollame allevato, i volatili selvatici e altri animali potenziali “reservoir” del virus (suini); modifica delle norme di allevamento intensivo; modifica delle norme per la vendita di pollame incoraggiando l'acquisto di carni già macellate e confezionate al posto di animali vivi.
Nel 2015 l’OMS ha pubblicato le previsioni sull’aumento di patogenicità dei virus dell’influenza aviaria, gli scenari futuri di trasmissione inter e intra-umana e i rischi di pandemie a breve/medio termine33. In sintesi: il rischio di pandemia è grande e persisterà, in particolare per H5N1; l'evoluzione del virus non può essere predetta; il sistema di primo allarme è ancora debole; l'intervento preventivo con vaccini specifici è possibile ma non ancora testato; una drastica riduzione della morbosità e della mortalità durante una eventuale, prossima pandemia richiederà interventi medici che si prospettano inadeguati ancora per lungo tempo, soprattutto in Asia, Africa e sud-America. L'OMS ha pubblicato un “Piano di preparazione” contro l'Influenza globale: definisce le responsabilità delle autorità locali e mondiali. È la prima volta che si progettano opportune contromisure, da attuare ancor prima di una pandemia o in una fase precocissima, tentando di impedirla o evitando che “una scintilla diventi incendio” (Ghirardi) e organizzandosi nel caso la prevenzione venga a mancare; a focolaio epidemico accertato, ritardandone la diffusione e permettendo che le società civili continuino a funzionare il più normalmente possibile.
I laboratori di virologia e biologia molecolare hanno e avranno un ruolo sempre più determinante. Sia nei test individuali che negli screening di massa, gli accertamenti vanno eseguiti preferenzialmente su campioni ottenuti con manovre poco invasive e mediante accessi di semplice disponibilità: sangue ed espettorato, ad es., lasciando BAL e studio del polmone profondo alle indagini di conferma e di approfondimento. Step essenziale è oggi l’isolamento del virus e l’individuazione e il sequenziamento degli acidi nucleici virali; in ogni caso, vanno utilizzati in modo appropriato i test disponibili nel corso della manifestazione epidemica: la biologia molecolare si propone per una rapida identificazione e caratterizzazione del virus, mentre la sierologia e l’immunologia, non altrettanto validi nella diagnosi precoce, assumono un ruolo considerevole nella diagnostica di conferma e nella successiva sorveglianza. Passo ulteriore è la valutazione della risposta immune umorale e cellulare dell’ospite. Richiamo doveroso riguarda l’impiego di laboratori BSL3/4 per tutte le procedure di identificazione del virus.
Tuttavia, siamo ancora lontani da standard ottimali nelle procedure diagnostiche e di monitoraggio praticate nei laboratori: nel 2017, tra i centri europei EUPH partecipanti al programma di sorveglianza EMERGE JA, non più del 71% era in grado di effettuare test molecolari per l’identificazione degli Orthomyxovirus, ancor meno praticava saggi sierologici di tipizzazione degli Orthomyxovirus o per discriminarli da virus di nuova identificazione quali Arenavirus, MERS, Nipah e Hendra. In altri Continenti la situazione è ancor più deficitaria34.
I dati prodotti dalla sorveglianza integrata sono fondamentali per la messa a punto, e il successivo aggiornamento, dei modelli matematici che forniscono le informazioni necessarie alla definizione degli interventi da adottare. Esistono diversi networks di sorveglianza e allerta internazionali, elettronici e telematici: ad es., il “Global Outbrek and Alert Response”, cui fanno capo i singoli sistemi nazionali e locali, come il “Global Public Health Intelligence Network” canadese35, cui si devono i primi rilievi (eseguiti in Cina, Vietnam e Hong Kong) nel 2002 dei casi successivamente etichettati “SARS”. Si tratta di veri e propri “motori di ricerca” programmati per percorrere il web alla caccia di possibili malattie infettive e casistiche patologiche; sono analizzati migliaia di siti in più lingue alla ricerca di infezioni da agenti noti o sconosciuti. I risultati filtrati vengono poi trasmessi a esperti dell'OMS, cui in definitiva fanno capo. Le segnalazioni, fino a 15 anni fa effettuate solo in inglese e francese, sono oggi analizzate, tradotte e trasmesse nelle principali lingue del mondo.
Molto interessante nelle prospettive di applicazione appare una nuova disciplina, l’“Epidemiologia computazionale”36, 37: consente di prevedere il decorso nel tempo e nello spazio della trasmissione di una malattia infettiva mediante simulazioni virtuali al computer. E’ necessario raccogliere e analizzare una gran mole di dati (BIG DATA)38, indispensabili per le simulazioni, grazie anche ai progressi della genomica e degli studi sulla tracciabilità degli spostamenti umani. Questi modelli offrono ai sanitari un valido aiuto per prevedere e prevenire le mosse del “nemico” e sviluppare strategie per combatterlo e arginarlo, soprattutto quando un’epidemia, da una remota area del mondo, minaccia di diffondersi e divenire “globale”.
I “Big Data” riguardano:
1) I microrganismi: genomi, Ro (coefficiente di riproduzione), incubazione, velocità di diffusione dell’infezione.
2) Lo status statico e dinamico delle popolazioni: assetto sociodemografico, nuclei familiari, scuole e posti di lavoro, mobilità e trasporto di singoli e gruppi di persone, pendolarismo locale, mobilità aerea nazionale e internazionale, scali aeroportuali.
3) La sanità locale: infrastrutture ospedaliere, personale a disposizione.
L’elaborazione di questi dati mediante complessi e sofisticati software dedicati, consente, all’inizio di un’epidemia, ma anche durante il suo sviluppo, mano a mano che nuovi dati affluiscono e modificano i primi, di mettere a disposizione di esperti, tecnici e “addetti ai lavori” non solo numeri e informazioni statistiche, ma le basi concrete per predisporre adeguate misure protettive e di contenimento. In particolare:
Diversi i progetti di ricerca riguardanti i virus influenzali: ricordiamo i più significativi.
Non possiamo concludere questa sezione, sospesa tra presente e futuro, senza un cenno sui vaccini. Il primo passo significativo nella prevenzione dell'influenza fu lo sviluppo nel 1944 di un vaccino da parte di T. Francis Jr., basandosi sulle osservazioni di F. Macfarlane Burnet, che aveva dimostrato come il virus perdesse tutta la virulenza, mantenendo le proprietà antigeniche, quando veniva coltivato in uova di gallina fertilizzate. Francis e coll., dell'Università del Michigan, svilupparono il primo vaccino anti- influenzale, con il supporto dell'esercito statunitense, coinvolto nella ricerca anche a seguito della drammatica esperienza della prima guerra mondiale, quando migliaia di soldati furono uccisi dal virus in pochi mesi.
Oggi abbiamo a disposizione vaccini di vario tipo. Vaccino a subunità (il più utilizzato): assai purificato, è composto dalle sole proteine (H ed N di diversi ceppi dei tipi A e B) in grado di stimolare una risposta anticorpale, la più ampia possibile verso questi antigeni. Vaccino a virus frammentati: mediante solventi si dissolve un mix di ceppi che rilasciano numerosi antigeni. Vaccino virosomiale: liposomi alloggiano nei due strati fosfolipidici che li costituiscono diverse proteine virali fortemente immunogene. Per il futuro, oltre al già citato vaccino “universale” anti-M2 in fase di sperimentazione, ricordiamo vaccini ottenuti, mediante DNA ricombinante, da virus artificiali creati dal riassortimento fra genomi di più ceppi, in modo da accrescere le potenzialità antigeniche39.
Conclusioni.
Negli ultimi decenni abbiamo assistito a molti importanti successi nella lotta alle malattie infettive, alcune delle quali, fra le più gravi, sono praticamente scomparse (vaiolo, poliomielite); abbiamo creduto di essere sulla strada per la loro completa eradicazione, ma nel nuovo millennio diverse sono state le situazioni che ci hanno purtroppo fatto ricredere: aviaria, Ebola, Zika, ad es.40 Patogeni emergenti e riemergenti ci dimostrano quanto la nostra società sia fragile di fronte ai pericoli loro portati. Il nostro è un mondo sempre più interconnesso e interdipendente, in cui le epidemie si diffondono anche usando i grandi hub aeroportuali: una nuova epidemia da un angolo remoto del mondo può così diffondersi e divenire una minaccia globale dall’impatto universalmente devastante. “Per gli analisti, gli epidemiologi e gli infettivologi, in tema di prossima pandemia influenzale globale, non si tratta di se, ma di quando; affronteremo di sicuro un’altra, nuova battaglia, con armi e mezzi senz’altro più efficaci rispetto al passato, una prospettiva comune che dovrebbe riunire l’intero mondo della ricerca e la società civile”. (A. Vespignani).
Il passato ci ha insegnato molto. L’evento biologico scatenante la Spagnola è stato lo “spillover” tra uccelli e umani; in seguito il conflitto ha contributo alla sua eccezionale letalità, aiutando la diffusione del virus in tutto il globo. È difficile immaginare un meccanismo di contagio più efficace della mobilitazione di grandi quantità di truppe nel pieno della pandemia, che poi tornarono a casa nei 4 angoli del mondo accolte da folle festanti. Spagnola, Asiatica, altre epidemie, ci hanno insegnato che una futura, probabile pandemia influenzale provocherà un numero molto variabile di vittime e ciò dipenderà soprattutto da come sarà il mondo in cui si scatenerà e dall’impatto con l’assetto sociale e sanitario che noi umani avremo costruito fino a quel momento.
Nella lotta fra uomini e microrganismi, virus in particolare, questi ultimi sono sempre almeno un passo avanti a noi!
BIBLIOGRAFIA