Anno Accademico 2018-2019
Vol. 63, n° 2, Aprile - Giugno 2019
ECM: Novità in tema di malattia venosa cronica (MVC) degli arti inferiori
12 marzo 2019
Servizi Ambulatoriali Specialistici, Branca Angiologia, ASL Frosinone
ECM: Novità in tema di malattia venosa cronica (MVC) degli arti inferiori
12 marzo 2019
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Con questo lavoro gli Autori illustrano la classificazione CEAP ormai in uso da 25 anni e basata sui quattro parametri clinico, eziologico, anatomico e fisiopatologico, e descrivono i diversi relativi quadri clinici di esordio ed evolutivi della malattia venosa cronica. Tale classificazione, di particolare utilità nell’impiego clinico, consente di standardizzare la metodologia diagnostica, di ottimizzare ed uniformare la refertazione clinica e il trattamento dei diversi quadri che caratterizzano l’evoluzione della malattia venosa cronica, e permette la formulazione di una diagnosi uniforme con la possibilità di un confronto omogeneo e di una ripetibilità tra diverse popolazioni di pazienti1. Creato da una commissione Internazionale dell’American Venous Forum, istituita appositamente nel 1994, tale sistema classificativo è stato divulgato in tutto il mondo ed attualmente rappresenta lo standard accettato ed utilizzato per la classificazione e la stadiazione dei diversi quadri della malattia venosa cronica. Gli elementi classificativi sono rappresentati da una descrizione della classe clinica basata sulle manifestazioni obiettive (C), l’eziologia (E), la sede anatomica (A) del reflusso e/o dell’ostruzione nel sistema superficiale, nel sistema profondo ed in quello delle perforanti e la fisiopatologia (P), sia essa determinata da reflusso, sia da ostruzione ed in ogni caso correlata al primum movens fisiopatologico del meccanismo emodinamico stasi-ipertensione1.
Le classi che costituiscono tale sistema sono riassunte nelle tabelle di seguito riportate (Tab. 1, 2).
Concepita come documento che nel tempo avrebbe avuto una sua naturale evoluzione, la classificazione CEAP è stata ufficialmente ritoccata e ampliata da un comitato internazionale di esperti sotto gli auspici dell'American Venous Forum nel 20042. Il documento modificato mantiene le classi CEAP di base, ma ne migliora i dettagli fondamentali. Per favorirne un uso più ampio e più semplificato tra i medici, è stata adottata anche una classificazione abbreviata o "CEAP di base", in alternativa alla classificazione CEAP completa3.
La classificazione CEAP consente di identificare i differenti livelli diagnostici che correlano con il piano costo/beneficio, in linea con le recenti necessità raccomandate o imposte dal SSN.
Non è strumento facilmente gestibile dal medico di altra specialità in quanto comporta anche la necessità di un completamento diagnostico strumentale oltre a richiedere una buona perizia clinica angiologica. Si può considerarla diretta prevalentemente allo specialista angiologo o chirurgo vascolare che deve monitorare in maniera oggettiva e ripetibile la progressione della malattia.
Utilizzando infatti nel modo corretto tale classificazione il paziente può essere seguito dettagliatamente nell’evoluzione della malattia (con carattere di obiettività e clinica soggettiva) anche consultando centri diversi e viceversa. Inoltre la classificazione CEAP consente di valutare l’evoluzione della malattia di un soggetto visitato in centri diversi da quello di prima osservazione, ma soltanto se i centri precedenti hanno utilizzato tale metodologia di classificazione clinica.
In sintesi concretizza un tentativo, con base scientifica solida, di utilizzare uno stesso linguaggio.
Oltre la classificazione strettamente clinica, la CEAP comprende una classificazione che prende in considerazione elementi eziologici (Tab. 3), una che esamina i quadri anatomici (Tab. 4) ed una che valuta gli aspetti fisiopatologici (Tab. 5).
La classificazione CEAP consente dunque di identificare e sistematizzare la molteplicità dei sintomi e dei segni sovente del tutto aspecifici fin dalle fasi di esordio dei quadri clinici riconducibili alle classi iniziali della M.V.C., quelle cioè che vanno da C0 a C2 quali dolore, pesantezza, senso di gonfiore, crampi, prurito, parestesie, presenza di vene intradermiche bluastre permanentemente dilatate solitamente di diametro da 1 mm a meno di 3 mm ovvero vene sottocutanee permanentemente dilatate, di 3 mm di diametro o più, in posizione eretta.
La classe C3 è quella in cui si realizza un incremento percepibile del volume del fluido nel tessuto sottocutaneo identificato dalla formazione di una impronta sotto pressione. Questa definizione include solo l'edema attribuibile alla malattia venosa. L'edema “venoso” si caratterizza per la sua iniziale localizzazione “acromelica” manifestandosi di solito nella regione della caviglia ma può estendersi progressivamente al piede e alla gamba, progredisce durante la giornata, maggiormente in corso di ortostatismo protratto e nelle ore serali scomparendo sovente con l’ortodinamismo e il clinostatismo (Fig. 1).
Gli stadi evolutivi più avanzati che iniziano con la classe C4, a sua volta suddivisa in due sottoclassi C4a e C4b, comprendono quadri meno aspecifici e ben identificabili quali le manifestazioni distrofico-discromiche (eczema da stasi, lipodermatosclerosi) e il quadro rappresentato dalla atrofia bianca, alterazione cutanea del tutto peculiare segno di grave sofferenza cutanea e sovente predittrice di lesioni cutanee.
La lipodermatosclerosi (Fig. 2) è un quadro clinico con cui si identifica una lesione cutanea indurativa, sclerotica e iperpigmentata a carico di una gamba. E’ espressione di ripetuti stravasi eritrocitari interstiziali indotti dalla stasi-ipertensione, con successiva degradazione dell’emoglobina e formazione di emosiderina. La componente pigmentaria prelude e precede la comparsa della lipodermatosclerosi propriamente detta.
Trattasi di un processo discromico-ipodermitico da distinguere da tutte le ipodermiti primitivamente “dermatologiche che non riguardano la flebologia e non risultano correlate a meccanismi di ordine flebostatico”. L’eczema da stasi rappresenta una affezione costantemente pruriginosa che può evolvere in forme intensamente trasudanti, desquamanti, screpolate (eczema “craquelé”), complicate da lesioni da “grattamento” e aggravate da sensibilizzazioni a terapie topiche, sovente evolventi con irregolare cronologia e frequenti riacutizzazioni, verso cronicità in paracheratosi e dermatosi secche in forme squamose o lamellari4 (Fig. 3).
L’atrofia bianca è una lesione cutanea extrafasciale a tendenza ulcerativa. Descritta per la prima volta da Milian nel 1929, definita “atrophie blanche” degli Autori Francesi, inizialmente veniva correlata alla lue e alla tubercolosi.
L’atrofia bianca appare sotto forma di chiazze biancastre o di color avorio talora madreperlaceo, leggermente depresse sul piano cutaneo e di grandezza variabile da una capocchia di spillo ad una moneta. Queste chiazze hanno forma solitamente rotondeggiante od ovalare ma possono apparire anche di forma irregolare e nella gran parte dei casi con limiti non netti e scarsamente demarcati. Inizialmente poco estesa, la lesione tende a confluire in chiazze irregolarmente delimitate, nelle quali restano incluse isole di tessuto cutaneo relativamente sane, con capillari giganti che emergono come teste di spillo nei settori “malati”. Nella gran parte dei casi l’atrofia bianca si iscrive sul terreno distrofico-discromico proprio della dermo-ipodermite siderinica conosciuta anche come “dermatite ocra”. Spesso associata sia a quadri severi di lipodermatosclerosi sia a lesioni ulcerative flebostatiche, può precedere anche di anni la complicanza ulcerativa. Sedi elettive sono le porzioni distali della gamba, con predilezione delle superfici mediali segnatamente per la regione malleolare e sottomalleolare (Fig. 4). Si riscontra più frequentemente nelle donne che negli uomini, quasi esclusivamente in gambe affette da grave IVC.
La vera atrofia bianca va sempre distinta da cicatrici o da depigmentazione su varici o su siderosclerosi (la cosiddetta “pseudo-atrofia bianca”)5.
La manifestazione clinica finale e più grave e invalidante dell’insufficienza venosa cronica è rappresentata dalla lesione ulcerativa (classi C5-C6 che identificano rispettivamente la lesione flebostatica cicatrizzata e quella in fase attiva).
Dal punto di vista clinico, la forma delle ulcere venose è in genere rotondeggiante o ovalare, comunque irregolare; talvolta può assumere aspetti bizzarri. La grandezza è estremamente variabile, da pochi millimetri a forme fagedeniche, così come il numero (le ulcere venose sono di solito uniche, ma possono essere anche multiple, confluenti). I bordi sono irregolari e frastagliati, spesso callosi. Si estendono raramente in profondità sino alla fascia muscolare o al piano osseo. Il fondo può essere granuleggiante o fibrinoso, raramente necrotico. Nelle ulcere estese di vecchia data si possono rinvenire sul fondo microcalcificazioni6 ( Fig. 5).
In conclusione: La diagnosi di MVC si basa sostanzialmente sulla clinica delle manifestazioni obiettive e su una anamnesi accurata. Le manifestazioni cliniche, i quadri anatomici e i profili etiologici e fisiopatologici possono essere correttamente rilevati ed inquadrati dalla applicazione del sistema classificativo CEAP che consente una buona appropriatezza dell’indirizzo diagnostico. Tale strumento classificativo costituisce dunque utile supporto ad un corretto ed appropriato indirizzo diagnostico (al quale si può giungere partendo dalle semplici ma sempre valide manovre della semeiologia classica di “attivazione” del sistema venoso eseguita sia in clino- che in ortostatismo fino ad arrivare agli esami strumentali ad ultrasuoni e alla diagnostica per immagini) .
La correttezza della diagnosi consente un coerente ed appropriato percorso terapeutico nel rispetto dei rapporti costi/benefici, attraverso la prescrizione mirata di norme comportamentali, posturali e di stile di vita, di presidi elastocompressivi, di terapia farmacologica sistemica e topica, di trattamenti chirurgici e/o di diverse opzioni terapeutiche7.
BIBLIOGRAFIA