Dott.ssa Patrizia Ricca

UOC Patrimonio Aziendale e Complesso Monumentale di S. Spirito in Sassia, ASL Roma 1

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2018-2019

Vol. 63, n° 3, Luglio - Settembre 2019

Settimana per la Cultura: Conferenze

16 aprile 2019

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Trascrizione del Manoscritto Lancisiano 149. “Il Giornale dell’ultima infermità di Sua Maestà Innocenzo XI”

P. Ricca

La trascrizione di un manoscritto rappresenta, seppur nella sua complessità, non soltanto la trasposizione di un testo da un supporto all’altro, ma diventa un’occasione di dialogo con le pagine di un codice o le carte di archivio che, attraverso i segni vergati da mani antiche, tramandano finestre aperte, su porzioni di storia, dalle quali potersi affacciare.

Il presente elaborato riguarda la trascrizione del codice manoscritto “Il Giornale dell’ultima infermità di Sua Maestà Innocenzo XI”1, che consiste nella stesura definitiva del testo originale, si può dire in “bella copia” dell’opera lancisiana relativa all’agonia, la morte e il post mortem del pontefice Innocenzo XI.

Il manoscritto tramanda la cronaca di ciò che accadde attorno al capezzale del Pontefice, mirabilmente descritta con minuzia, e getta un interessante ponte sulla medicina dell’epoca, la cura con l’uso delle spezie e della dietetica. Inoltre conduce il lettore verso la società contemporanea a Innocenzo XI, specialmente quella che riguardava la città di Roma.

L’intento è quello di fornire uno strumento che favorisca la fruizione e lo studio del prezioso manoscritto, oltre a promuovere e stimolare la conoscenza del patrimonio bibliografico inedito, conservato nella Biblioteca Lancisiana di Roma2.

Per la trascrizione sono stati utilizzati i criteri standard di trascrizione di opere manoscritte3.

 

INTRODUZIONE

Giovanni Maria Lancisi, archiatra pontificio di Innocenzo XI Odescalchi e Clemente XI Albani, fu illustre figura di rilievo, nel panorama scientifico e umanistico del XVIII secolo, a livello internazionale ma soprattutto a Roma, ove svolgeva le sue funzioni di professore universitario alla Sapienza, medico e ricercatore presso l’Ospedale S. Spirito in Sassia, fu anche protomedico del Collegio Medico dello stato Pontificio e membro del Collegio Medico Romano.

Allievo del celebre anatomista Guglielmo Riva e Giovanni Tiracorda, il Lancisi si formò presso l’Ospedale di S. Spirito in Sassia e l’università romana La Sapienza, ove ne divenne illustre professore e lettore di anatomia e di medicina teorica e pratica, svolgendo le sue lezioni anche all’interno dell’anfiteatro anatomico. Egli ha valicato i confini della storia anche grazie alla istituzione di una Biblioteca medica pubblica, inaugurata il 21 maggio del 17144 alla presenza di papa Albani, Clemente XI.

La Biblioteca Lancisiana, ancora oggi arredata con armari settecenteschi, conserva al suo interno opere d’arte in marmo, strumenti scientifici tra cui le sfere armillari di Federico Barocci e Vitale Giordani, e due globi del cosmografo Vincenzo Maria Coronelli.

La collezione consiste in circa 20.000 volumi tra cui oltre 400 manoscritti, circa 1628 cinquecentine e circa 60 incunaboli tra cui si annoverano tre codici medievali miniati, i consulti lancisiani, e tre testimoni manoscritti del ‘Giornale dell’ultima Infermità di S.M. Innocenzo XI’: ms 1485, ms 149 e ms 1506.

Giovanni Maria Lancisi, redasse il “Giornale dell’ultima infermità di Innocenzo XI”, e lo dedicò a papa Clemente XI, con l’intento di aggiungere autorità alla verità dell’Istoria e far spiccare fra le altre Virtù, la Pietà, la Carità, la Prudenza, il Disinteresse, et il Distaccamento da suoi7, il pontefice Innocenzo XI.

Com’era consuetudine per i medici di alto rango, anche il Lancisi si avvalse del suo segretario personale, nella redazione del Giornale, che tramanda gli avvenimenti degli ultimi giorni di vita di papa Odescalchi costretto a letto, sofferente ma lucido, al punto di stabilire a chi fosse consentito l’accesso al suo capezzale.

Il Lancisi fu uno dei pochissimi eletti a poter beneficiare di tale dispensa e ciò gli valse la possibilità di essere testimone e di poter tramandare momenti carichi di apprensione, tenerezza e compassione nei confronti di Innocenzo XI.

 

SCHEDA CODICOLOGICA DEL MANOSCRITTO LANCISIANO 149

Il manoscritto 149 è un esemplare cartaceo, comprese le carte di guardia, a fascicoli legati. La data della stesura è stimata tra il 1689 e il 1720, la prima si riferisce all’incoronazione di papa Clemente XI, la seconda alla morte del Lancisi.

Apre il manoscritto un’incisione che incornicia il frontespizio recante il titolo e il sottotitolo dell’opera. In alto, al centro del fregio è presente il grande stemma (d'azzurro alla fascia accompagnata in capo da una stella a otto raggi e in punta da un monte di tre cime, il tutto d'oro) del pontefice Albani, Clemente XI, a cui il Lancisi dedicò il Giornale.

Sempre sul frontespizio è presente un timbro ovale con la legenda “Bibliotheca Lancisiana” e l’arma del Lancisi: due lance in S. Andrea accompagnate in capo a tre stelle e in basso dal trimonte; lo scudo è timbrato da un cappello di prelato con due ordini di nappe8.

Sul dorso del volume sono presenti 5 nervi che delimitano 6 scomparti. Nel secondo è presente il titolo dell’opera, nel terzo l’indicazione XXII Lancisi, nel quarto il numero di catena “149”; l’ultimo è il talloncino della biblioteca con segnatura “LXXV.2.16” il manoscritto molto probabilmente aveva questa legatura al tempo della sua inventariazione nell’Index” del 17709.

Gli assi sono in cartone e la coperta in pelle di colore marrone scuro decorata con fregi d’oro sul dorso e sui bordi e tagli colorati in rosso e ocra.

La filigrana della carta, che compone il manufatto, riporta un volatile su un trimonte inscritto in un cerchio semplice o sormontato da una G (cc. 1 e 51) quasi certamente riconducibile a una cartiera romana, secondo quanto individuato dal repertorio di filigrane Briquet.

La numerazione delle pagine è ad inchiostro, vergata da mano coeva, nel margine superiore destro.

 

COMPOSIZIONE DEL MANOSCRITTO

Il manoscritto 149 è composto dalle seguenti sezioni:

  1. IL FRONTESPIZIO (c. 2)10
  2. DEDICA A CLEMENTE XI (c. 5)11
  3. L’ INTRODUZIONE AL GIORNALE (c. 9)12
  4. Il GIORNALE (c. 20)13
  5. RELAZIONE APERTURA CADAVERO (c. 209)14
  6. RELAZIONE DEGLI ULTIMI QUATTRO GIORNI – COLLOREDO15
  7. INDICE DELLE COSE PIU’ NOTABILI16

 

TRASCRIZIONE DEL MANOSCRITTO 149

C. 1 carta bianca

C. 2 Giornale sull’ultima infermità della S.M. D’Innocenzo XI in cui si rende conto non solo del male, e sua cura, ma eziando della Sofferenza, Pietà, e Morte di questo S. Pontefice, disteso e dedicato alla Santità di N.S. Papa Clemente XI Da Monsignor Giovanni Maria Lancisi Medico e Cameriere Segreto di ambedue questi Sommi Pontefici.

C. 3 carta bianca

C. 4 carta bianca

C. 5 Beatissimo Padre, Due sono i maggiori motivi, per i quali io avanzo il mio ordimento sino a presentare alla Santità Vostra un rozzo lavoro della mia penna, impiegato attorno ad un Giornale dell’ultima Infermità del Gloriosissimo Pontefice Innocenzo XI. Uno si è che trattandosi in esso dell’indole e, qualità ammirabili di questo Santo, e gran Pastor della Chiesa, a niuno meglio mi è parso doversi consecrare, che a Vostra Beatitudine, che lo ha trattato per molto tempo in qualità di suo degno, et intrinseco

C. 6 Ministro: poiché in questa guisa mi sono persuaso di poter aggiungere autorità alla verità dell’Istoria, che io vengo a descrivere. L’altro motivo poi, molto più forte del primo, deriva dall’aver’ io studiato in questi fogli di far spiccare fra le altre Virtù, la Pietà, la Carità, la Prudenza, il Disinteresse, et il Distaccamento da suoi, che resero tanto singolare nel secolo passato il nostro Innocenzo. Or, vedendo io, che nel nascere di questo secolo si sono alzate a vista comune tutte a cinque le suddette Virtù nella Persona di Vostra Santità, Io non posso trattenere il moto naturale per cui vanno ad unirsi fra loro le cose simili e, mi vedo perciò rapito dalle mani

C. 7 questo volume per la forza intrinseca della simpatia, che corre frà l’Innocenza e la Clemenza. Gradisca intanto Vostra Beatitudine, come genuflesso ai suoi santissimi Piedi umilmente ne supplico, questo picciol tributo, che le viene offerto da un povero suddito, e servitor suo famigliare.

Pastores Lacte Litant, cum thura non habeant.

Di Vostra Santità Umilissimo Devotissimo et Obligatissimo Servitore, e Suddito Giovanni Maria Lancisi

C. 8 carta bianca

C. 9 Introduzzione  al Giornale Dell’ultima Infermità della Sua Maestà d’Innocenzo XI

La maggiore e più fina prudenza, che debba usarsi da chi brama tessere un’Istoria, è quella di saper’eleggere il soggetto, sopra cui egli vuole impegnare il proprio lavoro: poiche se sciegliere un’eroe, freggiato di sode, di rare, e di eminenti virtù, spargendo pochi sudori della sua personna, raccoglierà a fasci le palme dell’onore, e della stima, e con lodevolissimo artificio farassi a parte

C. 10 di quella gloria che non è sua. Io perciò dolcemente invidiarò sempre la saviezza di quello scrittore, che si appigliarà al ragguaglio della vita prodigiosa, e delle santissime operazioni del Sommo Pontefice Innocenzo XI essendo che questo gran Sacerdote andò sempre fornito di tutte le virtù, mà in grado eroico: e fù Pontefice, che coll’oro estratto dal suo erario ruppe le catene di barbara schiavitù, sovrastante a tutta la Germania, et Italia dalla sola caduta di Vienna; che con la costanza, e fortazza dell’animo suo viveva prontissimo a morir Martire, per mantenere un solo diritto dell’eredità sacrosanta, trasmessa alla sue mani, Pontefice in somma, che

C. 11 con un misto di virtù seppe riaprire al Mondo Christiano una scuola, gia serrata da più di un secolo in Vaticano, insegnando coll’esempio di dodici e più anni continui, che si può esser Papa col disinteresse, e si può vivere da Uomo col sopraumano distaccamento da suoi, che le fè meritare le lodi infin da Nemici. Ora non potendo io, e per la povertà de miei talenti, e per la scarsezza di notizie, che devonsi principalmente estrarre dalla Segretaria di Stato, tessere, ed arricchire una Intera Istoria di questo Eroe Apostolico, rapportarò almeno quella parte della sua vita, che fù coronata gloriosamente dalla Morte, e tratterrò il mio Lettore con la sola narrativa dei

C. 12 successi, e detti da Lui nell’ultima sua infermità, scorrendo brevemente anche i primi anni della sua vita, per cavarne solamente quelle cose, che hò stimato necessarie per la facile intelligenza di tutto ciò, che, si nel male, come nel di Lui Cadavere è stato osservato.

Fù Sua Santità di statura notabilmente grande, di tessitura gracile, di color pallido, e di genio serio, e malinconico, dotato di tutte quelle rarissime qualità, che possono rendere ammirabile un Prencipe, ne mai da stimarsi più degno dell’Imperio, che dopo esser salito sul Trono. Nacque in Como il di 17 Maggio 1611. L’ultimo di sei fratelli, e come la Santità sua spesso soleva dire, visse gl’anni

C. 13 dell’Infanzia con si poca salute, onde le fù necessaria una cura particolare, che rendeva portentosa la sua sopravvivenza. Crebbe poi, e si assodò Fanciullo robusto, e Giovane sanissimo, riparato dal Signore Dio da gravi pericoli, tanto di Peste del 1630, quanto di cadute da cavallo, delle quali Sua Beatitudine rammentava quell’una, piena di orrore insieme, e di prodigio, che le occorse nel 1627, in età di 16 anni quando nel correre a briglia sciolta per una strada ricoperta di selci, le cadde sotto il Polledro, il quale, subito riscuotendosi, lasciò questo Putto rovesciato in terra, e sospeso pe'l piede destro alla staffa; ne intanto quel feroce, e poco ammaestrato destriero mosse un passo

C. 14 trattenuto in freno dalle redini, che in si pericolo sconcerto egli tenea pur anche generosamente alle mani.

Negl’anni giovanili fù in Patria sorpreso dalla febbre, che assai presto si deleguò; e passato poi in Napoli, le si accese una grande infiammaggione di gola, che cessò con la rottura di una Postema, il che altra volta similmente le accadde, viaggiando già Cardinale di Macerata a Loreto. Ne primi anni del suo ingresso in Roma fù gravemente angustiato da una palpitazione di cuore dalla quale si liberò coll’uso dell’acqua della Villa di Lucca, ordinatale dal Medico Messori. Non devo qui trascurare la notizia di una ispirazione, con la quale il Signore Dio

C. 15 mosse questo gran’uomo a rimanere in Roma ed  incamminarsi nel sentiero della Prelatura. Era questo Signore (come egli mi diceva) tornato di fresco da Napoli, ed abitava vicino alla piazza di SS Apostoli con animo più che fermo di non volere scieglere neruno stato, perché stimava non convenir giamai ad un’Uomo il perdere volontariamente la sua libertà, anzi essere di mestiero trovarsi sempre in capitale di poter sciegliere un miglior stato. Godeva egli intanto della bella strada, che conduce da Monte Cavallo a Porta Pia, nella quale giva ogni sera a passeggiare, ed’appunto al tocco del segno dell’Ave Maria si trovava in mezzo alle quattro Fontane, quando, nel recitare l’orazione, si sentì mosso interamente

C. 16 da Dio con questo motivo: “Se fosse vero, che non si deve scegliere alcuna strada nel nostro vivere; dunque ne pur questa sera delle quattro bellissime strade, che quì fan capo, dovreste scieglierne alcuna.” Or forse fa d’uopo seguirne pur’una, per non restare allo scoperto la notte: così bisogna finalmente nel vivere umano appigliarsi a quella via, che è più confacevole alla propria inclinazione, ed è moralmente più sicura alla salute dell’anima. Quindi, sentendo una interna violenza di appigliarsi alla Prelatura, la mattina seguente si portò a Palazzo, e diede la supplica alla S.M. di Urbano VIII a questo fine. Ma ritorniamo di grazia a quelle notizie, che possono contribuire all’idea, da farsi della complessione di Nostro Signore.

C. 17 Come il Padre di Sua Santità, così tutti i suoi Signori Fratelli patirono assai presto di calcoli, e di Podagra, da cui alla fine abbattuti, morirono in età consistente, e solo il Padre del Sig. Prencipe D. Livio, salì all’anno di sua età 65. La continenza, ed il riguardo nel modo di vivere (Virtù, che nella Persona di Nostro Signore furono inalterabili per tutto il corso della sua dimora in Roma) tennero lontana per molti anni la Podagra, sicchè la prima volta ne fù attacato solamente nel Mese di Settembre del 1683. Aveva bensì da circa 30 anni indietro incominciato a patire d’un male de reni, manifestato non solo con una certa gravezza, o cintura (com’egli spiegava) ne Lombi, che poi sperimentò diminuita oltre modo dall’uso della fontanella

C. 18 sopra il ginocchio, ma inoltre con l’esito dell’orine, sempre aliene dal naturale, non meno nella sostanza, che nel colore, e massime dopo il moto, a proporzione del quale maggiore o minore, scorrevano più o meno rosse, e torbide, sicche coll’andare in  Carrrozza, si scaricavano tinte di sangue, e notabile ancora, binche minore alterazione ricevevano dalla lettiga, tanto che, obligato a gire in sedia, pur anche ne sperimentava la sensibilissima mutazione. Quindi poco a poco, facendo una vita sedentaria, nodrì l’affezzione ipocondriaca, e flautosa, da cui restò molestato per tutto il rimanente dei suoi anni, nel giro de quali furono in esso frequenti raffreddori, anche con febbre, come nel 1685 essendo

C. 19 Papa, et abitando nel Palazzo di San Pietro, da uno di questi, che le minacciava l’Infiammaggione da Pulmoni, fù obligato per conseglio di Monsignor Santucci, mio Predecessore e del Signor Medico Tiracorda mio Maestro a farsi cavar sangue dalla Salvatella. Per ultimo nelle gran’mutazioni delle stagioni, solestizio, et equinozzio, era invaso più tosto dall’Artritide, che dalla semplice Podagra, mentre non meno gli articoli inferiori, che i superiori si risentivano. Questo è tutto ciò che io hò creduto necessario per dare una tal quale ognizione al mio Lettore della complessione di questo Santo Pontefice, di cui mi son prefisso di scrivere il

C. 20 Giornale della Sua infermità

Correva l’anno 1689 quando sua Santità assueffattasi a non abbandonare quasimai la sua stanza ben’ picciola, ne usciva solo alle volte, e si tratteneva nella contigua detta del Sant’Offizio, o nell’altra prossima, chiamata de Paramenti per la necessità del Concistoro. Così dall’altro lato dell’appartamento passava a desinare nella stanza vicina, anche per dare un poco di ventilazione alla Camera, in cui egli dormiva. Questa grande inimicizia al moto pareva a tutta la Corte effetto d’una intensissima Ipocondria, siccome da Medici si

C. 21 stimava cagione della poca traspirazione del corpo di Sua Santità, et in conseguenza delle spesse raccolte umorali, che in esso si facevano. Ma per verità questo non era altrimenti un genio di Lentezza, ma bensì una vera gravezza, e quasi impotenza al moversi, tanto per la ragione degl’articoli, che erano restati dalle passate flussioni a luogo ingessati, quanto per lo male gravissimo de Reni, che poi dall’apertura del di Lui Cadavere si scoprì grande ed invincibile: nulladimeno tutto che Sua Santità da qualche tempo non respirasse aria nuova, e vivesse poco men che sepolto nel proprio gabinetto, godè nel maggio e parte del Giugno del suddetto ano 1689 il più sereno, e più tranquillo di sua salute: mo

C. 22 molestato solamente da un gonfiore de piedi e delle gambe, che né i Vecchi senz’alcun sospetto di altro male frequentemente suole osservarsi; nel modo appunto, che in Sua Santità per molte delle precedenti estati non solo impunemente; ma eziandio ultimamente si era fatto federe. Si legga il famosissimo Tommaso Bartolini in una delle sue Lettere, nella quale chiaramente dimostra, un tal decubito alle gambe servire ne Vecchi non già rigorosamente di pessimo segno ad indicare il vizio de Loro visceri, e la mala qualità de loro fluidi; ma come cattiva cagione, che dalla debolezza delle fibbre, e de canali inferiori non potendo essere bastantemente rispinta verso superiori, si trattiene almeno lon

C. 23 lontana dalle parti più interne, e che chiamano principali. Quando dunque era di maraviglia a tutti i Ministri, che Sua Santità godesse una certa tranquillità di sua salute, all’ora appunto sparì da noi si bella luce; poiché Sua Beatitudine fù agitata da gagliardissime passioni d’animo, come ci dimostrarono il perdimento del sonno, la taciturnità frequente, et i soliloqui con sospiri, ed esclamazioni, che a tempo a tempo andava facendo: onde andandosi incontro al Solstizio estivo, le svanì affatto la notte avanti al dì 16 di Giugno il suddetto tumore de Piedi, e le sopragiunse una copia grande di orina, che per cinque giorni avvenire incessantemente continuò, e nello stesso tempo

C. 24 comparve al lato del cauterio della coscia destra sopra il muscolo fasciale un rossore alla grandezza di una palma di mano, il quale al tatto vibrava notabilissimo calore. In questo spazio di cinque giorni non si osservò mutazione neruna ne polsi, ò in altra azzione del corpo di Sua Santità, che perciò senza perdimento dell’appetito, o del sonno, abbattuto bensì da una stanchezza di tutte le membra, si condusse sino al Lunedì 20 del suddetto mese, trattenuto in dieta, e col solo spesseggiar de clisteri. E benchè io fossi sollecito nel richiedere subito il parere di qualche altro Professore, e specialmente del Signor Tiracorda solito Medico straordinario di Nostro Signore

C. 25 nulla di meno Sua Santità non vole attendere la mia istanza, la quale fatta ancor fuori non fu ricevuta dalla Corte. Anzi rinovando il motivo per molte ragioni, e per quella in spezie del grande Ippocrate, che = Lassitudines spontanee morbos prenunciant = mi fù risposto benignamente con un complimento, che restavano tutti appagati dalla mia condotta, e che, non essendovi per anche la febbre, non era bene d’incutere alcun timore a Sua Beatitudine. Ma, gionti alle 23 ore del Lunedì del 20 di Giugno, comparve la febbre con evidente invasione di freddo, et abbassamento de polsi, la quale, benche fosse accompagnata dal rossore, che si era dilatato intorno al ginocchio destro, riuscì però

C 26 più che di genagra o di risipola, e per tale la mattina seguente fù da me palesata a Monsignor Mugiaschi Maestro di Camera: anzi la sospettai (come dicono) per febbre essenziale, e da continuare col tipo. Giachè, ingranditasi con calore, e vigile della notte, declinò verso la mattina del martedì senza nuova deposizione alla parte arrossita. E perché la Santità Sua si avvide della qualità della sua indisposizione, mi disse = La febbre né i Vecchi è il peggiore dei mali, ora sì, che bisogna solo raccomandarsi al Signore = onde mi ordinò, che io dovessi partecipare a suo nome all’Eminentissimo Cardinal’ Colloredi lo stato del suo male, alle cui orazioni Sua Beatitudine

C. 27 in altre cagionature, anche per mezzo mio aveva fatto ricorso. Ma ritornando all’istoria del male, l’esito per verità, corrispose all’idea fatta da me; poiché la febbre del medesimo giorno sottentrò minore alle 19 ore, e passeggiò il resto del giorno con leggieri sintomi: ma poi il mercoledì, che fù il terzo della febbre io l’osservai rinforzare alle 18 ore con accessione evidente di freddo, e con difficoltà di riscaldarsi, anche dopo quattr’ore. In tanto furono la sete, le vigilie, le smanie per tutta la notte: e l’orine, scarseggiando, si erano rese sottili, segno evidente, che nella massa del sangue si andavano arrestando le parti saline, e tartaree della medesima orina. La risipola anche

C. 28 si dilatava verso la coscia. In questo giorno vedutasi da me per la superficie delle mani, e delle braccia di Sua Santità un certo colore, misto di giallo oscuro, bianco e rosso con un calore or maggiore, et or minore, ne concepii un giusto timore, che tosto comunicai a Monsignor Mugiaschi interessato sopramodo nella salute del Papa, sperando, che avrebbe più d’ogni altro dato orecchio alle mie giuste richieste; poiché il suddetto timore non solo era appoggiato ad una mia particolar esperienza, fatta in diversi Ammalati, che con questo segno quasi tutti erano ò passati amiglior vita, o stati lungamente aggravati. Ma inoltre era assistito da una autorità puntualissima

C. 29 di Simone Paulli, il quale descrive per pessimo, e per letale il mentovato indizio, a cagione dic’egli, dì una tal sorte di sangue, reso poco mobile, e lentescente per la perdita del suo sal volatile, onde quasi corrotto, si arresta ne i fini dell’arterie, impotente per la propria grossezza, si a traspirare, come a circolare. Rinovai perciò l’istanza pe’l Consiglio del Signor Tiracorda, che alla fine mi fù accordato, e venuto questo Professore il Giovedì mattina, trovò la risipola nella coscia, dilatata verso la natica destra, non scaricare a proporzione la quantità dell’umore vizioso, mentre la febbre pur anche restava in piedi con la sete, e con un certo affannetto nel respirare.

C. 30 Fu per tanto conchiuso, esser la febbre del genere delle continue, delle spezie delle terzane doppie, e di costume non affatto benigno: mentre nella massa del sangue si scorgeva esservi un’abbondanza grande di Sali erosivi, che minacciavano, agglomerati nella linfa, di far qualche arresto nei polmoni, sicchè, prescritto un altro lavativo, e le frizzioni alle parti inferiori, si diedero i edulcoranti di Perle, occhi di Pranci, e corno di Cervo con diluvi, e fluidi di appropriati. Cadde all’ora in dubbio, se fosse stato a proposito un solutivo benigno, da cui, diminuitasi la mole dell’umore peccante negl’ipocondri, si fosse potuto rendere minore il peso, che adagio avrebbe

C. 31 troppo premuti i canali del sangue: ma in fine considerata la natura del Papa, inimicissima dei purganti, da quali altre volte aveva ricevuto gravissimi nocumenti; ed in oltre, temendosi, che i pungoli del solvente comunicati al sangue, et ai nervi, invece di restar precipitati per secesso, si fossero più tosto arrestati nella massa, et avessero poi perturbato il moto, e la cozzione degl’umori: sicchè in vece di un decubito podagrico si fosse fatta una metastasi al petto, o ad altro viscere di nobil’uso; si conchiuse di procedere con la vera regola d’Ipocrate, che prescrive ai medici di andare in traccia dei moti della natura: ciò che servì anche per escluder la sanguigna, massime in un Signore sommamente gracile, debole,

C. 32 di lunga mano, valetudinario, e già decrepito nella quale età, secondo il parere di David de Pomis, Autore fatto celebre dall’aver scritto delle malattie de Vecchi = ijs utendum est quibus nullus error committi potest……..

Intanto, perché si argomentava alla tardanza, e difficoltà del dilatarsi la febbre, che la materia peccasse di grossezza e di lentore, di procurò di renderla più fluida, non solo con le bevute in diversi tempi del giorno consistenti in lattate, et in brodi lunghi, fatte con le bolliture di corno di cervo; ma di più si pratticò un vitto liquido di pappe, e di soli brodi, il quale riuscì utilissimo, mentre di vidde dall’ora in poi crescere il rossore, e qualche gonfiore intorno al ginocchio, e nel poplite.

C. 33 Sottentrò la febbre del Giovedì alle 17 ore, e, continuando il freddo delle mani, e delle braccia, dopo cinque ore si commutò in calore ardentissimo con viscidità di salive, unica cagione della sete, con dolore di testa, con polso celere, e teso: sicchè passò la notte con vigilie, tutto che Sua Santità si fosse speranzata con un poco di acqua di viola e di confezzioni di giacinto ricuperare il sonno perduto. Sudò alquanto intorno alla fronte, e le orine seguirono ad essere in quantità mediocre, ne molto grosse. In questo giorno di Giovedì 23 Giugno, entrato io in Cammera di Nostro Signore secondo il solito la mattina di buon’ora, fui testimonio di una risoluzione, altrettanto giusta, quanto generosa, e piena di staccamento anche dal

C. 34 proprio comodo. Il Papa era stato servito per lo spazio di più di 30 anni dallo Speziale Bucciotti, il quale per la destrezza, e facilità d’introdurre i lavativi, quando Nostro Signore veniva tormentato dalle morici, si era acquistata qualche parte di paterna benevolenza da questo Prencipe, della cui grazia però essendosi abusato nell’alterare le liste, e le tariffe dei medicinali, gli era già stata mossa una lite in Cammera; e Sua Santità poco prima, che si ammalasse, ne aveva udite le relazioni da Monsignor Nuzzi Commissario della medesima Reverenda Camera Apostolica. Or credendo Sua Beatitudine di non poter trattenere tuta coscienzia un reo di pubblica fede al suo servizio, appunto nel maggior fervore del suo bisogno

C. 35 mi domandò se io stimavo per buono speziale Pietro Corsi, e rispondendole che questo era uno de migliori di Roma, il quale aveva servito nel Conclave antecedente, et all’ora ero sottentrato al negozio del Paolucci, a ciò replicò subito il Papa fatelo dunque chiamare, e ditegli che Noi vogliamo essere serviti da Lui, incominciando dal lavatino di domattina: onde fù subito licenziato il Bucciotti con straordinaria meraviglia di tutta la Corte.

La mattina dunque del Venerdì, dato un duluto di brodo con i testacei, si reiterò con profitto il Clistere, e furono rinovate le sfregaggioni; anzi anticipato il brodo col rosso d’uovo alle 12 ore per sospetto dell’anticipazion

C. 36 anticipazion’ della febbre, che poi fù riconosciuta incominciare alle 17 ore e mezza, con freddo maggiore degl’altri giorni, con affanno, et inquietudine, ne senza qualche mivimento involontario delle braccia. Alle 20 ore appena si era dilatata la febbre e pur anche seguivano a molestar i suddetti sintomi; onde si scorgeva evidentemente la resistenza dell’umore peccante a slacciarsi, e disciogliersi dal seno del sangue per poter’esser deposto verso le gambe, dove apparivano segni di rossore, e tenzione. Si prescrisse pertanto un mezzo scrupolo di Belzoarro occidentale, che, pigliato con una lattata di Amandole sul imbrunire del giorno, dilatò notabilmente il polso, che alle 7 ore di notte era divenuto si

C. 37 grande, si pieno, si eguale, che simile in niuna delle notti antecedenti si era riconosciuto. Così la gamba alquanto più gonfia e dolorosa dava speranza del futuro intero decubito. Ma nell’andare incontro alla mattina del sabbato le cose maturaron’ faccia; poiche illaguiditisi, e fattisi inuguali i polsi, era più tosto diminuito il rossore della gamba, e cresciuto l’affanno. Una si notabile mutazione mi fece cader d’animo, ponendomi avanti gl’occhi la poca forza de moti interni, insufficiente a respingere il molto dell’umore peccante nell’acredine, e nella grossezza, o, per meglio dire facendomi conoscere la resistenza maggiore della causa morbosa

C. 38 minor forza interiore: e perche il Signore Tiracorda in questo tempo fù sorpreso dalla febbre, per cui si gli rendeva impossibile di continuare la visita di N.S., io, non stimando bene di sostener solo questo gran carico, procurai che fossero sopra chiamati altri Professori, e quantunque Sua Beatitudine per sua indicibil bontà volesse, che io unico lo assistessi, e repugnasse ben due volte alle mie richieste: in fine io gettatomi ai Suoi Santi Piedi, e dettole, che del mio operare io non solo dovevo rendere conto al Signor Dio, et alla Santità Sua, ma inoltre a tutto il Mondo Cattolico, che viveva tanto geloso della di Lui Salute, mi consentì, che io facessi venire li Signori Girolamo Brasavoli, et Angelo Modio

C. 39 ambedue Medici della sua famiglia, con i quali, tenutasi longa conferenza del male, e delle cagionidi esso, ne resultò un comun sentimento che l’umore vizioso peccasse non meno nella quantità, che nella qualità viscida, poca mobile, et erosiva, e che perciò sarebbe stato utile il poter evacuare la copia de Sali aeri, già multiplicati; onde il fluido universale, liberato dalla causa della sua contrarra tenacità, si sarebbe restituito facilmente alla sua natural’consistenza, e dolcezza, ma non vi fu alcuno di noi, che non considerasse la difficoltà grande di trovare medicamento, atto a purgare solamente cozesti Sali, e non avvertisse in Nostro Signore il grandissimo contra indicante, che v’era

C. 40 derivato non tanto dalla natura, e consuetudine del Papa, lontana ed inimica de i purganti, ma molto più dal moto, che aveva intrapreso l’umore vizioso verso la gamba, dal quale, interrotto, e sviato, poteva nascere un subitaneo sconcerto, e precipizio della vita di Sua Santità. Fù inoltre considerato, che trattandosi d’umor grosso, e pigro, si poteva colla purga (scolando i sieri della massa) renderlo più tenace, e più viscido, et in quella guisa far lo meno mobile, e più pronto ad arrestarsi nei Polmoni, dove mostrava di voler fare una gran breccia. Parve così cosa più savia, e più lodevole nella cura di un’Signore di età, e complessione cadente, procedere con un metodo di sicuramente giovare

C. 41 che, per mostrar di non starsene in ozio, intraprendere una strada tanto pericolosa. Per un’altra cagione si astenemmo anche dall’uso dei febbri fughi, e massime dalla China China, e di dubio di fissazione intorno a i precordj, non ci bastò l’animo di arrischiare questo rimedio, che non ha niuna giurisdizione contra somiglianti fermenti, e da cui si è veduto ben spesso prodursi la tosse et i decubiti nel Polmone; sicchè ci contentammo della vera medicina, spogliata da ogni artifizio, al quale in fatti altro non è, che la nuda, et esatta osservazione dei moti della natura, ai quali, quando non si può porgere un’aiuto certo, e sicuro, meglio è col toglier’gli’impedimenti, mediante il

C. 42 vitto appropriato, e piccioli si, ma però accertatiti medicamenti, starsene spettatori di ciò, ch’essa sa, e può operare. Fattosi dunque il solito clistiere, che operò a meraviglia, si diede il vitto liquido, e si stiede osservando gl’andamenti della febbre. Quand’ecco alle 17 ore s’incominciarono a raffreddare le mani, il naso, e gli orecchi (restando intanto caldi i Piedij il che, via più crescendo, si condusse sino alle 21 ore, nel qual tempo appena si era interamente riscaldato. E perche intanto il più noioso, e sensibile accidente era quello della sete, si pratticò per lenirla lo sciacquarsi, et il bere di tanto in tanto un brodo Lungo di Pollastra, e di corno di Cervo, reso alquanto soave colla scorza

C. 43 di cedrato, e con un tantino di Zuccaro, e di sal prunello. Dopo le 22 s’incominciò ad enfiare lentamente ma sensibilmente le gambe: che perciò fu stimato espediente d’aiutare il moto di propulsione con una nuova presa di Belzoarro, a cui per altro Nostro Signore aveva grandissima fede. Dato dunque ad un’ora di notte, ne fù veduto poco dopo l’effetto, mentre si osservò nello spazio della notte crescere, come a modo di edema erisipelatoso, non solo la gamba, ma insieme il collo del Piede; sicchè la mattina della Domenica ci riuscì, cosa di stupore il vedere, che in poche ore della notte si fosse fatto un decubito si grande, e con si gran’scarico di tutto il rimanente

C. 44 del Corpo; mentre Nostro Signore restava quasi senza febbre, col polso uguale, con la sete, e l’affanno dileguati. Ritornò il giorno alle 16 ore la febbre, e dilatandosi ben presto, caricò la notte tutto il piede, che poi nel Lunedì (in cui non apparve cosa febbrile di momento) si vidde assai rosso, e si sperimentò dolorosissimo al muoversi.

Una tal nuova riempì d’allegrezza tutta La corte, speranzata di veder’tolta via da una dolorosa Podagra una febbre pericolosa, molto più, che il pollice della mano dritta ancor’esso si era gonfiato, e teso con dolore, rossore, e calore di vera Chiragra. E per verità ancor noi concepimmo qualche fiducia, sperando tutto ciò che nella massa umorale, et intorno ai

C. 45 precordj minacciava stagnamento esser’ stato trasportato con un vero decubito agl’articoli, e massime inferiori; benche la deposizione, non essendo di pura Podagra, facesse restare alquanto sospesi, ed incerti dell’intero buon esito gl’animi nostri. Che perciò il Martedì mattina nono giorno della febbre dopo aver’osservato la notte precedente Nostro Signore restar senza febbre, e solo alquanto inquieto pe’l male della gamba, mi portai per tempo alla visita del Signor Tiracorda, che non più dal proprio, che dal male del Papa restava grandemente agitato, al quale participai, che Nostro Signore era già libero dalla febbre pe’l decubito, tanto grande, fatto nella gamba, e nel piede; ma perché l’uno, e l’altro

C. 46 erano divenuti di tal mostruosa grandezza, che avevano perduta la loro figura naturale, dissi di non potermi immaginare, come senza qualche modo pericoloso un sì fatto tumore potesse diminuire, non essendo quella un’enfiagione di pura, e vera podagra: che perciò ero nel sentimento di non applicarvi alcun’rimedio locale; accioche l’umore ne, retrocedendo, riaccendesse la febbre, ne, tentato a risolversi, prendesse troppo moto, e, rompendo lam testura delle parti, cagionasse ivi qualche suppurazione. Alle notizie suddette rispose il signor Tiracorda che quella, qualunque fosse, vera, o mista Podagra, lodava, che non si trattasse con rimedij locali, i quali, introducendo e nei fluidi, e nei solidi notabile alterazione,

C. 47 potevano cagionare effetti pericolosi. Ritornato dunque a Palazzo comminicai alli altri Signori Medici il sentimento suddetto di non applicare cosa alcuna al tumore e fù lodato di comun’parere, sicche continuammo il metodo di addolcire, e di nodrire. Passò intanto Nostro Signore tutti i giorni della sua febbre con una quasi continua taciturnità, intento solo come saviamente rifletteva l’Eminentissimo Lauria, alla fissa meditazione delle cose divine; che perciò fù da me bene spesso veduto ora alzare pietosamente gli occhi al Cielo, ora fissarli attentamente al Crocifisso, che gl’era al lato, ed ora abbassandogli, dire frà se alcuni versetti dei Salmi: “Beati qui

C. 48 habitant in Domo tua Domine”, “Miserere mei Deus” e non di rado “Quid est homo quod memor es eius” ed altri che recitati sottovoce, e più con la mente, che con la lingua, non si potevano udire ben’bene.

Superata, intanto la febbre, tutto che la Santità Sua non volesse ammetter alcun’ ministro per favellar di negozj, perché infatti non era in istato di poter intraprendere il corso delle fatiche, si apriva però meco con qualche breve discorso, ripieno sempre di savie, e sante riflessioni. Cosi potessi io di ciascuno di essi ricordarmi puntualmente, mercecche sperarei di riscuotere dal mio lettore l’attenzione non meno che l’applauso. Comunque sia, io non devo, ne voglio esser qui avaro

C. 49 di quei sentimenti che almeno ora dalla sterilità della mia memoria potranno in qualche modo rinascere.

Era stato all’udienza di Nostro Signore il Padre Becanati Cappuccin, famosissimo Predicatore apostolico, ci dimenticammo, mi disse all’ora Sua Beatitudine, di suggerire al Presbitero suddetto un nostro pensiero intorno al poco frutto, che fanno alcuni Predicatori moderni: questi predicano al genio proprio, non al bisogno del’ascoltanti: e perché si consentano di piacere a pochi, non compungono neruno. Leggere, soggiunse, l’Omelie dei nSantissimi Padri, che non sono altro in fatti, che pure concioni, recitate ai loro Popoli, e vi accorgereste

C. 50 perche esse cagionassero tanto profitto negl’uditori. Altro ci vuole, che fiorite descrizioni, che concetti spiritosi, a persuadere e a movere peccatori, quasi che ne i prati della sacra scrittura, e nei giardini del Paradiso non vi fossero fiori! Onde Sua Santità continuò a raccontarmi, che, fatti chiamare a sé nel tempo del suo Pontificato alcune volte i Predicatori di Roma, aveva loro inculcato il predicare puro, sodo, ed apostolico, potendosi ornare e, e nobilitare le Prediche con i pensieri, e con le scritture sacre, e massime, con gli essempi, ed istorie morali, che sono appunto quelle cose, che restano altamente impresse nell’animo nostro, anche dopo esser cessata la voce vivrà.

C. 51 Nel giorno poi della visitazione della Beata Vergine, domandommi s’egli fosse in obligo di recitare l’offizio, mentr’era senza febbre, e rispostole per più ragioni di nò, ebbe a dirmi: o quanto diletto abbiamo noi sentito nel recitar con attenzione l’offizio divino! Questo è stato l’unico godimento, che prima di essere assunti al Pontificato, abbiamo con genio nostro sensibilmente sperimentato; poiché a confessare il vero, ne i salmi, e negl’Inni si leggono espressi li più belli, li più teneri, ed i più saggi sentimenti, anzi di note riflessioni, che si possono immaginare che dovremo poi giudicare delle lezzioni, nelle quali vi è compilata quasi tutta l’Istoria ecclesiastica, e vi sono des

C. 52 descritte, e commentate le vite dei santi, con idea di mostrarci l’essempio, per giungere a godere con essi un bene, che non ha fine” Insomma con due parole saviamente conchiuse, dicendo, chi si tedia nel recitar l’offizio divino, è segno che o manca di intelligenza o di pietà. Mentre Sua Beatitudine passava questo tempo di quiete, non mancò in Roma, all’uso delle gran’Corti, chi si doleva di quella, che chiamavano troppo rigida solitudine di Nostro Signore, non volendo egli ammettere alcun Ministro, ne discorrere d’alcun affare. Ora io non potrò bastantemente ridire, quanto mi sorprendesse un giorno Sua Santità, sentendola immaginare quello, che favellava la Corte, e farsi così una

C. 53 savijssina apologia. Roma è una Città, diceva Sua Beatitudine, a cui un’ Papa per longa nostra osservazione piace solo sei mesi; perché in questo spazio di tempo si dà moto quasi a tutte le ruote di questa machina ecclesiastica, e perciò le speranze restano a molti sodisfatte, a moltissimi tolte. Onde sappiamo benissimo (che lasciandoci Dio dopo dodici anni pur’anche sopra gl’omeri questo gran peso, benche lo supplichiamo incessantemente per comune, e proprio utile a togliercelo con la vita sollecitamente) il popolo si prenderà a censurare la nostra condotta, biasimendo, che Noi, essendo già senza febbre, non resumiamo per anche le nostre fatiche.

C. 54 Ma a dire il vero (succeda ad altri come si voglia) a Noi per la fiacchezza del nostro temperamento e della nostra testa, non basta l’animo di operare nelle nostre infermità, e nelle nostre convalescenze alcuna cosa di buono; e sopra ciò abbiamo più volte fatto speciali riflessione, e crediamo, che sia difficile il potersi operare nettamente, all’orche uno è Infermo, o ancor fresco di febbre, essendo che i nostri spiriti, resi non solo impuri, e debboli, ma perturbati, non possono secondare con la dovuta rettitudine i moti dell’anima. È perciò rammentava fra gl’altri quel bellissimo caso, occorso in persona di Monsignore Torreggiani, Nepote del Cardinal Capponi,

C. 55 il quale febbricitante in Ravenna senz’alcun sospetto di delirio, fu dal Cardinal Legato esortato a fare il suo testamento, che in vero riuscì pieno di pie e lodevoli disposizioni. Quando poi questo Prelato riavutosi dal male, sentì favellar del suo testamento, che cosa, ripigliò egli, parlate di testamento? Ma in fine, fattagli vedere distesa la sua ultima volontà, si pose a ridere, e giurò di non ricordarsi punto di quel fatto; protestando però, che alcune di quelle disposizioni erano di suo genio, altre di contrario. Quindi Sua Santità prudentemente deduceva, che l’operazioni dell’anima nostra, quando siamo infermi, o escono puramente per forzad’abiti fatti, e senza scelta, o vero sono

C. 56 come riflessioni, o per dir così, a guisa di un’eco di quelle voci, che dai circostanti ci vengono a suggerire. Supposto ciò, quanto è mai vero, discorreva in quel giorno la Santità Sua, che gl’Infermi sono incapaci d’oprar bene. Ora Noi, cochiudeva, ci sentiamo si debboli, e si lontani dal nostro naturale, che non potessimo intraprendere alcuna grande applicazione con probabilità di operar cosa a dovere. Bisogna dunque aver fatti buoni abiti nel corso della vita, per continuare gl’atti nell’Infermità, e nel morire. Sentimento, che, avendo già posto in esecuzione, fu poi cagione, che N.S. in tutto lo spazio di quest’ultima malattia non s’impiegasse in altro, che in atti

C. 57 divoti che spiravano Santità. Ma questo sentimento di non operar nell’Infermità nasceva nel Papa dall’ardente desiderio di oprar bene: e perciò era compassionevolissimo degl’Indisposti: e posso io testificare, quanta gelosia avesse egli della salute dei suoi Ministri: poi che ammalatosi un giorno Monsignor Albanisuo Segretario de Brevi, et ora Gran Pastore della Chiesa, vero successore et imitatore d’Innocenzo XI, mi spedì subito a dirle, che lasciasse pure tutti i negozj, e che se avessi un intera cura, per riassumer poi con ogni sicurezza le sue fatiche. Un simil passo mi fece fare con Monsignor Liberati all’ora suo Datario. Così pure mi commando parlare all’Eminentissimo

C. 58 Sig. Cardinal Altieri, affinchè persuadesse il Sig. Cardinal Carpegna ad aversi buona cura, et abbandonare per poco i negozj mentre era attaccato dalla vertigine. Ed affinchè niuno possa giudicare da tutto ciò, che io ho riferito di sopra, che la credenza di non potere operare nel male derivasse in Nostro Signore da un suo natural’lento, o, come alcuni malevoli dicevano, molto comodo, io non voglio, ne devo trascurare la narrativa di un fatto, che prova chiaramente, e convince il contrario, ciò è, che, quando si trattava di negozj chiari, e non ardui, i quali per altro differiti, potevano pregiudicare in qualche modo alla S. Chiesa, et al servizio d'Idio, all’ora

C. 59 non v’era indisposizione, che lo potesse trattenere dal discorso o dall’essecuzione del negozio. Il fatto fu, che nel fervore di questo male, essendo già passata la festa de SS. Pietro e Paolo; perché Sua Santità si avvedeva di non poter assistere per qualche tempo alla funzione di ricevere la cedola e, la Chinea dal Signor Ambasciatore di Spagna pe’l solito tributo del Regno di Napoli, dubitò, col differirla di vantaggio, di pregiudicare alla S. Sede, e perciò fatti opportunamente chiamare a se i Ministri, volle in una sera, in cui appunto cadeva l’augumento della sua febbre, che Monsignor Cusani Protonotario Apostolico, si rogasse, e leggesse col intervento di molti

C. 60 testimoni una protesta legale, pazientando con pregiudizio (come poi mi disse) della sua testa, non solo nell’udire una lettura così lunga, ma molto più nel soffrire il caldo eccessivo, che alla staggione estiva, et all’ardor della febbre si aggiungeva della moltitudine della gente, affollata nel suo picciolissimo gabinetto. Tant’è, egli era così savio, e così santo, che in tempo di male, non voleva operare, quando dubitava di operar male; ma era altresì prontissimo alla fatica, qual ora stava sicuro in coscienza di operar’ bene.

Ma io non vorrei perciò esser creduto scordevole del mio istituto, e che, entrando nell’altrui messe, pensi di trascurar la mia.

C. 61 Giungemmo dunque al Sabbato, due di Luglio, in cui Nostro Signore si era alquanto ristorato nelle forze, onde la medesima mattina si fece far la barba non sollievo, e pranzò senza nausea. Ma intanto da me, ch’ero per quantopotevo diligentissimo esploratore degl’andamenti del male, si considerava, che due effetti sogliono cagionarsi in noi dagl’umori, pregni di Sali pungenti, et erosivi, ciò è un’ingrossamento ineguale de fluidi, et un pungimento, e poi anche una corrosione de i solidi; onde, mentre si vedeva nel

C. 62 piede di Nostro Signore la prima faccenda dei Sali (avendo ivi prodotto un si grande, e mostruoso tumore) io dubutai eziandio del secondo che vale a dire della corrosione: tanto più, che la mole del piede eccedeva il solito intumidirsi delle podagre, et erono precedute le risipole segni di maggior acredine; mali per verità, che non sogliono incontrarsi ne semplici podagrosi. Quindi, toccando io un principio di mollezza sopra il primo internodio del Pollice del Piede offeso, La quale verso la sera appariva assai lustra, e come ridotta ad una idatide, o vogliam dire vessica di siero, esposi immantinente alla Santità Sua la necessità, che vi conoscevo di sopra chiamare un chirurgo, il quale osservasse e provedesse al bisogno; mentre mi pareva, che, aspettando il giorno seguente, si sarebbe e dilatato di vantaggio il tumore, e forsi aperto

C. 63 spontaneamente. Ma Nostro Signore, cui erano in orrore i tagli, e le piaghe, rispose non voler per quel giorno innovata cosa alcuna tantochè, venuta la Domenica terzo giorno di Luglio, ritrovai dilatato il tumore, ma però nella sola cuticola del suddetto internodio alla larghezza di tre traversali per tutto il metatarso, ciò è quella parte del piede, che si stende dal collo sino alle dita, in guisa, come se la medesima fosse stata gagliardamente scottata. Alle 12 ore ne traspariva un siero gialletto, che poi, verso le 15 si era trasmutato in bianchissimo a somiglianza del latte. Rinovai l’istanza pe’l chirurgo, e mostrai alla Santità Sua il grave pericolo di marcimento, e di

C. 64 corruzzione se si fosse tardato adar esito a quel’umore, ed insieme ad avertire lo stato della parte soggetta. A ciò rispose il Papa fate chiamare per le 20 ore Ippolito Magnani, il che esegui, communicando allo stesso lo stato delle cose.

Venuti all’eccesso, trovammo già rotto il tumore nel suo principio, ciò è sopra l’intermedio, avendo dato fuori una quantità di linfa, come gesso liquido, di cui traspariva ancora tutta ripiena la gran’ vesica del metatarso.

Era fra noi indubitato che la suddetta materia di consistenza tanto grossa, non si fosse aperta la strada dal di sotto della cute verso la cuticola per via di sola

C. 65 trascolazione, ma per qualche cunicolo; tanto che restava meramente in dubio il sito del forame, aperto nella cute che per quanto studio si adoperasse per rinvenirlo, fu tutto vano: onde sentendosi fluttuare gran copia d’umore intorno all’accennato internodio, si stimò bene di far ritornare la sera medesima il chirurgo per considerare, e determinare, se fosse stata necessaria l’apertura artificiale, la quale per tema della corruttela, e putrefazione della parte, fu eseguita ad un’ora di notte con un colpo di lancetta, e se ne vidde uscire materia mista a pezzetti di gesso, o calce liquida e di marcia al peso di un’oncia, e mezza, vietandosi intanto il maggior’

C. 66 esito con Ippocrate ne confestim fieret. Si tollerò dal Papa il taglio non solo con indicibile costanza d’animo, senza ne pure un picciol sfogo di voce, che suole spremersi dal dolore, anche per le fauci de più generosi; ma inoltre l’evacuazione con le forze del corpo. Parve bene di fuggir gl’ogliosi, e perciò s’applicò alla parte incisa una picciola tasta col digestivo fatto di solo Ierebinto lavato, e rosso di uovo. Passò la notte della Domenica assai dolorosa a cagione di un altro tumore che si andava suppurando nel metatarso; ciò che per altro facilmente accade nei piedi, La figura, ed il sito de quali non favoriscono punto

C. 67 la raccolta degli umori in una parte sola, ma l’obbligano per diversi centri di gravità, che incontrano a cumularsi in più luoghi. Scoperto dunque il piede alle 12 ore del Lunedì 4 Luglio, e curatala ferita che gettò quantità di siero, misto con alcuni pezzetti di gesso, e poca marcia, si osservò vicino al taglio (detratta la cuticola per altro staccata) il forame stato occulto sin’a quell’ora, et aperto già dall’erosivo della materia nella cute, pe’l quale aveva trovato l’esito ne i doi giorni antecedenti l’umore indicato. Non terminarono perciò qui le novità di questo giorno; poiché nel metatarso si notò una grandissima mollezza, che

C. 68 premuta eccitava dolore, e manifestava una già matura suppurazione, alla quale dovemmo dare il suo esito con nuovo taglio in quella medesima mattina, a se ne vidde con impeto uscire una materia, simile a quella dell’altro tumore, ma in maggiore quantità, e con più mischianza di marcia. In questa seconda operazione si avvertì con nostro sommo dispiacimento, che il polso avea fatta qualche perdita, restando picciolo, ed ineguale; fù pertanto procurato di risarcirlo con i brodi, mà non riuscì a bastanza; mentre, mel medicarsi di nuovo la sera, si reiterò il discapito, tutto che si tenesse in freno l’abbondanza delle marcie, che per altro, trattenuta intieramente,

C. 69 minacciavano una celere corruzzione. Ed invero fummo in grandissimo pericolo d’incontrare la gangrena;giche gli umori, concorsi in tanta mole nella gamba, e nel piede, avevano pochissimo movimento, e la loro parte più spiritosa, e che poteva servire di balzamo, se ne scorreva abbondantemente per i  forami del piede. Una più che ordinaria quiete in tutto il corpo di Sua Santità, il respiro un poco alto, et il polso bassissimo con le carni fredde a guisa di un Cadavero, anzi con color paonazzo, che variegava il tumore, mi fecero conoscere che quella non era vera quiete, mà bensì un estrema languidezza de i

C. 70 moti vitali et animali. Pertanto fù sollecitamente procurato di ristorare la mancanza dello spirito con volatili appropriati. Non posso però in questo luogo dissimulare, che i mezzi fisici per ottenere il mio fine, mi tenevano oltremodo agitato l’animo, perché essi potevano a mio credere portare qualche accrescimento alla radice primitiva del male, la quale, essendo un’acre esalato, ed erosivo con porzioni di zolfo, dubitavo grandemente, che i rimedi volatili, mentre introducevano ne fluidi del corpo di Sua Santità moto e vigore, potessero con la stessa loro forza sprigionare da visceri, ed influidire nella massa medesima del sangue

C. 71 una maggiore copia de sali erosivi, senza però potersi quelli dulcorare, et invaginare a bastanza per la povertà dello spirito oleoso, e balzamico. Ma perché quando sono imminenti due mali, meglio è provedere al più grave, che perdersi con ambidue; quindi, vedendo io, che il difetto dello spirito, e del sal volatile nel sangue di Nostro Signore monacciava a giornate la morte, e per altro con l’indicata acredine si poteva ancor vivere molto tempo, significai la mia intenzione agl’altri Signori Medici, e fummo unitamente di parere, che immantinente si desse il sal volatile di CC che dileguò quel contumacissimo freddo de membri; e poi si preparasse un

C. 72 brodo, circolato di vipera con radiche di China, e di scorza nera, ad ogetto di richiamare l’orina, che, scarseggiando nella solita sua quantità, andava a portarsi al piede per augumento del male, a cui si giudicò espediente applicar subito un’impiastro di farine impastato con liscia, fatta di cenere di ginepro, di legno santo, e di sarmenti, a la bollitura in oltre di scordio.

Dall’uno, e dall’altro rimedio si riconobbe in quattro giorni un profitto notabilissimo; poiché a poco a poco, rinvigorito, e rifermentato il sangue, anzi, eccitata abbondantemente l’orina, le potenze vitali, et animali ricuperarono la loro forza, ed i membri tumidi

C. 73 migliorati nel colore, e diminuiti nella mole per la proporzionata evacuazione di materie lodevoli dalle ferite, si resero oggetto di qualche nostra speranza quando prima erano solo motivo de nostri timori.

Qui non stimo bene di tacere, che nell’aurora del mercordi 6 Luglio, giorno dell’ottava dei Santissimi Apostoli Pietro e Paolo, Sua Santità volle prendere il Santissimo Sacramento dell’Eucarestia per sua divozione; ciò che prima non puotè eseguire a cagione della sete intensissima, che le aveva vietato il passare una mezza notte senza inghiottire qualche goccia di liquido: e benche avesse potuto dispensarsi dal rigoroso

C. 74 digiuno, era nulladimano la su Pietà di tempra così tenera, che non ammetteva per sé dispensa neruna: onde gravissimo fù il patimento di quella notte, giacchè riuscì una delle più calde dell’estate, che correva. Seguì poi tutte le feste, che s’incontrarono sino alla sua morte, a reiterare la medesima divozione con sentimenti invero pietosissimi ed essemplari. Intanto con lo spurgo continuo per le due ferite del piede, si era molto diminuita la gran’ mole della gamba, scogendosi liberamente la figura dell’osso della tibia, il quale restava prima ricoperto, e sepolto dall’edema risipelatoso. Ma perché dietro l’uno, e l’altro malleolo

C. 75 del medesimo piede si era veduto, che sino dalle prime suppurazioni raccoglievasi e maturavasi gran copia di umore, fù stimato bene all’ora di non aprir nuove ferite per non indebolire maggiormente, e non ridurre così Sua Santità ad un sollecito pericolo di vita; perciò s’era procurata la resoluzione, ò ingessamento di quella materia, con applicarvi continuamente gli impiastri di farina, fatti col vino. Ciò non ostante la raccolta dell’umore dietro il malleolo esterno, fù in tanta abbondanza, e d’indole così erosiva, che già già stava per rompere da se stessa la cute, quando eccitando inoltre dolori fierissimi verso il calcagno, e la corda magna, si giudicò espediente

C. 76 di dargli l’esito affinchè non cagionasse l’infiammazione, o convulsione della stessa corda, che per molte sperienze è stata osservata mortalissima. Si aprì dunque questo terzo ascesso il dì 11 Luglio, e ne scatorì abbondantemente ua materia marciosa con pezzetti di gesso al peso di oncie quattro, tenutosi in freno l’impeto del Chirurgo a fine di non incontrare l’indebolimento cagionato dall’altro taglio: ed a questo effetto si diede subito da ristorare la Santità Sua, nel cui polso non fù sentita mutazione neruna. Erasi sucitatato in questi giorni un grandissimo sussurro per la Città, e molto più nella nostra Corte, parladosi alla

C. 77 ventura, come suol dirsi, del male del Papa. Molti si speranzavano per i casi creduti simili, e terminati felicemente in Roma, et in spezie pochi mesi prima in persona del Signor Abbate de Benedetti ottuagenario. Quindi sgridavano, che il modo di ricevere di Sua Santità nel cibarsi era troppo pieno. Altri poi temevano a momenti in Nostro Signore la morte, perché pareva loro impossibile, che un vecchio di quell’età, e con ventisei giorni di malattia, così grave, potesse sopravivere ancor di vantaggio. E perciò tumultuavano, dicendo, che l’era necessario un vitto più pieno, da cui potessero esser’ sostenute le forze languide, e cadenti. Una delle maggiori pene, che soffrono i Medici

C. 78 nella cura de i Santissimi Grandi, è il sentirsi consigliare, anzi tall’ora censurare da diversi con argomenti spesso contrari e forse senza ne pur vedere l’Infermo, ed avere l’intera notizia del fatto. A questo proposito stimo bene di narrar qui il senso di un paragrafo di lettera, comunicatami da un Religioso di somma prudenza, a cui scrisse per zelo della salute di Nostro Signore Principe d’Italia. Il motivo era questo, che il suo Medico soggetto di molta fama, avendo udite le relazioni del modo di cibarsi di Sua Santità, stimava il vitto troppo largo, et atto a nodrire il male non meno, che l’Infermo. Or, perche non restasse impressa nell’animo di un si gran Principe una cosa, tanto

C. 79 lontana  dal vero, riputai conveniente di rispondere al detto Padre in questa guisa: che io mi trovavo in obbligo di pregare Sua Reverenda a testificare a chi fosse necessario la purà verità; ella, dicevo, avrà udito quindici giorni sono chi asseriva, che Sua Santità si nodriva troppo parcamente; ma io, che non mi dovevo prefiggere nell’operare altra mira, che quella di ben servire il mio Sovrano, lasciciavo che la Corte parlasse a suo modo, pratticando intanto quel metodo, che solo era indicato dal male; e perche dopo l’aperture dell’aposteme, fu si copioso l’esito de sughi nutrizi, e delle linfe in forma di purulenze, e di gesso liquido, che, scorgendosi mancare notabilmente

C. 80 le forze fù d’uopo accrescere il vitto con brodi più vigorosi, e con più sode minestre; anzi cessata la febbre, mentre si faceva oggi di maggior discapito di parti solide della massa de fluidi, parve bene dopo li venticinque giorni, sallire all’uso di qualche carne sottile. E benche col motivo di eccitar l’appetito in Nostro Signore si portassero in tavola diverse vivande non perciò tutte si pratticavano, mangiando egli appena due once di animella, overo altrettanto di piccantiglio di pollastro, o di petto di starnotto: sicche ora che siamo nel 28 del male col 3° ascesso aperto, e che ha purgato abbondantemente, e tuttavia digerisce, io avevo più tosto diminuito la sostanza de brodi,

C. 81 ritornando alla pura vitella e pollastra che accresciuta la quantità delle vivende. Aggiunsi, che in ciò mi persuadevo, che il famosissimo Signor Dottore N.N. avrebbe fatto giustizia alla causa, ciò è, che trattandosi di mal cronico, e con escrezioni giornali di materie marciose, fosse necessario nell’uso de cibi passeggiare una strada di mezzo, inclinante anzi al più, che al meno; come avvertì Ippocrate, acciocchè, dandosi poco, non penuriassero di volatile i sughi, e con essi le forze, e, dandosene molto, non si multiplicassero, ò augumentassero le già dette suppurazioni. Nel resto, conchiusi, che la pregavo a pubblicare pure nella Corte Romana tutto quello che avevo scritto,

C. 82 mercecchè ero certissimo, ch’egli mi avrebbe fatto una concludentissima apologia. Mentre di fuori si altercava con queste dispute, godeva il Papa una triegua, o fosse mediocrità dei suoi mali e perciò con indicibile bontà si apriva meco in discorsi tutti saviezza, e santità, tra i quali io non devo trascurare uno, che può manifestare al Mondo la fortezza incomparabilmente grande dell’animo suo Sua Santità non avea la notte preceduta potuto riposare e, domandandole io, se ne fosse stato cagione qualche dolore, o altra molestia di corpo, Sua Beatidudine mi risposedi nò, ma che quella vigilia s’era riuscita simile ad altre, nelle quali, anche in istato di salute, le

C. 83 accadeva di pensare, e di risolvere cose arduissime, alle quali nel corso del giorno col diverimento, e con le occupazioni de sensi esterni, non poteva neprestare la dovuta attenzione , ne rinvenire la giusta risoluzione; che perciò in quella notte avea egli stabilita una cosa, di cui, se ne fosse occorso il bisogno, sperava senza fallo avere a fare, con istupore de buoni Cattolici, l’intero servizio di Dio; E perché in quel tempo bollivano le turbolenze nell’Italia e si temeva di qualche invasione sopra i stati della Santa Chiesa, riferendo io al Papa di aver veduti gli esercizi militari nella Piazza di Termini, Sua Santità mi

C. 84 rispose: Le vere armi dei Papi sono le orazioni e la fede viva verso Dio, come dimostra il Bassorilievo di San Leone contro Attila, collocato nella Chiesa di San Pietro. Quindi mi domandò, se io sapevo a che consiglio si appigliasse Clemente VII, quando si prendeva la strage di Roma, e, rispondendo io, che quel Pontefice si assicurò in Castel S. Angelo; Sua Santità subito ripigliò , ora se Dio volesse per i nostri peccati castigare i nostri sudditi, voi non ci vedreste gia rifugiati in Castello, ma star qui intrepidi, aspettando di essere tagliati a pezzi, per mantenervi ogni minimo diritto della Chiesa; e,

C. 85 accompagnando alle voci una copia grande di lagrime eccitò in me una indicibile stima verso la religiosissima fortezza dell’animo suo. Spiccava in questo Santo Pontefice con la prudenza umana in grado eminente, la Pietà verso Dio in grado eroico; testimonio non picciolo di questo prodigioso inesto erano le idee, et i concetti, ch’egli formava de i casi accaduti; erano ancora le risposte, et i consigli ch’egli dava tutto giorno all’improvviso. Io mi farò lecito addurre in questo luogo qualche essempio, caduto sotto i miei sensi. L’eccellentissimo Signor Landi, residente in Roma della Repubblica di Venezia, condusse un

C. 86 suo figliolino d’anni 8 a bagiare il Piede di Sua Santità, e come questo putto era di spirito vivacissimo, interrogollo il Papa, se per anche avesse egli pensato ad elegersi la condizione della vita futura, e se più l’esercitar qualche impiego di stato, o vero esser eclesiastico, o pursoldato, gli fosse piaciuto: il Putto, senza batter pupilla, rispose subito, voglio farmi Prete, et avendo veduto un deposito di un Cardinale nella mia casa di Santa Maria Maggiore, spero ancor io di essere un di Cardinale, a cui il Papa diede una savia e santa risposta: dicendo: se volete un giorno esser promosso a questa dignità, vi bisogna fare attentamente due cose,

C. 87 studiar molto per rendervene abile, vivere da uomo da bene, per non demeritarla. Ma questo ne pur basta aver adempito; soggiunse poi a me Sua Santità nelriferirmi questo fatto; poiche la nostra buona sorte ci deriva da Dio, e noi per ottenerla non facciam’ altro che rimoverne gli impedimenti; e quindi nasce, che tal’ora senza alcuna apparente disposizione si giunge al Cardinalato tal’ora tutte le buone disposizioni nulla giovano. Noi, soggiunse, né abbiamo veduti molti casi, ma non è così poco rimarchevole uno, accaduto in Casa nostra, che non meriti ora di esser ridetto. Nel Secolo passato Monsignor Paolo Descalchi era un Prelato di gran talenti,

C. 88 talenti e di soda pietà, e pure, quantunque salisse, e risalisse più volte i gradini della Scala Prelatizia, nulladimeno perché Dio non volle consolarlo, morì a piè della scala. Egli fu gran servitore, et Amico del Cardinal de Medici, indi creato Papa Pio IV, fu governatore di Fermo, Decano della Signatura, Auditore della Cammera, e Nunzio in Portogallo, fu parimenti mandato a Genova in compagnia del Cardinal Moroni, per sedare le discordie civili tra la Nobiltà vecchia e la nuova. Passò Nunzio straordinario a Filippo II per gl’ultimi aggiustamenti degl’affari del Concilio di Trento, di cui perciò, se mal non mi

C. 89 ricordo, ne fa menzione il Cardinal Pallavicino. Fu parimente Nunzio in Napoli, e poi fu spedito in Sicilia a dar la benedizione all’armata navale di don Giovanni D’Austria, la quale sortì quel miracolosissimo esito contro i Turchi. Questo diceva Sua Santità, prudente, dotto, e buon Prelato, dopo aver ottenute tante, e si qualificate cariche, non potè giammai conseguire la Porporà, la quale in bravissimo tempo fu vestita dal Cardinal Gallio, suo contemporaneo della madesima patria, non con altro titolo, che di aver servito Pio IV, quand’era Cardinale in qualità di Segretario; e quel, che più importa, introdotto a quel servizio (per quanto abbiamo inteso dire) dal medesimo Monsignor Paolo .

C. 90 Queste cose non accadono nel vivere umano, aggiungeva, se non perché Dio vuol farci a tempo a tempo conoscere, ch’egli è il vero datore de beni: perciò Noi non abbiamo potuto credere per vero quello che, il Padre Alè, lettore nello studio di Bologna, ha stampato del suddetto Prelato, riponendolo fra gl’Uomini dotti; ma però disgraziati del suo secolo, e facendo passare per istoria una cosa appresso Noi favolosa, o almen poco lodevole, ch’egli prima di morire ordinasse, che si dovesse incidere nella pietra sepolcrale in San Girolamo della Carità il seguente distico: Inveni portum spes et fortuna valete, nil mihi nobiscum; ludite nunc alios. Poiché, disse Sua Beatitudine, Noi non

C. 91 potiamo persuaderci che un’Ecclesiastico di quella maturità avesse mai creduta potente in questo Mondo la fortuna, la quale in fatti aloro non è, che un’Ente di ragione, tutto derivandoci dalla Provvidenza divina. Questo Prelato era un Signore ricchissimo, e fu Padrone del Palazzo, che oggi godono i Signori Falconieri in strada Giulia, nella cui sala vi è ancor oggi dipinto il lago di Como, che pure dal medesimo Signore fu fatto delineare nella Loggia di un suo Casino, posto su’l Monte Giannicolo verso ponente, dirimpetto al suddetto Palazzo di strada Giulia, il quale dicesi oggi ( per la dimora, che Sua Maestà di Svezia vi faceva) il Casino della Regina Nipote

C. 92 di questo Prelato fù Pietro Giorgio, chiamato dal Signore Idio con violenza per così dire allo stato ecclesiastico; poiche appena sposatosi, gli morì la Moglie, e, venuto in Roma sotto gli occhi del suddetto Monsignor Paolo, fù fatto protonotario Apostolico, governatore di Osimo, indi Vescovo di Alessandria, e poi eletto Vescovo di Vigevano, dove, avendo avuto notizia della scandalosa prattica, che un Grande di Spagna Generalissimo della Cavalleria di Milano, teneva con una certa giovane , giache non le potè sortire di separarne il commercio, esortò, et obligò almeno questo Signore a sposarla, come seguì, ma poco dopo si ammalò il Vescovo con opinione comune (ratificata

C. 93 anche con lettera da Monsignor Caramuele, che dopo molto tempo ne fù successore) ch’egli morisse martire, ciò è fatto sacchettare, mentre orava nella sua Cappella domestica, dai Parenti del Grande di Spagna, ai quali parve di ricevere una grand’ombra dalla oscutrità dei natali di quella donna. Quasi che, esclamando, conchiuse il Papa, vi fosse nel Paradiso e nell’Inferno alcuna distinzione tra Plebe e Nobiltà; anzi volesse Dio, che ve ne fosse introdotta un poco meno nel Mondo, essendo più che certo, che i Nobili ignoranti, credendo per vera, quella della nascità, spesso se ne abusano in guisa di pregiudicare all’anime insieme, et ai corpi loro.

C. 94 Ma per non passare a secco la prudenza umana di questo Santo Pontefice, mi valerò di due soli essempi, uno accaduto in tempo ch’ero prelato, e l’altro quand’era gia Cardinale; sperando che ambedue provaranno bastantemente la di lui maturità ne casi difficili, della quale Dio volle maggiormente arricchirlo nel suo Pontificato. La vera Prudenza non è solamente quella, che dirigge rettamente le nostre operazioni presenti; ma quella principalmente si stima prudenza, che, prevede a i sinistri, che ci possono accadere. Prudenze perciò primieramente parve a me quel consiglio, che Nostro Signore essendo ancor Prelato giovane, mi diceva

C. 95 diceva aver dato a Monsignor Ariberti Cremonese, il quale, esercitando il Governo d’Orvieto, vivente la gloriosa memoria di Urbano VIII in tempo di guerra con i Toscani, fece tagliare incontro la Rocca molte Vigne, et Oliveti de Cittadini Orvietani con grandissimo Loro pregiudizio, e questo senz’alcun ordine in scritto di Palazzo. Onde poco dopo, sedata la guerra, e ritornaroto in Roma il Prelato de i suddetti cittadini, ch’erano parenti di Donna Olimpia (cognata del Signor Cardinale Pamphili) fecero gran strepito per i danni ricevuti dalla suddetta spianata. Sentì Monsignore Ariberti questa querela, e come stimava altamente Monsignor Odescalchi, prese

C. 96 da Lui consiglio sopra questa materia, e fu: che per quello spettava al pregiudizio, fatto agl’Orvietani, ne consultasse i Teologi e non volesse intaccare la propria conscienza. In quanto poi al loro esteriore, considerando egli il buon credito del Sig. CardinalPamphili, per poter succeder Papa ad Urbano VIII, le poneva in considerazione, che, se questo fosse accaduto, in tal caso, si procederebbe de facto contra di lui, e perciò il vero et unico rimedio era di ottenere segretamente, prima della morte, gia prossima, di Urbano VIII, un chirografo, che confirmasse, e sanasse tutto l’operato da lui, così sperava, che il rimedio posteriore sarebbe riuscito migliore

C. 97 eziandio dell’anteriore; poiché se MonsignoreAriberti avesse avuto anticipatamente nelle mani un’ordine per far la spianata, si poteva poi dire, ch’egli avesse ecceduto nell’esecuzione della volontà del Principe; ma in questa forma, qualunque fossa stata la sua opera, restava assicurata dal decreto confirmatorio del Papa. Si ottenne con gran stento il bramato chirografo, e poco dopo, morto Papa Urbano, succedendo nella Cattedra il Signor Cardinal Pamphili col nome di Innocenzo X, questi ordinò subito ad istanza degl’Orvietani una Congregazione contro il preteso attentato di Monsignor Ariberti, il quale, portando immantinente a Palazzo una

C. 98 copia dell’ottenuto Chirografo, si come tolse gli Orvietani le loro armi, e speranza, così diede a se stesso, et al proprio onore la sicurezza. Et oh volesse Dio, esclamò in quell’occasione il nostro savio e santo Pontefice, che questo Prelato avesse saputo condurre il rimanente della sua vita con minor spirito, e con maggior accortezza, che non sarebbe stato oggetto ne di riso ai nemici, ne di compassione agli amici propri. Un altro consiglio prudentissimo io stimo quello, che Sua Santità mi raccontò aver pigliato per se medesimo, quando egli in tempo d’Innocenzo X entrò Legato in Ferrara, in cui trovando due gravissima colpe, et una pena miserabile

C. 99 pensò subito, e le riuscì con un solo ripiego provedere a tutti e trè quei sconcerti. Era la prima tra le colpe una mortale nimicizia fra i Nobili, per cui spesso venivano alle mani; et era l’altra colpa una rabbiosa maldicenza contro i preceduti Cardinali òegati, dei quali sparlavano i Cittadini, calunniandoli come estortori; e, terminata la loro Legazione, sgridandoli dietro, quando partivano, come se la Casse degl’argenti propri che conducevano con essi loro, fossero state frutto di estorsioni, fatte a quel Popolo. La pena poi in vero miserabile ch’egli incontrò, fù una gran carestia di frumento, per la quale non solo la plebe, ma eziando la Nobiltà penuriava di pane. Ora in questo

C. 100 stato lagrimoso di cose lascio all’Istorico della sua Vita il più distinto ragguaglio della compra del grano forastiero, che questo Signore fece condurre a sue spese, e volle fosse spianato e distribuito dai Parochi alle Famiglie veramente miserabili di quella città. Io ridico solo, che questo savio, all’or Cardinale, fermo il suo unico pensiero nel voler fare una volta la Settimana in tutto il corso del primo anno della sua Legazione un pubblico, ricco, e lauto desinare, in ogn’uno dei quali procurò, che intervenissero deici tre Gentil Uomini, e Cavalieri, studiando sempre, che s’incontrassero al medesimo convito quelli, che erano fra di loro in discordia:

C. 101 così providde in un tempo, e con un mezzo solo a tutti e tre gl’accennati disordini. Poiche, avendo egli commandato ai propri Ministri che in quell’occasione si mettessero a vista tutti i suoi numerosissimi argenti, tanto portati seco da Roma, quanto fattisi nuovamente venire da Como, si fece così un’anticipata difesa, togliendo dall’animo de Ferraresi il dubio, che, se avessero veduta nel fine del Triennio quella quantità di Argenteria, gl’avrebbero facilmente mossi  alla maledicenza. E perché inoltre ad ogni pranzo vi convenivano i geni contrari, egli con bella maniera ne faceva in quest’occasione le unioni, e le paci, tanto per verità più durevoli, quanto che nel corso

C. 102 dell’anno egli procurò, che venissero confermate da replicati atti di reciproca benevolenza. In fine poi, come che gl’accennati banchetti erano diretti specialmente a sfamare la servitù dei Nobili, che vi concorreva in gran numero, non vi è bisogno di dire, che de i rilievi di quei conviti si consolavano quasi tutti i Poveri di Ferrara, Et ecco senza dubio provata, e confermata a bastanza la savia, e religiosa prudenza del nostro Legato, che seppe così bene difendere la memoria de suoi Predecessori, e provvedere alla propria, e necessaria riputazione. Mà tempo è già, che, abbandonando la parte morale, io faccia ritorno alla

C. 103 fisica. Non posso dissimulare una cosa, che in questo tempo andava occorrendo, ciò è il timore dell’insuperabilità del male di Nostro Signore esser stata molto maggiore nel cuore di noi Medici, di quello, che estrinsecavamo per la Lingua; mentre si vedeva il male non restringersi a sola Podagra, ne l’asito della materia per le ferite essere di sola calce, come nelle Podagre non di rado si ravvisa. Leggevo è vero, in diversi Autori, e particolarmente in Musa Brasavolo, che dagl’articoli di un Podagroso gli riuscì di estrarre un oncia di calce, intrise di sasso, che applicatolo al muro, osservollo restarvi tenacemente attaccato, et appeso: et io avevo

C. 104 più volte veduti ne i Signori Abbati Fiechi , e Felini, e più d’ogn’altro in un Eccellentissimo, estratto impunemente una simile quantità di calce dalle offese loro gionture; ma non mi ero per anche potuto incontrare in un caso di ascessi risilepatosi con abbondante, e contunuato esito di marcia, anzi con spesse recrudescenza in un Vecchio estenuato, come era il Papa, il quale poi fosse felicemente terminato: essendo che in fatti nel caso nostro bisognava credere , che oltre il vizio universale del sangue, vi fosse nell’ambito del corpo, o ne visceri un qualche luogo di miniera incorregibile, dove si raccogliesse, e si esaltasse un fermento erosivo, a cui

C. 105 s’univa probabilmente una riassunzione quasi continua di particelle marciose, fatte dalle piaghe, e da i sini, cotanto numerosi dei piedi, la qual riassunzione era sempre a danno di tutta la mole del sangue e pure con queste notizie nell’animo si conveniva mantenere in speranza la Corte; poiche altro è curare il Principe, e massime elettivo, altro, il suddito; per questo si può palesar la verità senza mascherara, per quello poi fa d’uopo migliorar le male nuove, affinche il Governo pubblico possa tenere a freno la plebe tumultuante, e la moltitudine de mal contenti, che dalla sollecita, et anticipata notizia della disperata salute

C. 106 dei Papi, hà pur troppo sforzato le redini, et è corsa senza riparo all’insolenza, alle vendette, et alle rapine. Così bastava a noi Medici di svelare la verità del fatto, ed il pericolo dell’esito del Signor Principe Don Livio, ed a Monsignor Mogiaschi, accioche potessero prendere le loro misure, per quello che avessero stimato espediente di fare. Cresceva inoltre il nostro sospetto in venendo, che or per le spalle, or per i lombi, et ora verso l’osso sagro comparivano nella cute quelle macchie alle volte risipole, e spesso anche di quel male, che i Medici chiamano essere; e, quel che importa, osservando

C. 107 osservando che nelle notti precedenti, all’eruzzioni, il polso s’agitava, e si toccava poi febbricitante; tutto che, despumandosi la massa di quell’umore cessasse in essa l’effervescenza, ed il bollore. Da questa pertinacia di segni argumentavano, che nel sangue, e ne visceri di Sua Santità restasse pur anche il male in sua radice, e che la miniera de Sali erosivi continuasse ad alterare, ed a scoprire nel nuovo chilo le parti, a se stessa somiglianti, e viziose. Ne per quanto studio si facesse per rinvenire nell’arte un proporzionato dolcificante potè mai riuscire a bastanza. Si procurò il medicamento nel cibo, non solo dandolo in quantità, e tempo adequato

C. 108 ma facendo nutrire i Polli con la carne di vipera, orzo e latte; si tentò il siero; inoltre si usò lungamente la raspatura dell’avorio, e dell’unicorno, bollita ne brodi. Si preparò ancora uno stillato da molte carni giovani, da sughi di maleppie, di viole, e di pantagine con erbe vulnerarie, del quale Sua Santità andava prendendo di quando in quando, misto col brodo. Si davano continuatamente i testacei, et altri alchadici vulnerarii, e balsamici; ma senza vederne un profitto, ed un’utile grande, e durevole. Onde, non potendosi praticare in Sua Santità l’uso del latte, la mutazione dell’aria, e molto meno i purganti, che ogni giorno

C. 109 si conoscevano più disconnevoli, che nel principio del male; si scorgeva chiaramente, che la salute del Papa non aveva un certo e, sicuro riparo. Il di 17 Luglio giorno di Domenica, ritrocedettero all’improvviso tutte le macchie di risipole, e se ne rese più dolente, e più tumida la gamba offesa, il che dopo un giorno passò in una fierissima recrudescenza di suppurazione, per cui le ferite si aprirono in abbondantissima marcia, che continuò a sfogare così per tre giorni nello spazio de quali furono fatte entro i seni diverse iniezzioni, e massime di decotto di erbe vulnerarie. Si volle ancora tentare colà giù

C. 110 un poco di vino, il quale, però, succhiudendo, credo io, le bocchette dei vasi, aperti nel cavo dei seni, fece arrestare totalmente lo spurgo delle marcie e crescere intento i sintomi, e travagli di tutto il corpo, che perciò fù d’uopo venire a i relassanti, per riaprire l’esito a questi umori, la sorgente de  quali non era nel solo piede, che appariva viziato, ma in tutto il corpo, e specialmente ne i visceri. Per questa nuova evacuazione scaricatasi la massa del sangue di quella parte d’impura abbondanza, che aveva raccolta in determinato spazio di tempo, ne diede segni di miglioramento; tanto che dal di 19 sino al 23 luglio

C. 111 Sua Santità godè nuova tregua, essendosile diminuita la sete, la vigilia, et il dolore del piede, senza apparire un ombra di quei rossori in neruna parte del corpo.

Nel corso di questi giorni ruppe meco Sua Santità alcune volte il silenzio, et in spezie domandandomi, che nova avessi del Signor Carlo Pavotti Cavalier Genovese, il quale da alcuni anni restava paralitico in un fondo di letto e rispondendole io, elemosinando, per così dire, la vita da un mese all’altro, mentre in ogni ricorso di luna gli ritornava un mortalke accidente epilettico. Questa mala sorte, disse Sua Beatitudine, per

C. 112 verità non vorressimo incontrar Noi per aver a vivere quasi da bruti, e non da Uomini. Constituti in istato di non poter esercitare il nostro dovere, abbandonando e trascurando la necessità, e la dignità della carica. Onde, preghiamo il Signore a toglierci più tosto quanto prima da questo Mondo, che a lasciarci più lungamente insufficienti, ed oziosi: crediamo bene, continuò a dire, di aver giusto motivo, per dar’animo al sudetto Gavotti, Cavaliere per altro privato, a cui non fù raccomandata azione pubblica, ne maneggio di anime; giache forse il Signor Dio con la gravezza dell’infermità in questo Mondo gli vuol togliere

C. 113 una parte di Purgatorio nell’altro. Bella sorte del Signor Carlo, reso oggetto del compatimento, e della somma pietà di un si grande, e si santo Pontefice! E perché in quei giorni si andava incontro all’Agosto , in cui si sogliono particolarmente da Cammerali trasmettere diversi regali a i sommi pontefici, esclamò meco, dicendo: O volesse Dio, che avessimo eseguito ciò, che nel principio del nostro Pontificato ci proponemmo, ciò è di non voler prendere alcun donativo, mentre a questo effetto si fanno in Roma spese inutili, ed eccessive, che vanno a riempire di tarli la guardarobba, e di fracidume la dispensa, e la confetteria; Ma venendoci

C. 114 detto all’ora dal Nostro Auditore che la maggiorparte di quei regali erano debbito e tributo, accordato da Cammerali con la medesima Cammera, perciò ci piegammo a riceverli. E perché questo Santo Pontefice sapeva fare buon uso di tutte le cose, perciò eziando i regali avevano l’esito per le mani della sua innata Prudenza o Carità: mentre faceva conservare le cose durevoli, e voleva servissero di sgravi alla Cammera Apostolica nelle Tavole, e Banchetti de Signori Cardinali, de Pellegrini, ed altri, che occorrevano farsi nel corso dell’anno; Il resto poi, soggetto a corrompersi, commandava, che si distribuisse

C. 115 distribuisse parte della Regina di Svezia, e Duchessa di Modena per dar Loro un segno della sua paterna cordialità e parte alle Religioni Mendicanti, et in spezie ai Padri Cappuccini, et al famosissimo Padre Recanati Predicatore Apostolico. Similmente voleva bene spesso che non vi partecipassero li poveri di Santa Galla, dei quali Sua Santità appunto nel giorno 23 Luglio, tutto che aggravata da tanto male, benignamente si ricordò, ordinando, che gli si mandassero certi vasi d’olive.

Ma perché molte notizie di questo Luogo pio, udite dalla voce viva di Nostro Signore, alcuni mesi prima dell’ultima sua Infermità potrebbero sodisfare alla curiosità

C.116 di qualcuno mostrando con quanta saviezza, e carità procedesse questo gran Principe nella condotta degl’affari, anche minuti, prenderò licenza di far qui una breve digressione col raguagliare il lettore intorno all’origine, e progresso dell’Ospizio di Santa Galla. Un giorno il Papa, ragionando di Santa Galla domandommi, se io avevo mai veduto qual luogo, e rispostole di si, protestandone qual diletto, che dovea portarmi la novità di una fabrica, e di uno istituto di quella sorte. Or sappiamo, soggiunse Sua Santità, il principio di quest’Ospizio fù in una, e poi in due rimesse sotto la Casa de Santissimi Patrizii che noi abitavamo a Santa Caterina de

C.117 Funari ed ebbe la sua origine in questa guisa. Il Signore Marc’Antonio Odescalchi nostro parente era stato da giovane, in Germania ed aveva col idioma acquistato gran genio a quella Nazione:tanto che vedendo tanti poveri Thedeschi star la notte per le strade di Roma, soggetti all’ingiurie de tempiincominciò a riceverne qualcuno nelle gia dette rimesse,. L’impegno fù per pochi, e per quela sola nazione; ma dopo crescendo lentamente il concorso, e fatto più palese incontro all’aiuto il bisogno de Poveri di Roma, oggi si è dilatato, e commutato in un Ospizio generale, trasportandolo a Santa Galla, dove tutte le sere particolarmente

C.118 d’Inverno, si riceve circa mille Persone d’ogni paese, purche siano Poveri; e continuamentevi si dà ricetto ad ogni Pellegrino, ad ogni invalido, et ad ogni convalescente, uscito dalla Santissima  Trinità.

In questo luogo di notte si dà ricovero, e commodo di letto con l’aggiunta di una minestra ad ognuno di quei Meschini (che pure è un complesso di più d’un opera della misericordia) ma inoltre con un’atto di carità che par tutto diretto ai Poveri, si riguarda la sicurezza, e la quiete, di tutta Roma, ove per nostra osservazione, dopo un tal istituto non si odono casi frequenti i latronecci

C.119 che sovente si facevano di notte da i poveri oziosi. Dispersi per la Città; Ne si conosce da molti, benche a tutti giovevole, quest’istituto. La onde, seguì a dire volendoci una volta persuadere il Padre Mariano Sozzini a permutare quest’ospizio in uno simile, nel qual però i Poveri, sempre chiusi attendessero a qualche arte di Lana, di seta ò altra (che appunto diceva egli avrebbero trovato luogo opportuno nel Palazzo di San Giovanni Laterano) gli rispondemmo, esser ciò un lodevolissimo pensiero, ma però tutto opposto all’idea, ed al bisogno, concepito di questo di Santa Galla. In Roma ( Metropoli del Mondo Cattolico, in cui

C.120 ogni giorno col motivo de Luoghi Santi entra una moltitudine di poveri Pellegrini, e per ragione dei lavori della Campagna ad ogn’ora si radunano miserabili contadini) In Roma, diceva, esser d’uopo un’ospizio, in cui ogni Povero sollecitamente, et a qualcsivoglia ora, anche di notte non con altro, che con un semplice picchio di porta, trovi il ricovero, e l’aiuto alle sue necessità. Così basta, che un meschino domandi di Santa Galla ( situata vicino alla piazza detta Montanara, ove fan’capo quasi tutti i poveri Contadini) che ivi è certo di trovar la difesa dall’ingiurie delle stagioni, et il soccorso all’inedia: con

C.121 questo però che il sovvenimento è solo alla somma necessità: onde i Poveri non possino morire di stento; ma non è già alimento all’ozio, alla pigrizia, et infingardaggine della plebe, come molti hanno falsamente creduto; Quindi, nell’inoltrarsi la Primavera, e la State l’Ospizio si sfolla, riducendosi a poco numero di sudditi Poveri, perche all’ora o trovano il modo per ripatriare, o il modo di faticare, e guadagnarsi il vitto nella campagna. Ma quando pe’l contrario si stabilisce un luogo pio chiuso in quel caso (come si vede accadere in tutti gl’altri) sarebbe di mestieri al Povero di gire col memoriale tre o

C.122 quattro giorni supplichevole ai deputati, e così morire di stento prima di trovare il ricovero nel detto luogo: oltre che il mendico resterebbe  ivi prigioniero, come si costuma in Amsterdam: cosa invero, che  si potrebbe diametralmente alla libertà, che devono avere i Poveri Cattolici, massime pellegrini. In Roma dunque, Città, le cui porte bisogna stieno sempre aperte al forastiero, è di somma necessità l’istituto di Santa Galla, dove i Meschini, senza graviaggio, senz’alcun’mezzo, o perdimento di tempo, trovano subito il ricovero, ed il soccorso. Noi però conchiuse Sua Beatitudine,

C.123 non condanniamo l’intenzione del Prete Sozzini, che messa in prattica, in Persona solamente dei birbanti, forse riuscirebbe profittevole 124 ma non stimiamo bene il confonderla con l’istittuto di S. Galla. E benchè vi sia in Roma l’Ospizio della Santissima Trinità, detta di Ponte Sisto, ove si ricevono tutti i Pellegrini, che vi fan capo, nulla di meno la carita ivi esercitata si stende a soli tre giorni; sicche, continouando quei Poveri un poco più la loro dimora in Roma restono alla scoperta, e senza un minimo soccorso di pubblico aiuto. Che cosa è mai lo spazio di tre giorni ad un Pellegrino appena gli basta per vedere attentamente le principali

C.124 Basiliche di San Pietro e di San Paolo. Che cosa sono tre giorni ad un languido convalescente. Chi non vede che con difficoltà gli servono per gettar via il bastone, che perciò, prima dell’erezzioni di Santa Galla, i Poveri convelescenti, dopo essere usciti dalla Santissima Trinità si vedevano quasi tutti giacere e tremare alle Porte delle Chiese o in mezzo delle Piazze per mancanza di sovenimento. Onde abbiamo lodato, diceva Sua Santità che in Santa Galla si ricevano pure i convalescenti, usciti dalla Santissima Trinità e che si dia loro un vitto proporzionato, e conveniente. Sappiamo bene, soggiunse, che per mantenere quest’opera

C. 125 di carità, vi vuole una grande entrata, e che, non avendo quest’Ospizio alcuna rendita ferma, sarà esposto al pericolo di non poter lungamente durare; speriamo ( sono pure parole del Papa) che Livio (intendendo del Principe suo nipote) sia per continuare la medesima carità che facciam Noi. Qui vengano a prender norma i successori di Innocenzo XI, qual sorte di eredità sia quella, che lascieno ai loro Nipoti e Zii, e Santi Pontefici. E pure non mancarono molti sul principio dell’erezzione di questo luogo, i quali si opposero ad un opera, così lodevole, discreditandola col titolo di ricetto, ed asilo d’oziosi, e malfattori.

C. 126 Anzi per parte del Governatore di Roma furono fatte inquisizioni ad oggetto di rinvenire alcuni Ladri, che si pensavano ricoverati in quel recinto. Ma non si avvedevano costoro, che simile obbiezzione era anzi favorevole a dimostrare l’utile di quell’Ospizio poiché non potendo per proprio istituto i poveri di Santa Galla uscire di notte; se mai fra di loro vi fossero ladri, gia per conseguenza chiarissima si dedurrebbe, che la Città nell’ore notturne sarebbe libera, e spurgata da i loro ladronecci. Volesse Dio, che i malfattori di Roma restassero chiusi ogni notte sotto le chiavi senza la libertà di girare. In somma

C. 127 quant’è mai vero, la pietra dl paragone delle cose grandi, e lodevoli esser per longa prova l’incontro delle censure. Costui fu, al riferire di Nostro Signore, chi si pose a litigare la vendita di una casa contigua a Galla, la quale per dilatare il ricetto de i Poveri, era sommamente necessaria, ciò che, giunto all’orecchio del prete Libelli, disse di non aver udito giamai lite la più ardita, e la men giusta di questa, disputare per non sovenire ai Poveri, per non voler esercitare la carità.

Ma è già tempo, che io ritorni sul intrapreso cammino e faccia vedere i miglioramenti in Nostro Signore esser stati poco più che effimeri, giacchè dopo alcuni  giorni

C. 128 di quiete ne i quali Sua Santità prendeva qualche sollievo di spirito, col farsi condurre in un lettino a ruote per la stanza contigua a quella, che era la sua ordinaria, si ritornava a partire insieme, ed a generosamente soffrire. Il dolore fu certamente gravissimo; Quei che non hanno per loro buona sorte sperimentato il tormento della Podagra, ne vedino la descizzione in Luciano; poiché mi do a credere, che anche per gl’occhi sentiranno l’acutezza del dolore, e dello spasimo. Or chi non dirà, molto maggiore, et intenso della sola Podagra essere stato in Sua Santità quel dolore, ch’era in Lui eccitato da un misto di ferite, e di

C. 129 Podagra, che vale a dire dalle piaghe aperte su gl’articoli podagrosi? E pure io che assistevo continuamente alla di lui infermità, non udij, che di rado uscirle di bocca = Oime! Oh Dio! Tanto che è d’uopo confessare, che in Sua Santità la sofferenza christiana restasse di molto superiore al dolore, mentre puotè frenare, e vincere l’impeto, e la forza di uno spasimo cosi grande. Continuava nel di 23 Luglio a sfogare il piede per tre forami che aperti in una parte, così tumida, si erono resi cuniculari, in guisa che quello del primo internodio andava serpendo sopra tutti i tendini elevatori dei diti: quello poi dietro il malleolo si

C. 130 avanzava su per la gamba all’altezza della terza parte di un palmo; e l’altro nel metatarso si profondava rettamente in mezzo al piede. E con tutta quest’evacuazione si facevano pur anche rivedere quelle macchie rosse nel dorso e nelle natiche non senza qualche celerità riversiva di quando in quando ne polsi; le quali macchie ci persuadevano a bastanza, la miniera morbosa esser pur anche nel suo primiero vigore. Et invero la Domenica 24 Luglio sopravenne, col sparire delle suddette macchie, un dolore al piede sano, a cui aggiuntosi il rossore, e poi il tumore, vi era chi sperava, si potesse dare

C. 131 il nome di vera podagra, per la quale, qualunque fosse, perché lentamente proseguiva accompagnata dalla febbre, e difficoltà di respiro, si stimò bene di usare la bollitura di Carbonato di Calcio dopo cui si vidde un decubito sollecitamente fissato in tutta la mole del Piede. Quindi furono diminuiti, ma non dileguati i mali interni di febbre, di respiro gravoso, e di vigile. Cederono ancore in gran parte gli accidenti dell’altro piede, mancando la quantità, e migliorando la qualità delle marcie, con le quali cose non bastarono per questo a togliere dall’animo

C.132 prudentissimo della Santità Sua il concetto, che questo nuovo male fosse invincibile, e servisse solo al primiero per aggiungergli gravezza, e pericolo quindi, quasi sorridendo, disse: ‘questa è acqua sopra il bagnato’. Nel di 27 del suddetto mese di Luglio confessò Nostro Signore di sentire in tutto il metatarso, o sia dorso del Piede sinistro, un dolore intensissimo, e seguendole una notte senza riposo, via più lo manifestava per insoffribile quantunque la serenità del suo volto, e ha superiorità del suo spirito, sempre uniformi, non permettessero altronde, che dalla di lui asserzione argomentarne l’asprezza.*

Bramò Sua Santità

C. 133 durante questo dolore sperimentare su la parte una pezza di lino, bagnata col latte tiepido da quale altre fiate in casi simili avrai riconosciuto qualche sollievo. Ma riuscendo il latte alla prima inutile, stimai bene, che da quel liquido viscosetto potessero schiudersi i pori della cute, e così, impedita la traspirazione, vi si accelerasse la suppurazione, overo si facesse una riassunzione della materia deposta nel piede. Perseverò lo stesso dolore acutissimo nel suddetto piede sinistro sino tutto il giorno 28 Luglio; ma poi nella notte a venire, mancando repentinamente

C. 134 crebbe la febbre, e seco presero vigore la difficoltà di respiro, a segno, che Sua Santità fù necessitata di quando in quando a prender’aria col farsi alzare a sedere sul letto e le sopravennero alcuni rotti acidi, e fluttuazioni nel ventre infimo con un frequente stimolo ad orinare. Le frizzioni, i clisteri et i diluti nulla giovando, si prese partito di replicare il Belzoarro, il quale

(benché potesse accrescere acutezza alla cagione) nel principio della malattia, per sciogliere l’umore infarcito ne polmoni, era stato giovevolissimo. Et invero datone 20 grani la sera de 29 Luglio aiutò così efficacemente a disciogliere, et a propellere le

C. 135 grossezze del sangue, che a poco a poco, ritornando il dolore, et il tumore del piede sinistro, mancarono gli accidenti del petto, del ventre, dell’orina, e della febbre; ma nel aver fuggito un pericolo, eccoci incontro ad un altro.

Questo nuovo piede, gonfiarsi mediocramente in spazio di 24 ore, suppurò in tre luoghi proporzionali ne loro siti a quelli del destro, cioè sopra il primo interno del dito indice, nel matatarso, e dietro il malleolo esterno, delle quali suppurazioni fù aperta dal chirurgo la prima il di ultimo di Luglio, e successivamente ne i giorni seguenti le altre con esito di materie, somigliantissime alle condizioni degli ascessi dell’altro

C. 136 piede: tanto che pareva il sangue di Nostro Signore aver dentro di se una inesausta vena di gesso, ed una sorgente incessante di marcia, l’una , e l’altra però furono in minor quantità di quella del piede destro, benche di qualità più grossa e vischiosa. In quest’ultimo sconcerto del sangue, le ferite dell’altro piede, si erano spontaneamente asciugate, con evidentissimo pregiudizio della massa umorale, sicchè, applicandovi il digestivo, tornarono ad inverdirsi le piaghe, e se ne vidde il sollievo.

Nel primo giorno di Agosto ad ore 17 Sua Santità sudò nel capo, collo, petto, e ventre, fu il sudore caldo,

C. 137 e viscoso, indi si quietò molto il polso, e la sete si diminuì. La notte seguente le apparve una picciolissima mostra di malore sulla testa. Intanto le sei piaghe, aperte nei piedi di Sua Santità, andavano tuttavia serpendo sotto la cute, ed il chirurgo, comprimendole, pareva, che avesse mani doi gran masse di pasta; così bianca, e così flaccida, era la mole edematosa de medesimi, sicche andava tuttavia crescendo il nostro timore nell’osservare l’incorrigibilità della cagione morbosa, alla quale ogni giorno più si considerava accoppiarsi un continuo ripigliamento di porzioncelle di marcia dai sini delle piaghe,

C. 138 le quali particolarmente ne i piedi, pe il gran numero delle vene, e de i vasi linfatici, sogliono più facilmente d’ogni altra parte respingere nel sangue qualche cosa d’impuro. In tanto il Signore Cardinal Negroni Legato di Bologna, ricevute le relazioni dello Stato di Nostro Signore, Le aveva fatte vedere al Signor Dottor Marcello Malpighi de più dotti, et accreditati dell’Europa, del quale ci trasmesse un breve si, ma molto proprio, e veridico parere, che non oglio tralasciare di inserire al presente giornale, e fu il seguente: “Il senso doloroso delle parti offese, il calore augumentato,

C. 139 e la flussione accresciuta all’altra gamba, mostrano una recrudescenza di umori, essendo il tutto seguito intorno al 40; e però da temersi ; poiche la natura non ostante questo scarico , e la continua ebacuazione, fatta per le parti offese consegni di cozzione, resta di nuovo travagliata da altra materia, che pare acquisti maggior moto, manifestandosi più calore, e maggiore irritazione. Ciò conferma anche la frequenza dell’orina, nella quale, trovandosi Sali acidi, sollecitano l’escrezione, e parte ancora di questi, portata allo stomaco, turba la cozzione, et irritando, cagiona il flato, et il mal’odore. Supposte queste cose,

C. 140 perché in simili casi, è perniciosa l’uscita del corpo, io m’asterrei dall’uso de i solventi, e della Cassia stessa e mi varrei de i clisteri, anche corroboranti. Circa il purgare gl’acidi saria necessario; ma l’arte non ha rimedi, e quelli, che vi sono, non sono tollerabili dall’Infermo.Solo si può tentare l’imbeverli, pratticando l’uso de i crostacei, l’occhio de granci, la gelatina di corno di cervo, la polvere di corallo non preparato con l’aceto, e la terra sigillata.”

Il sentimento del Signor Dottor Malpighi, fù ripieno di veritiere riflessioni, tanto per quello, che risguardava l’idea del male, quanto per l’altro, che

C. 141 concerneva la cura e l’esito; che perche gli si deve ogni lode, molto più ch’egli consultava per un Infermo, lontano dagli occhi suoi. Nel purgare intanto copiosamente l’uno e l’altro piede, i visveri e parti di nobil uso si riconoscevano liberi da quei sintomi, dai quali per prima erono molestati: sicchè il quarto giorno d’Agosto Sua Santità se la passò con notabile sollievo, avendo riposato la notte scorsa: e quantunque riconoscesse il suo pericoloso, non perciò mostrò un minimo abbattimento nell’animo. Testimonio ben chiaro di questa verità si è, che alle 22 ore del medesimo giorno, in occasione di mutarsi nel

C. 142 Cortile di Monte Cavallo la Guardia de Svizzeri, al sentire, che Sua Santità fece lo strepito del Tamburo, con un volto assai lieto proruppe in queste parole: “che diversa sorte incontrarono mai questi poveri Tedeschi nell’Ungaria, obbligati a vegliare a cielo aperto le notti, et a combattere tutto il di con la morte, per dare a noi i riposi, e la pace: preghiamo Dio per la durazione delle vittorie Cristiane. Roma è molto tempo, che non è stata soggetta alle stragi et alla guerra; ma che al presente è tanto scorretta, e viziosa, che meritarebbe d’incontrar questo castigo ben presto. Ne si può punto fidare delle sue forze

C. 143 o delle sue fortificazioni, le quali essendo si languide, e rotte, non le promettono resistenza neruna. Se i Papi avessero atteso ad abbellirla meno, e fortificarla di vantaggio, forse ci daremmo a credere, che da Paolo III, che alzò quel baloardo alla Porta di San Paolo, sino a questo giorno, Roma sarebbe in istato di qualche buona difesa”. Le voci di guerra e di stragi uscite dalla bocca del Papa, mi risvegliarono nell’animo alcune notizie, che io medesimo ho apprese da questo Santo Pontefice intorno a i gloriosi mezzi, de quali Dio volle, ch’egli si valesse nel promuovere, e proseguire con tanto buon esito la guerra contro il Turco.

C. 144 E perché io m’imagino che questa vasta materia sia stata gia pienamente trattata da altri più eruditi scrittori, ridirrò solamente tre cose. La prima si è, che il generoso, e santo desiderio di veder dilatata la fede, e respinta fuori dall’Europa la barbarie de Traci non nacque il Lui dopo esser salito al Trono , ma era già adulto mel suo gran cuore fin da che egli rivestì la Sacra Porpora. Onde soleva dirmi, che quando sentì la perdita di Caminiez in Polonia, e di Naiasel a fronte dell’Ungaria, e non vidde tutto il Cristianesimo in armi, e particolarmente la Gerarchia Ecclesiastica accorrere con

C. 145 validi soccorsi, risentì un dolore indicibile, E qui cade molto al proposito ciò, che il Signor Cardinale Altieri Camerlengo molt’anni sono , mi esagerò un giorno del buon genio di questo sant’Uomo, narrandomi, che mentre regnava Clamente X il Signor Cardinal Odescalchi, uditi i progressi dell’esercito Ottomano, si portò subito da Sua Eccellenza Nepote all’ora del Papa, con una cedola di dodici mila scudi, se io non erro, accioche tutta l’unisse al soccorso, destinato per i Polacchi; e quantunque il Signor Cardinal Altieri con la sua prudenza, le mettesse i considerazione, che una simile grossa somma poteva eccitare nella

C. 146 Corte Romana qualche invidia anche a pregiudizio de i meritati progressi di Lui: onde stimar bene, ch’egli dividesse in più parti questo tributo, nulladimeno con una generosa risoluzione volle lasciare nelle mani di Sua Eccellenza la cedola, conchiudendo ( o sentimento degno di un’anima tutta d’Dio) non convenire ad un Ecclesiastico altro interesse, che quello del Crocefisso. Insegnando intanto con l’opere ai Prelati di Santa Chiesa questa importantissima massima, che la loro vera politica altro non deve essere, che l’esecuzione della Dottrina di Christo, mentre questo grand’Uomo a null’altro badando, che a i vantaggi

C. 147 della Religione, ottenne in premio il Primato della Chiesa.

La seconda notizia, che ora mi son proposto di ridire, e la viva fiducia, che questo Sant’Uomo aveva in Dio, pel felice proseguimento dell’ultima Guerra nell’Ungheria: e percciò egli riteneva sempre appeso all’opposta parete del proprio letto l’immagine del Beato San Giovanni da Capistrano, che con il Crocefisso in una, e con lo stendardo nell’ altra delle sue mani scorreva vittorioso inanzi agl’eserciti Tedeschi

Nell’Ungheria: anzi mi ricordo di averveduto più volte questo Santo Papa la mattina di buon’ora con le mani giunte porgere umili

C. 148 preghiere a questo Servo di Dio, Né, per quanta pura fede avesse egli nel Dio degl’eserciti, lasciò mai di pensare (Santo insieme, e prudente) a promuovere, e mantenere ben stretta la Sacra Lega fra le tre Monarchie, Imperio, Repubblica di Polonia, e di Venezia, alle quali ben spesso soccorreva con i suoi Tesori, tanto più opportuni, e giovevoli, quanto che venivano trasmessi, e regolati dalla di Lui indicibile saviezza : poiche i soccorsi sogliono alle volte patire la disgrazia dei consigli, che anticamente si fecero in Roma per Sagunzo. Onde questo Santo Pastore diceva:” La vera cagione per cui i nostri sussidi di rado arrivano in tempo, e cadono

C. 149 in vero benefico de nostri eserciti, esser primieramente quella Lentezza, con la quale si cammina nella Corte Romana per cumulare una tal somma d’oro. Indi la scarsezza in questa Città di grossi Mercanti, che ce ne difficulta inoltre il sollecito cambio, et in fine il rischio che si corre sovente, passando il danaro alle mano dei soli ministri stranieri, i quali, anzi che sovvenire ai pubblici, spesso soccorrono privati loro bisogni. Quindi (continuando Sua Santità il discorso) Noi abbiamo procurato di provedere a tutti tre questi pericoli, poiche, tenendo sempre pronte a nostro conto grosse somme di moneta nelle piazze

C. 150 di maggior traffico de suddetti domini, le abbiamo poi sollecitamente fatte girare a nostro volere in una sola settimana. Et accioche i tesori temporali della Chiesa si erogassero in sicuro vantaggio della Sacra Guerra ci siamo valsuti della Prudenza, et Integrità de nostri Nunzj, i quali secondo l’urgenze, ed opportunità (circostanze ardimento note solo a chi si trova presente) dovessero senza indugio il piegarla”. Et in ciò rendeva giustizia e mostrava singolar gratitudine per i due Cardinali Bonvisi e Pallavicino, dalla sagacità, e fedeltà de quali confessava essere derivato un gran vantaggio per la Chiesa di Dio.

C. 151 In fine poi alcune memorie, e riflessioni, che io conservo sopra quel mirabilissimo incontro di essere stati creati in Roma da questo Santo Pontefice in quel medesimo giorno, in cui Buda nell’Ungheria restò generosamente espugnata da nostri, sono quelle cose, che mi rimangono da manifestare in terzo luogo.

Io confesso il mio ardimento: peroche stupivo altamente, ripassando sopra un fatto si prodigioso, non volli lasciare un giorno l’occasione, che mi si presentò, di avanzare con Nostro Signore il discorso sopra questa materia, e dicendole io, che tutto il Mondo Cristiano fu sorpreso da quella gran Promozione, mi rispose benignamente: “aver egli ricevuto un’anticipato avviso

C. 152 che nel giorno del Lunedì 2 settembre si sarebbe dato un assalto generale alla Piazza di Buda, e, confidando intanto con tutto il fervore del suo cuore nell’assistenza divina a prò della sua causa, essersi determinato a far la Promozione in quel medesimo giorno. Or chi sarà, dico io, che, considerando naturalmente questa confidente risoluzione del nostro grand’Innocenzo, la voglia tutta rifondere nella sola Prudenza di lui imperoche siccome questa pubblicazione non sarebbe stata interamente propria, e lodevole, se la nostra Armata fosse stata costretta di levare l’Assedio; così la sola sagacità non poteva consentire giamai ad un’Uomo di spirito

C. 153 un migliante pericolo. È dunque moralmente necessario di credere, che la viva, e sola fiducia, ch’egli ebbe nel Signore fecel fare, una chiara, e contemporanea dimostrazione di giubilo in Roma per le vittorie, e conquiste, che nel medesimo giorno si erono riportate nell’Ungheria. Tanto è vero che eziando ai di nostri la urna è vera fede impegna Dio a felicitare i nostri buoni consigli, e le nostre savie e sante deliberazioni.

Ma non è penna la mia, da trattare un’argomento si vasto, si nobile, e si difficile. Rivoli dunque a scorrere, e continuare l’intrapreso Giornale. Quella stessa sera del quarto giorno di Agosto domandommi Nostro Signore per qual ragione

C. 154 Egli trovasse più quieto e piu facile il respiro, giacendo nel lato destro, che nel sinistro; ed io Le en addussi una in succinto che qui prendo  pienamente a distendere essere molto verisimile che la parte destra del polmone in Sua Santità si fosse alquanto imbevuta ed infarcita di umori, anzi che patisse qualche attaccamento alle cose; La sinistra poi fosse sana. Quindi col star egli sopra il fianco sinistro pativa in primo luogo, perché il polmone, attaccato alle cose posto in pendenza pativa un tal qual penoso stiramento; e poi perché veniva tutto il lobo imbevuto a posare; e premere sopra il lobo sano sinistro , e perciò a difficoltare

C. 155 in esso la libertà dello spiegarsi, e del contraersi pel libero passaggio dell’aria, e del sangue. Ma, giacendo il corpo di Sua Santità su la banda destra, la parte sinistra del polmone, per altro sana soprastava all’offesa, e così rimaneva senz’alcuna compressione e pronta per questa cagione a supplire al difetto dell’altra dando libertà del passo tanto all’aria quanto al sangue senza difficoltà, e molestia neruna. Il respiro e in ogni lato degl’Infermi facile, ed uniforme, quando tutte le forze, et istrumenti, destinati alla dilatazione del torace, sono nel loro vigore, e nella loro struttura naturale, e tutte le parti del polmone sono d’uguale

C. 156 e mole, e peso, atte a cedere ugualmente alla forza dell’aria, sicche ne succeda la distenzione di tutte le sue vescichette in tempi proporzionali: ma, se accada, che in una parte del polmone si faccia stagnamento di umori, all’ora non solo a cagione dello stringimento de canali si vizia ivi il transito dell’aria, e del sangue; ma in caso che l’Infermo si getti sopra la parte sana in essa all’ora viene per lo più a prodursi un sintoma, che prima non vi era; e cioè dal peso del lobo viziato resta comoresso, e perciò meno mobile, e distendibile il lobo sano ondevia più al Paziente è sensibile, e molesta l’offesa.

C. 157 Udite, ch’ebbe Sua Santità queste ragioni, esclamò subito, rivolto al Crocefisso: Voi o Grande Dio con un soffio solo avete in un sol momento fabricato, ed animato l’Uomo, e l’Uomo con tanto studio in sei, e più mila anni, non giunge ancora a ben intender se stesso? Intanto il polso di Nostro Signore era poco frequente, come suol trovarsi in quei che hanno lunghe suppurazioni. Alle 21 di questo giorno Sua Santità fù sorpresa da una tosse secca violentissima, che la necessitò ad alzarsi immantinente a sedere sopra il letto, per togliersi da un’evidente pericolo di soffocazione. Questa tosse però, cedendo ben presto, mi fece credere, esser

C. 158 stata prodotta dal fermarsi e dal trapelare in quel punto per i vasi del polmone entro le trachee, qualche iicoretto acre entro le trachee, qualche parte riassunto dalle vene, e parte meschio, ed addolcito con altro liquido, fece mancar lo stimolo, e l’irritazione alla tosse. La sera del quinto giorno di Agosto restava ancor gonfio il piede destro dal suo collo sino al metatarso, nel qual luogo si toccava una certa fluttuazione dolorosa di marcia, che premuta dal Chirurgo un tantin più del solito, si aprì la strada per la ferita del mezzo- piede, et uscì in quantità d’oncie due un poco cinerizia con qualche

C. 159 filetto di sangue continuare intanto a gemere mediocremente le altre piaghe, delle quali quelle del Piede sinistro rendevano una certa materia grossa a guisa di latte quagliato, e cotto, che il volgo, chiama gioncata fiorita, dal che si argomentava esservi poco fluido, e molto tartaro, che lo stringeva. Mentre andavano accadendo queste cose, io fui meco più volte in grandissimo dubio, se la cagione morbosa di questo gran male fosse la forza de Sali acidi in maggior copia scoperti, e sormontanti l’attività, e la mole degl’altri overo de Sali acri, e lisciviali. Confesso, che l’una e l’altra banda può esser spalleggiata da forti argomenti

C. 160 ma per non star qui a disputare alla lunga questo problema, e trattenere senza alcun piacere il lettore, basterà che io adduca le ragioni, dalle quali sono pervaso, esser più probabile la parte del sal’acre corrosivo, che quella dell’acido.

Et invero, per procedere in ciò con chiarezza suppongasi l’acido, e l’acre esser corpi, che, per le loro parti pungenti, ed acuminate hanno attitudine a rodere, ed a tagliare. Così lo spirito di sal armonico, e l’oglio di tartavo, liquori salino- acri, art alcalici rompono la tessitura di molti corpi, non meno che i spiriti di zolfo, e di vitriolo, liquori salino- acidi. Inoltre,

C. 161 l’acre e l’acido possono, misti insieme, coagularsi, e formare un terzo corpo più sodo, e più fermo delle due loro sostanze divise. Così lo spirito di orina fluido-acre e lisciviale, si congela con lo spirito retificato di vino, che contiene un’acido. In simile maniera lo spirito di vitriolo, che ogn’un sente acidissimo, s’indura coll’oglio di Tartaro, che è  un acre, e così, passeggiando per la filosofia sperimentale, si vede, che non più dell’acido corrode ne meno questo di quello, si squaglia, e s’indura. Or data per vera, com’ella è verissima, questa dottrina, ne risulteranno senza dubio due conclusioni: la prima che la corrosione , veduta nelle

C. 162 suppurazioni de li Piedi di Sua Santità, poteva dipendere da un’acre, esaltato sopra gl’altri Sali acuti. La seconda poi, che quella copia di calce, e di gesso, sorgente da fori delle suppurazioni, non era repugnante, che fosse cagionata dalla stessa maggior parte de Sali acri , intestati, ed entrambi inceppati nella tessitura delle linfe, e de sughi nutritizi di Sua Santità.

Ma vediamo adesso per quali motivi io mi dia a credere, la cagione dei malori di Nostro Signore doversi più tosto attribuire ad un sal’acre, e lisciviale corrosivo, che ad un puro, e nudo sal acido.

C. 163 Il primo motivo si è perché al male era preceduta la scarsezza, e poi incominciò la moltidudine dell’orine, più tosto sottili, che grosse: sicchè le parti saline del fluido orinoso, molto prima che in Sua Santità s’accendesse la febbre, si erono ammassate e radunate nel seno del sangue. Or, perché i Sali orinosi sono anzi acri, e lisciviali, che acidi, ne viene per pura e necessaria conseguenza, che l’apparato morboso, e la cagione dei malori di Nostro Signore, non fosse in predominio acida, ma bensì acre , e lisciviale.

A questo motivo si accosta per una prova a priori l’esistenza delle pietre di smisurata grossezza ne i Reni di Sua Santità, le quali è molto verisimile, che assai

C. 164 prima di questo ultimo male avessero in qualche parte, comprimendo le bocchette delle glandole renali impedita almeno la trascolazione libera delle parti più grosse, come sono le saline urinose, e così contribuito alla raccolta di gran copia di Sali acri, e tartarei più tosto, che di Sali acidi.

Si aggiunge a tutto ciò la natura, et il complesso deglaccidenti del male. Le febbri acute, i dolori eccessivi, le risipole pertinaci, dipendono dalla copia, e dallo scoprimento di Sali acri, e di porzioni di Zolfo negl’umori del nostro corpo. Quando pe’l contrario dall’esuberanza dell’acido, noi vediamo eccitarsi le febbri. Lente le ostruzzioni

C. 165 che si dicono fredde, la cachessia, in una parola la poco mobilità in tutte le parti del sangue; e perciò in un Principe, vecchio di 79 anni, si sarebbe osservata più tosto la cachesia, l’idropsia, che le febbri acute, e le risipole.

In fine la calce de Podagrosi, posta in una storta alla tortura del fuoco, esala da se uno spirito non già acido, ma acre, il quale, come ravvisa ottimamente Teodoro Kerkringio, partecipa dello spirito di tartaro, edel sale armoniaco, entrambi acri. Se dunque in Nostro Signore era così copioso l’esito di quella calce, è d’uopo confessare che la cagione del suo male fosse più tosto la forza, ed acutezza dell’acre che quello dell’acido. Non è però, che

C. 166 io ne voglia escludere anche un mescolamento di Sali acidi: poiche un sale siplicissimo è molto difficile a rinvenirsi fuori di quello , che si feltra, e si raccoglie nella sua miniera naturale che vale a dire nel proprio utero della terra. Cosi il tartaro ed il sale armonico, stimati comunemente Sali alkalici, sono composti anch’essi di una porzione di sal acido.

Ma noi intanto da questa digressione medica ritorniamo al nostro Giornale.

Erono già pasati so giorni di male, quando sopravvenne a Nostro Signore un dolore molestissimo nella parte destra dell’osso sacro. Ciò si credeva non solo come effetto del lungo decubito

C. 167 sopra al fianco; ma inoltre come un sogno di una nuova colliquazione de Sali; mentre nel detto luogo si vedeva un rossore, simile agl’altri, che erono prima comparsi in diverse parti del suo corpo; e perciò la sera del sabato, sesto giorno di Agosto fu sensisilissimo l’invasione di una nuova febbre, che dilatandosi via più con vigilie, con sete, e con molta celerità di polso, mostrava di avere a proseguire in grado di acuta. Nel giorno seguente durava pur anche la febbtre ingrandita, e quella piccola rosa dell’osso sacro si dilatò in gran macchia, che occupava parte della natica sinistra; onde con giusta ragione Sua Santità bramava

C. 168 spesso di mutar sito, riuscendole però sempre di minor incomodo il lato destro. Sino a quell’ora Nostro Signore con tutto l’abbattimento del corpo nulla aveva perduto della perspicacia dello spirito e questo appunto apportava ai servitori segreti del Papa una gran meraviglia. Di testa e di cuore era pur anche lo stesso grand’Innocenzo. Ma l’ammirazione di veder ancora libero il capo si commutò ben presto in timore d’averlo a piangere aggravato, e soporoso; mentre alle 17 ore del suddetto giorno raffreddatesi in Sua Santità le mani, e notandosi nel polso un’evidente invasione febbrile si vidde in lui una certa propensione al sonno non senza qualche

C. 169 confusione di mente, indicando una cosa per l’altra, la quale durò sino alle 21 ore; e poi , dilatatosi il polso, e con esso sprigionatesi dal sangue le parti calorifiche, si dissipò la nebbia, e si rischiarò il Lume delle potenze animali. Aveva il Papa di già concepito che il suo male dovesse terminare con la morte benche da niuno ancora le fosse stato chiaramente svelato, non parendo a noi ragionevole di porlo, come suol dirsi, prima del tempo in Cappella, mentre la speranza ha fatto più volte conoscere ai Medici, che gl’uomini di molta pietà dal troppo anticipato avviso della morte si fissano con tale applicazione d’animo

C. 170 nelle cose dell’eternità, che, non dando più luogo al riposo, ed al nutrimento, finiscono di vivere prima di quel tempo, che dalla malattia vi sarebbero stati ordinariamente condotti. La sera però dell’ottavo giorno di Agosto ch’era l’ingresso del Terzo di questa nuova febbre dopo le tre della notte, osservando io da lontano il ritorno delal torpidezza di testa, non volli più tardare di far palese a Nostro Signore il suo stato, tanto che , dettolo immediatamente a monsignor Mugiaschi, picque a questo Prelato, che io medesimo le assistesi mentr’egli ne faceva a Sua Santità la funesta ambasciata. Non viddi mai il volto di Nostro Signore più lieto di

C. 171 quella notte, in cui udito l’imminente pericolo, e la necessità, che vi era, di munirsi con Santo Viatico, impaziente della dimora, ebbe a dir subito con voce chiara, ad intrepida: “chiamate e chiamate chi bisogna”. Sicchè dopo la confessione, ricevè il Santissimo Viatico con tal tranquillità, e fervore di cuore, che non fece conoscere in Lui abbattimento alcuno di spirito.

Fu però così sensibile il movimento di pietosa passione nell’animo di Nostro Signore agitato, cred’io, dall’amore verso Dio, e dal godimento di averlo ricevuto sagramentato, che poco dopo toccandole io il polso, lo trovai tutto mutato da quel di prima. Era dianzi

C. 172 la sua carne come di gelo, si commutò in tanto calore, che sembrava di fuoco, l’arteria che per avanti aveva un moto, e languido, ed ineguale, si alzò a vibrare non men con uguaglianza, che con vigore. Onde non volli abbandonare l’assistenza del corpo, mentre si stava vigilante a quella dell’anima; che perciò dati i dovuti ristorativi, procurai di lasciarlo in riposo, e o fusse vero sonno, o misto di sofferenza, e di quiete, certo è, che in quella notte chiamò più di rado, che nelle passate. Questa nuova febbre, incominciata dal Sabato 6 di Agosto, mostrava di voler procedere a guisa di quell’

C.173 altra nel principio del male, cioè a modo di terzana continua, subintrante, come chiamano i Medici, di cui è costume d’invadere più gagliarda un giorno dell’altro: che perciò Martedì 9 del suddetto , e quarto di questa febbre ritornò minore intorno il mezzo dì, senza alcuna ottenebrazione di testa , con poca refrigerazione delle mani, e col polso men picciolo, e languido. Era bensì pertinacissima quell’inquietudine, e brama di mutar sito, tal’ora nella banda destra, tal’ora mella sinistra; in questa però non poteva soffrire lunga dimora a cagione di quell’affanno di petto, il quale bene spesso necessitava Nostro Signore a farsi alzare

C. 174 e porre dei cuscini sotto le spalle: che perciò, dubitando noi, che coll’accessione del giorno a venire, movendosi maggior, o peggior fermento febbrile, si arrestasse in testa, o nei polmoni altra meteria, si pensò di dare un picciolo diaforetico di corno di cervo, che sciogliendo dalla massa quantità di parti malefiche, colori di risipola tutta la natica, e coscia sinistra con sensibile sgravio del petto, e del polso.

Mentre queste cose andavano succedendo, le piaghe dei piedi, ora più, ed ora meno dolorose, purgavano materie grosse, e di colore piombino, le quali, quando si scaricavano in abbondanza, indebolivano evidentemente le forze; quando

C. 175 poi si arrestavano dalla solita quantità s’inasprivano gl’accidenti di tutto il corpo. Onde, mentre si fuggiva il pericolo per una via, s’incontrava per l’altra segno certissimo, che, non solo tutta la massa del sangue era nel caso nostro viziata, ma inoltre da i luoghi marciosi si facevano continuamente delle riassunzioni, e delle infusioni contagiose, et ineste a tutto il corpo.

Intanto s’andava incontro alla notte del di 9 Agosto, quando la confusione nella corte era uguale al desiderio di veder sopraviva la Santità Sua ancor per qualche tempo: vi furono perciò molti, che consigliavano, e presentavano diversi rimedj: et ancorche

C. 176 alcuni di essi, per altro innocenti, si stimassero di lunga inferiori a poter riformare tutta la massa del sangue di Sua Santità nulla di meno perché negl’estremi de mali sarebbe stimata una spezie di crudeltà il non voler condescendere all’esibizione di un medicamento, che se non giunge a risanare l’Inferno, profitta almeno in qualche parte, raddolcendo il dolore di quei, che assistono e calmando l’agitazione dei Parenti dell’Indisposto. Furono perciò date alcune goccie di spirito della vita, et in altra occasione una piccola dose del vero apobalzamo. Ma tutto indarno; mentre la notte Sua Santità non riposò molto a cagione di un gran bollimento di

C. 177 ventre il quale poco dopo in tre corsi di sole feccie, che, fermatesi nello spazio di un’ora, non apportarono discapito sensibile al polso, quantunque facessero conoscere alla somma sagacità del Papa, che non le restavano molti giorni da vivere: quindi ebbe a dirmi: “Appunto ci mancava solo l’uscita”. Se la mia penna avesse oggi tanta felicità e proprietà nel descrivere, quanta buona sorte incontrarono i miei sensi nell’oservare questo Santo Pontefice in tutto il corso della sua infermità dar l’ultime, e le maggiori prove del sopraumano, et io sperarei,

C. 178 che la meraviglia, e la venerazione allora concepite da me per questa sua rarissima virtù, passarebbero senza fallo nei posteri sino al finire dei secoli. Ma, comunque sia il mio stile confido tanto nella forza, e nella chiarezza del fatto che quanto meno sarà vestito di ornamenti del dire, tanto più potrà scoprire la verità, che va nuda. Tutto il Mondo sapeva a bastanza, che Nostro Signore sin dalla coronazione aveva trattato l’unico Nepote forse con minor cortesia di quella avrebbe usato con un Signore straniero a lui niegando i titoli, le cariche, le precedenze, e gl’emolumenti, soliti

C. 179 darsi in altri tempi a i Nepoti del Papa. E questi, quanto in apparenza severi, altrettanto però giusti sentimenti derivano dalla ferma credenza, che Nostro Signore aveva in quella gran massima gettata dal Principe degl’Apostoli, e primo Vicario di Christo per sodissima base de futuri Pontefici: “Eccenos reliquimus omnia, et segutisumus Te.” Ond’egli andava repetendo di quando in quando ne suoi familiari discorsi queste due proprosizioni: “Il Papa non ha Parenti; Il papa niente ha del suo” Alcuni però, prendendo le misure dalla propria debolezza stimavano, che l’umanità avesse alla fine da vincere ogni

C. 180 resistenza dell’animo di questo grand’Uomo; particolarmente qual’ora fosse stata infievolita dalla gravezza, e lunghezza di un male, sino a rendersi al bisogno di più diligenze, e disinteressata servitù del Nepote, il quale poteva pur anche ammollirli il cuore, quantunque rassodato dalla ragione, con la sua buon indole, e con le maniere affettuose transfuse in lui col retaggio de suoi, che credonsi poter eziando compiacere a i defonti, come immaginò quel Poeta: “Mollius ossa cubant manibus tumulata suorum” Ma quanto è mai incerto il pensiero! Quanto è fallace il giudizio degl’Uomini! O questo Sommo Pontefice,

C. 181 quand’era più fiacco per respingere, e più bisognoso per ammettere l’assistenza del suo Nepote, all’ora fu veduto più forte, e meno inclinato a riceverlo. È quantunque questo Giovane Principe, assiduo, amoroso st addolorato, vegliasse ogni sera nell’Anticammera per la sospirata consolazione di bagiare il Piede a questo Santo Pontefice, io in ciò, come testimonio di visita, e di udito, posso, e devo ridire a tutto il mondo , che il Papa che ogni volta che Monsignor Maestro di Cammera gli si faceva, per lo più alla mia presenza, l’ossequiosa ambasciata, egli rispondeva subito: “Dite a Livio, che vada a Casa sua

C. 182 e questo accadde ogni  sopra per lo spazio di cinquanta , e più giorni.

Da questo rarissimo fatto chi nion dedurrà per infallibile, che, se un Vecchio ottogenario, Infermo di cinquanta, e più giorni, con tanti affanni, dolori e vigile, seppe, volle, e potè resistere alla violenza della natura, e del sangue, egli (d’indole per altro, naturalmente gentile) operava in questa guisa per un abito, già contratto di consumata perfezzione, e vittoria sopra le proprie passioni nella via dello spirito? Onde, se io portassi il carattere di Oratore potrei con giusta ragione chiamarlo degno Pastore universal della Chiesa,

C. 183 che seppe imitare, e superare ancora il grand’Agostino: poiché non solamente negl’ultimi dieci giorni, come pratticò questo Santo, ma in tutto il corso di quasi due mesi della sua infermità non volle altri, fuori dei Medici , e degl’Assistenti nella sua stanza. Così, separato affatto dal secolo, se ne stava tutto occupato con Dio. Dirrei che questo Santo Pontefice, siccome offeriva coraggiosamente al Signore la sofferenza de i continui spasimi, eccitati in Lui dalle feritre, e dalle piaghe, proporzionali in parte a quelle del Crocefisso; così Lo seguiva nell’ultima sua infermità (come fece il Salvatore ne

C. 184 giorni della Passione) coll’evangelico distaccamento da suoi. Lo pubblicarei vero erede del Gran Sacerdozio di Gesù Christo, il quale secondo l’Oracolo de Profeti non fù figurato in Aron, il di cui Sacerozio era solamente ereditario; ma in Melchidesecchi, del quale fù scritto : “Assimilatus Filio Dei Patre, sine Matre, sine Genealogia.” Ma dovendo io esercitar qui puramente le parti dell’Istorica, confessarò con tutta ingenuità, che mentre io ammiravo l’incomparabile, et inflessibile costanza del Papa, nel non volere ammettere il suo Nepote, m’intenerivo altresì, eccitandomi esso nell’

C. 185 animo un vivo desiderio di vederlo consolato almeno una sol volta. Per lo che pensai maturamente, et alla fine deliberai senza trepidazione un innocente stratagemma, che non offendendo punto l’apostolica Pietà di questo Santo Pontefice, provedesse in qualche modo alla fervorosa ancor Pietà dell’Innocente Nepote. Eramo dunque nel Mercordì mattina 10 di Agosto, quando conoscendo io , che il Papa riceveva gran sollievo dal volgersi spesso da un lato all’altro, e che per far ciò si voleveno due Persone, le quali sostenessero nella rivolta i Piedi, impiagati di Sua Santità, oprai inguisa, che, volendo il Papa mutar di

C. 186 sito, non vi fosse, che un solo Aiutante di Cammera, e intanto il Sig. D. Livio stesse pronto alla Porta del Gabinetto per occorrere ad ogni chiamata. Così trovandomi io solo all’assistenza di Sua Santità, subito che mi parve opportuno, presi l’occasione di dirle Padre Santo vuo,’ella mutar di skito? E rispondendomi di si, all’ora, postomi di rimpetto alla Porta, chiamai e domandai al Sig. Federico Aiutante di Cammera, se v’era il Sig. Quadri suo compagno di guardia, e dettomi di nò, io senza indugio, mostrando con la gelosia , del sollecito servizio del Papa. La casualità del’incontro del suo Nepote, dissi intrepidamente: “

C. 187 venga ella Signore D. Livio ad aiutar Nostro Signore. Entrò dunque nella Cammera, e si accostò al Letto, come ogn’uno si può immaginare, timido, e lieto il Giovane Principe, e subitaneamente fu rimirato dal glorioso Zio taciturno, e pensieroso, con l’occhio fisso e severo. Ma, come io procurai d’impegnare il Signore D. Livio immediatamente all’opera, così egli, terminato il servizio, si getto immanentemente genuflesso ai Piedi di Lui, e fu udito al suddetto Signor Federico, che rimase nella Cammera, supplicare umilmente la clemenza di Sua Santità a volergli dare, prima di morire, la sua Santa Benedizzione, e con essa qualche savio consiglio per la

C. 188 condotta della sua vita futura, a cui concedendo benignamente la Benedizzione, rispose Sua Santità: “Quanto all’elezzione dello stato vostro futuro fate quello, che Dio vi ispira, e quanto all’altre cose, non v’ingerite negl’affari della Santa Sede, perché Dio vi castigarà”, e senz’altro discorso gli diede licenza. Queste poche parole del Papa portarono sentimenti tanto acuti e tanto gravi nel cuore del Signore D. Livio, che fù veduto uscire dal Gabinetto, piangendo dirottamente, e continuare le lacrime per molto tempo in un angolo dell’Anticammera. Or qui , dando luogo a i Panegiristi, mi riconduco volentieri a continuare l’istoria.

C. 189 Nel giorno dunque 10 Agosto si procurò di anticipare il nudrimento, ad inspirare vivacità ai moti illanguiditi con i Palsamici interni, e con l’applicazione delle Epittime, e delle onzioni cordiali a finche la quinta febbre non avesse a condurci alla morte mostrò essa di sottentrare alle 16 ore, e parere, che con una poca sensibile refrigerazione delle mani, e qualche impicciolimento di polso, senza alcuna novità di testa volesse scorrere il suo principio, ed augumentarsi con minor forza della sua corrispondente: tanto che il Signor Tiracorda, riavutosi dal suo male, e ritornato nuovamente per una volta alle 22 ore alla visita

C. 190 di Sua Santità, la trovò in tal quiete e col sembiante così informe al suo naturale, che per sollevarla : “Padre Santo si potrebbe ancor guarire; Ma Nostro Signore, non accettando in alcun modo questa speranza, rispose subito: “O questo no”. Et invero, siccome il corso dell’Infermità del Papa si erono sparsi per Roma molti falsi all’arme, pubblicandosi più d’una volta per morto; così in questo giorno si dilatò una voce, tutta contraria, benchè ugualmente bugiarda, dandosi da molti per guarito. Ma questi non erono, che miglioramenti, soliti ad essere, e dirsi della morte ancor dal volgo, s che altronde non derivano, se non

C. 191 da una tal quiete, che incominciano ad acquistare anche le parti malefiche del sangue, e da una tal qual stanchezza de villi, e de nervi, che perdono il loro tono nel girsi incontro al comun’perdimento de moti, che noi chiamiamo La morte: onde scrisse pur quanto bene intorno ai moribondi il nostro Ippocrate: “Et cum se recollegerint, moriuntur”.

Dopo aver Sua Beatitudine udito il primo tocco, e recitata l’Ave Maria, all’improviso mi domandò, se io mi ricordavo della morte di San Benedetto, al che, rispondendo di nò, ripigliò egli : “Quel Santo Padre, essendo presso al morire, chiamò i suoi

C. 192 Discepoli da quali volle esser condotto in Chiesa, ove, munito col Santissimo Sacramento dell’Eucarestia, si fece raccomandar l’anima, che rese poco dopo al Signore, orando ancor’egli unitamente con gl’altri. Così appunto, soggiunse, dovressimo accomodarci a fare ancor Noi fortunati nell’aver sortito il nome di Benedetto, rimanendoci poco di vita, e non pensare ad altro, che a ben morire”.

Sentimento per cui tralusse un’non so che di Pofetico, mentre alle 3 della notte con sensibilissimo deterioramento, crescendo la difficoltà di respiro, mancò il vigore ne polsi, ed il calore per la superficie del corpo; il

C. 193 che parve un ritorno di febbre, ma più sensibile di quello della mattina precedente; benchè entrambi fossero nuovi moti fermentativi con pericolo di stagnamento del sangue nei polmoni.

Vedendosi dunque sempre più chiaramente che da medicamenti naturali non si poteva ritrarre un’aiuto sufficiente e durevole, si determinò di avavzarsi con i rimedj spirituali, e se le diede da Monsignor Sagrista dopo le cinque ore l’estrema unzione, la quale fù ricevuta da Sua Santità coll’anima, tutta ripiena di gioia e ne manifestò i segni, togliendosi con le sue mani, tuto che debolissime, il berettino dal capo, e dicendo fra

C. 194 se (quantunque prima avesse una difficoltà di parlare) alcune orazioni vocali con tale ilarità di spirito, che, non potendo procedere dalla fiacchezza della nostra umanità, impastata di timore, bisogna credere, che derivasse dalla grazia soprannaturale, ispirituale per mezzo di questo efficissimo sacramento.

Terminata la fonzione, il medesimo Monsignore Sagrista domandò al Santo Padre la Benedizzione per tutta la sua famiglia, della quale essendo ivi presenti li Monsignori Maggior Domo, Mugiasca, Bernardi, Rusca, Porta e Pucci, il Padre Maestro del Sacro Palazzo(oggi  dignissimo Cardinal Ferrarij et

C. 195 il Padre Confessore, li quattro Aiutanti di Cammera, ed io medesimo; niuno potè contenere le lacrime, spremute dagl’occhi per tenerezza insieme, e per dolore, nel veder Sua Beatitudine con non poca fatica alzare la mano, e sodisfare alle nostre divote, et ossequiose brame. Volle egli dopo consultare li affari dell’anima sua col suddetto Padre Maestro del Sacro Palazzo.

Uscito detto Padre dalla stanza del Papa, entrai io per sentire tacitamente lo stato del polso. Al primo tatto Sua Santità, fissatomi cortesemente gl’occhi su’l volto, mi domandò con un’indicibile indifferenza, che potrei forse

C. 196 chiamare allegrezza, mentre non veniva accompagnata da quella maestosa serietà, con cui egli per altro nobilitava, ed ingrandiva l’aria del proprio sembiante, mi domandò, dico, quanto le restasse ancora da vivere, cui rispondendo io, che per ragione di polso vi era ancor da patire per qualche giorno, ma che questa misura poteva abbreviarsi dal nuovo ingresso della febbre; chinò subito la Santità Sua il capo, accompagnandolo con un sospiro, e con quelle parole, dette dal Savatore: “Verumtamen fiat voluntas tua”. Da ciò si potrà argumentare, quanta amorosa impazienza avesse egli

C. 197 per gire a godere in Cielo il suo eterno riposo.

Cresceva tuttavia la difficoltà di respirare, e perciò giaceva continuamente a sedere nel letto; ma non si vidde più ritornare quell’ottenebrazione di mente, che due giorni indietro aveva fato mostra di voler avanzarsi. Onde stupimmo sempre più nell’osservare l’indicibile tolleranza del Papa, e posso io asserire con verità di non averlo mai veduto nel lunghissimo corso della sua Infermità col volto turbato, ne coll’animo in atto di una minima impazienza; ma bensì sempre costante, uniforme, e superiore colla pietà, e fortezza del suo

C. 198 spirito alla fortezza, e grandissima atrocità del suo male. Alle sette ore di questa notte gli si mosse di nuovo il Corpo con esito di materie umorali.

Giungemmo alla mattina del Giovedì 11 Agosto coll’animo, ti tenue si, ma vigoroso nodrimento, ciò è di un sugo colliquato in bagno maria da diverse carni di volatili, col quale Sua Santità si mantenne in vigore per tutto quel giorno; alle 13 ore però si conobbe sensibilissima la sesta accessione , che fece forza di costruire Sua Beatitudine in agonia: onde prevedendo Egli da se stesso il proprio discapito, ordinò che si facesse chiamare il Signor

C. 199 Cardinal Colloredo, Sommo Penitenziero, dal quale bramava essere assistito nel suo transito. Sua Eminenza fù prontissimo , perche appunto vigilava a quest’effetto con la sua manierosa pietà, et indicibile gratitidine nella vicina Anticamera.

Non ci vuole altra penna, che la dotta, e veridica del medesimo Signor Cardinale per rapresentare al mondo tutto le virtù segnalate di quell’anima santa, e generosa, delle quali, Sua Eminenza fù fatto degnamente partecipe con longo colloquio, tenuto con Sua Beatitudine, potiamo giustamente sperare ancor noi di averne un dì a leggere con istupore la descrizzione.

Vedremo

C. 200 all’ora qual fosse la sua umiltà, mentre questo Santo Padre interrogato, come pubblicamente dicevano, da Sua Eminenza volesse risolvere cosa alcuna intorno alla Monarchia, ed in spezie circa il denaro, avanzato in gran somma, rispose : “Quella non essere materia da conchiudersi in pochi momenti, e non aver’egli tal concetto di se medesimo per credersi capace di potere accomodare tutte le cose prima della sua morte”. Udiremo senza fallo a quanto mai si stendesse la sua carità, giache raccomandò al medesimo Signor Cardinale, che significasse al  sacro Collegio esser stata sua intenzione di toglier

C. 201 le gabelle per sollievo de sudditi: così questo Santo Pèontefice con un misto di virtù quanto più fu economo nel cumulare il denaro, divenne in fine altrettanto più disprezzatore della gloria, che le sarebbe ridondata, se l’avesse da se stesso impiegato.

Potremo in quel tempo giudicare qual fede e qual speranza avesse in Dio questo Santo Pastore, mentre andava così spesso in quell’angustia di male replicando fra sé l’ultimo versetto del 4° salmo: “Quoniam tu Domine singulariter in spe constituisti me”; che io intanto, soprafatto dalla maraviglia di aver veduto a tempi nostri una Bontà così soda, ed una Santità

C. 202 così iminente, mi stimarò fortunato a bastanza, se, abbandonando ad altro veramente degno scrittore la parte morale, sodisfarò col racconto degl’avvenimento fisici alle mie sole promesse. La difficoltà di respirare, sempre maggiore, necessitava così spesso Sua Santità farsi rimuovere dal sito orizzontale all’acclive, che pareva volesse terminare fra poche ore con soffocazioen. L’angustia del petto prendeva notabile augumento dal cibo e massime caldo: sicchè ricusando il Papa alla fine ogni cosa, che le si presentava in forma di cibo, feci star pronta un’acqua di prima bollitura di vitella, concia pe’l gusto

C. 203 col giulebbe perlato, et odore di scorze di cedrato: con il qual liquido passò tutto il giorno del Giovedì, a parte della notte, assistito continuamente dall’Eminentissimo Colloredo, che le diede l’assoluzione, come Sommo Penitenziere. In oltre vi furono presenti i Padri Generali de Predicatori, della Compagnia di Gesù, de Carmelitani Scalzi, ed altri Religiosi, che con preci continuate andavan accompagnando la virtuosissima sofferenza degl’asprissimo dolori, e la santissima rassegnazione di Sua Beatitidine ai voleri divini.

Non aveva per anche il Papa, in questo giorno perduta affatto la voce, e le sue

C. 204 parole in quel dì non furono che espressioni di vera fede, e di somma pietà; ne posso io qui trascurare di addurre un grand’argomento della sua indicibile umiltà, e religiosa gratitudine verso chi lo serviva, mentre standole noi d’intorno, e più da presso in quel pun to Monsignor Mugiaschi in atto di alzarla col busto sul letto, notando la Sua Santità l’incomodo di chi lo assisteva, disse pietosamente: “Perdonatemi, compatitemi”, ciò che trasse sul volto di tutti la tenerezza in tante lacrime.

Continuavano in questo mentre i Signori Cardinali Creature di Sua Santità a frequentare l’Anticamera, e l’Eminentissimi Carpegna,

C. 205 Marescotti e Spada, come singolarmente beneficati, bennero ancor’essi a protestare il sommo dispiacimento d’una così gran perdita, molti de quali Signori Cardinali in quall’istesso giorno entrarono nel gabinetto del Papa e videro cogl’occhi proprij quello, che pubblicamente si dicorreva della su grandissima costanza, sofferenza, rassegnazione alla volontà del Signore.

Intorno alle 23 si moderarono gl’accidenti del respiro, e  diminuendosi il fervore febbrile, incominciò a giacere con minore incomodo sul piano del letto: onde fu stimato che non si sarebbe posto in agonia

C. 206 prima della settima accessione, la quale si sospettava, che potesse anticipare, come appunto successe; giacche, durante il corso d’ott’ore della notte, Sua Santità parlò di quando in quando, e si raccomandò al Signore con tenerissimi, e pietosissimi sentimenti: ma poiche fummo giunti alle 9 ore del Venerdì col ritorno della febbre, si preparò senza prendere altro cibo per un viaggio, che tante volte prima aveva bramato di fare: onde l’obbligo dalla difficoltà di respiro, si fece sollevare di petto a mezz’aria, inchinando la testa un poco a destra, e, stando con gl’occhi fissi al Cielo, perdè circa le 11 ore la parola, e adagio adagio

C. 207 con una spezie di sonno, che suol dare Dio a suoi diletti per morte, si compose all’agonia, sicche, abbattuto da una picciola sincope alle 17 ore, e poi replicatamente da molte, restituì alle 21 ore e ¾ del Venerdì 12 Agosto la sua grand’anima al Redentore.

Assisterono a questo transito l’Eminentissimo Sigor Cardinale Colloredo, li Reverendissimi Pardi Maestro del Sacro Palazzo, Generali sudditi, Padri Penitenzieri di San Pietro, e la maggior parte della famiglia segreta, i quali tutti, siccome all’ora giungevano la gran perdita, che faceva il Mondo Cristiano, così potranno in avvenire testificare ad’ogn’uno, che morì Innocenzo XI, vero Erede della dignità

C. 208 del Zelo, e della carità di San Pietro, essempio redivivo dei primi, e più santi secoli, stupore dei nostri, e documento dei futuri.

La mattina del sabato fù riconosciuto ed aperto il Cadavero di Sua Santità, l’osservazione del quale, distese frettolosamente in un foglio, feci immediatamente passare alle mani del Signore Principe Don Livio, acciò Sua Eccellenza prendesse qualche motivo di consolazione nel vedere, che il Gran Pontefice suo Zio non senza prodigio era giunto a quell’età con due pietre si grandi ne Reni, le quali saranno nelle memorie de Medici un rarissimo essempio.

C. 209 Relazione dell’apertura del cadavero di Nostro Signore Papa Innocenzo XI.

Riconosciuto il Cadavero della Santità Sua, et aperto dal Signor Ipolito Magnani coll’intervento de Signori Medici della cura, e molt’altri Professori, fù osservato assai dimagrito senz’alcun lividore, ma con una maravigliosa flessibilità di tutti gl’articoli.

Nel taglio de’ comuni integumenti appena si notò un vestigio di adipe; anzì i muscoli del ventre inferiore comparvero a guisa di gracilissime membrane, con tenuissime fila di fibre carnose. Aperto l’Addome, si vidde in esso la rete

C. 210 molto contratta verso lo stomaco, e perciò alquanto ingrossata. Il Ventricolo più tosto grande, che picciolo, dentro il quale non fù trovata cosa alcuna, ma solo la di Lui interna superficie verso la parte posteriore, apparve lieggermente infiammata.

Gl’intestini mostrarono un buon colore, e figura naturalissima, allacciati al loro Mesenterio, che era sparso di vene tumidette.

Il fegato giaceva nel proprio sito un poco ingrandito, ma di colore, e sostanza naturalissimo, solo nella di Lui vesica si riscontrò una bile viscosa, che si era col lungo andare addensata in venti calcoletti, due de quali erono

C. 211 di figure irregolare, ma grandi a guisa di nocchie, gl’altri poi piccioli, et appena come lenticchie di colore oscuro.

La milza, ed il Pancreate lodevolissimi, e somiglianti con istupore a qualsivoglia di sanissimo giovane.

Ne Reni bensì fù aperto un Teatro di maraviglie; poiche tagliate le membrane di nome solo adipose (mentr’erono affatto prive di grasso) in ambi si viddero diversi tumori, de quali altri erono molli, altri duri, quelli si riconobbero per Datidi, o Vesciche, piene di siero simile all’orina; Questi poi, tagliati, scoprirono la cagione degl’antichi vizi de Reni, ciò è

C. 212 due pietre di tal grandezza, e si rara figura, che, come portentose, sarà più agevole descriversi dal Pittore, che dipingersi dall’Istorico; quella del destro era di peso d’oncie sei, e l’altra del sinistro d’oncie nove; ambedue però occupavano internamente tutta la sostanza de Reni, di cui non c’era altra parte, che la sola corticale glandolosa, vaginante le pietre suddette, che nella loro estremità finivano in molte pietruccie di figure differenti, a proporzione, cred’io, de siti, e dell’angustie, nelle quli si erono possute formare, essendosi alle ammassate probabilmete delle cavità de tuboli

C. 213 laterali et inferiori senza che poi vi fosse più la sostanza de tuboli corrosa adagio adago dall’asprezza, e grossezza de calcoli.

Da questa rara, et oltremodo bella osservazione si può dedurre che la parte necessaria alla separazione dell’orina è solamente la pura corteccia glandulare de Reni, la quale nel nostro caso restò intatta, et illesa dall’universale devastamento delle altre parti di quell’organo. Fu bella, e piena di stupore l’osservazione d’alcune aperture, o vogliam dire canaletti, scavati giù giù per le menzionate pietre, i quali erono strada all’orina, segregata dalle glandole,

C. 214 per scolare gli ureteri, e col resto delle parti urinarie, vescica e suo collo, furono vedute sanissime con poco liquore orinoso, e senza Pietra. Dal ventre intimo fatto passaggio a quel di mezzo, comparvero il diaframma, e mediastino senz’alcuna offesa. Il pericardio col suo solito siero, ed il cuore di mole grandetto flaccido però nella sostanza, e con un polipo, che dal destro ventricolo s’insinuava nell’arteria polmonica.

La superficie anteriore de i polmoni era in ambi i lati uniforme e cinerizia, e macchiata di color violaceo; la posteriore era rosseggiante. Il lato destro restava più colorito, et aderente

C. 215 alle coste, e con l’estremità di un lobo di diaframma, quindi nasceva la difficoltà di giacere nel lato sinistro, e la minor molestia nel destro, sperimentata della Santità Sua i quest’ultimo male, e della quale si è bastantemente favellato nel Giornale. La sostanza poi del medesimo polmone, tagliata ne i siti infiammati, diede fuori un siero spumoso e candicante.

In ultimo, segato il cranio, per altro duro e bianchissimo, appena fu ferita la dura madre, che se ne vidde grondare un siero gialletto che aveva incrostato di lentore la pia madre specialmente nella parte posteriore.

C. 216 Nel resto tanto il cerebro che il cerebrello furono riconosciuti in ambe le loro sostanze sanissimi, solo nel plesso de vasi, detto rete mirabile, stava incastrato un’ossetto a somiglianza d’una unghia umana, da un de lati gibboso, e dall’altro cavo.

Questo, è tutto ciò, che fu veduto, e cosiderato di maggior importanza nel Cadavero di questo Santo Pontefice, benche tutto non fosse stimato esistente dal bel principio del male; sapendosi da Petriti, che nell’ultimo stato di nostra vita, e massime in quei, che soggiacciono ad una longa agonia, molte offese nelle parti interne si cagionavano da stagnamenti,

c. 217 e corruttela de liquidi, e da stiramenti, ostruzzioni, e putredine de solidi: fu bensì creduta cosa meravigliosa, che con pietre di quella mole ne Reni la Santità Sua giungesse ad’un etrema vecchiaia. Dio, che la volle ne maggiori bisogni della Santa Chiesa per suo Vicario in terra, potè anche somministrarle il modo particolare per sopravvivere lungamente con un malore si grave.

C. 218 Relazione

C. 219 “Relazione Degli ultimi quattro giorni, e particolarmente dell’Agonia di questo Santo Pontefice. Uscita dalla Segretaria dell’Eminentissimo Colloredi Penitentiero Maggiore”.

C. 220 carta bianca

C. 221 A chi legge

Mentre io stavo terminando questo Giornale, mi capita alle mani una nuova e distinta relazione di tutti gl’avvenimenti, tanto de moti naturali nell’Agonia, quanto degl’aiuti sopranaturali nell’esibizione de Sacramenti, e della raccomandazione dell’anima, accaduti negl’ultimi quattro giorni dell’Infermità di questo Santo Pontefice, la qual’relazione, essendo uscita dalla Segretaria dell’Eminentissimo Signor Cardinale Colloredo Penitenziero maggiore, spero, che potrà sodisfare alle altrui, come hà sodisfatto intieramente

C. 222 alle mie brame; molto più che contiene diverse cose, dette quali io non hò potuto fare alcuna menzione; perche accaderono in tempo, in cui non mi trovavo nella Camera di Nostro Signore, e perciò si è stimato bene d’inserirla al presente Giornale.

C. 223 Relazione

Siccome la lunga e penosa infermità di Nostro Signore Innocenzo XI, quasi un fertilissimo campo di meriti e di virtù singolari molti havranno potuto raccorre abbondante messe di fatti, in tutto lodevoli, e degni di un sì glorioso Pontefice: così ora a chi è pregato di scrivere, basterà di stringere, ad immitazione di quesi Poveri dell’Antico Testamento, un fascietto solo di spighe di doti mature, e di azioni sacerdotali, et insigni osservate negl’ultimi quattro giorni, della Vita veramente Apostolica di questo meritissimo Vicario di

C. 224 Christo alle quali il mio Eminentissimo Padrone hebbe la sorte di essere quasi sempre testimonio di vista.

Principiando dunque dalla sera di lunedì 8 agosto, haveva già conosciuto Monsignor Lancisi Medico secreto di Nostro Signore, essere sopragionta dopo un si lungo, e gran male una nuova febbre con qualche inclinazione al sopore, onde stimò opportuno di far’avvisata del pericolo della vita, in cui era la Santità Sua, che ricevè la nuova con una imperturbabile costanza, ed indifferenza quasi che internamente cantasse “Letatus sum in his, que dicta sunt mihi in Domum Domini ibimus”17: e perciò, fattosi chiamare il Padre Ludovico

C. 225 Ludovico Marracci suo Confessore, fece seco la sua Confessione, con segni di estrema pietà, et impaziente della dimora verso le 4 hore si munì con Santissimo Viatico, che le infuse nello spirito una forza et una tranquillità che occultò gli Astanti l’abbattimento, in cui giaceva il suo Corpo. La mattina del martedì, avvistatone per tempo il Signor Cardinal Colloredi Sommo Petinenziero, si porrò subito a Palazzo, e giunto in Anticamera, gode di sentire qualche picciolo miglioramento, succeduto nel seguito della notte preceduta, e tanto più le fu cara questa nuova, quanto, che Sua Santità le fece dire, che per

C. 226 all’ora non occorreva altro; ma che in questo mentre pregasse Dio a volerle concedere una buona morte, significando apertamente di sospirare quel transito, che la poteva far’ passare al possesso di una vita che non ha fine. Intanto per insinuazione del Signor Cardinal Cybo, si stabilì di far chiamare li Padri Generali della Compagnia di Gesù, e De Carmelitani Scalzi. Accioche potessero assistere opportunamente a Sua Santità. Ma mentre partiva il Signor Cardinal Penitenziero s’incontrò col padre generale de Gesuiti, che già spontaneamente veniva a passare

C. 227 quest’officio di carità. Sua Eminenza, ritornando il dopo pranzo per motivo di debito, condusse seco l’altro Padre Generale de Scalzi, e fattosi da Monsignore Mugiaschi nuovamente sapere a Nostro Signore la Sua venuta; Sua santità rispose, che compatisse, non potendo ne parlare, ne udire senza una gran molestia: insistendo però, che l’impetrasse da Dio una santa morte. Da ciò si conferma chiaramente la pace dell’animo, e la fede fermissima di questo Religiosissimo Pontefice: mentre con le proprie, e con l’altrui orazioni, morto al Mondo, e vivo solamente in Dio, desiderava una morte ma santa: e la poteva fondatamente

C. 228 sperare poiché vero Martire di amore verso il Salvatore giaceva ferito e quasi inchiodato in una Croce con le numerose sue piaghe sul letto. Mercordì mattina, dedicato a sa. Lorenzo martire, si sparse una voce di miglioramento, che durando sino alla sera, eccitò qualche consolazione nella Corte del Papa, ma col sopraggiungere delle 3 hore della notte seguente la febbre, le tolse ogni speranza: e perciò Monsignor Sagrista giudicò bene di munire Nostro Signore co’ l’Oglio Santo, alla qual funzione intervennero li Padri Mastro del Sacro Palazzo, e confessore, La Camera Segreta, et altri Domestici.

C. 229 Nostro Signore intanto, ricevendo con ugual Pietà e consolazione di animo quast’estrem Sagramento, ne fù notabilmente invigorito e fece conoscere verificato in se stesso il gran sentimento di San Giacomo18 “allevians a Domino” overo come meglio sona il testo greco “ Erectus spei sacramenti viribus”; mentre potè concedere con estrema tenerezza la santa Benedizione a tutta la Famiglia. Giovedì mattina, avvisata Sua Eminenza dello stato nuovamente pericoloso del Papa se ne tornò con l’obbligato suo zelo sollecitamente a Palazzo: e perché Nostro Signore poco tempo avanti haveva domandati tutti gl’altri aiuti della Pietà

C. 230 e della fede christiana, e particolarmente la Benedizzione del Santissimo Rosario con la certezza, che quantunque questi devoti sussidij non sieno operativi, sono però imperativi con Dio, si compiace di ammettere il nostro Signor Cardinale, il quale genuflesso supplicò Sua Santità, in caso di havere a passare a miglior vita, della sua santa , et Apostolica Benedizzione, chiedendola anche a nome di tutto il Sacro collegio” ve la concediamo, volentieri, rispose il Santo Padre, e per voi e per tutti i Cardinali, ai quali farete sapere da parte nostra, che noi amavamo di vederli tutti: ma le dissicoltà che ci continua di parlare

C. 231 ci ha impedito di farlo: gli avvisarete ancora, che premino nell’elezzione di un buon successore, e che non habbino ad altro riguardo, che al servizio di Dio, e della sua Chiesa,e riflettino in fine, che tutte le cose mancano. O Testamento sacro e degno invero di un Vicario di Christo, col quale studiò unitamente di provvedere a i doveri di Dio, regnante in Cielo et alla conservazione della sua Chiesa, edificata in terra. Volle poi, che Sua Eminenza esercitasse seco la carica di Sommo Penitenziero, col riconciliarlo, accompagnando Sua beatitudine quell’atto, con sentimenti fervidissimi di dolore e di speranza. Passò dopo a dirgli

C. 232 “Noi lasciamola Camera in tal stato che, se il nostro Successore vorrà, potrà sgravare i Popoli” e prendendo Sua minenza un giusto motivo supplicò Sua Santità, acciò volesse fare da sé stessa un così gran benefizio, e non esporlo all’arbitrio di chi fosse per succedere. Ma Nostro Signore rispose” questo non essere negozio da poter si fare in quello stato. E benchè le soggiungesse il Signor Cardinale che bastava per sbrigar subito questo affare, che Sua Santità si degnasse di ammettere per un momento monsignor Tesoriere, dal quale era già stata digerita molto bene tutta la materia: nulladimeno non volle il

C. 233 Papa determinar cosa alcuna rispondendo “Queste non sono risoluzioni da farsi così in fretta: le potrà fare il nostro Successore”. In questa guisa si mostrò Padre amantissimo de suoi sudditi, havendo invigilato all’economia della Chiesa: fece conoscere havere una mente sempre più ferma e più savia, schivando nell’estrema gravezza del suo male una risoluzione, che per farlo senz’alcun pentimento, richiedeva molte attente riflesisoni, e calcoli replicati, et infine si confermò un Pontefice Evangelico, rinunziando con etrema humiltà a quell’applauso, che le poteva originare da una deliberazione del popolo tanto benefica.

C. 234 sua Eminenza in esecuzione dei commandamenti di Nostro Signore, diede a suo tempo un esatto conto alli Signori Cardinali Cibo e barberino, Capi d’Ordine delle benigne disposizioni, che haveva Sua Santità verso lo stato Ecclesiastico; affinche si compiacessero di parteciparle al Sacro Collegio, sperando che il Successore no haverebbe mancato di eseguire le paterna mente del defonto Pontefice. L’istessa parte stimò bene di fare ancora con monsignor Tesoriere, a continuando il racconto dell’assistenza, prestata dal Signor Cardinal Penitenziero a Sua Santità, appena egli licenziato dal Papa, era andato

C. 235 a celebrare la Santa Messa nella Chiesa di S. Andrea a monte Cavallo, che terminatala, fù dal presbitero Alemanni avvisato, che Nostro Signore per l’ingresso della nuova accessione stava quasi percolando, onde incontratosi col Cardinal S. Susanna, se ne salirono sollecitamente in Anticamera, e sentendo che all’ora Sua Beatitidine haveva qualche riposo, il mio Signor Cardinale prese partito di ritirarsi in una stanza laterale per poter essere prontissimamente ad ogni nuovo bisogno: come in effetto seguì poiché sopragiunta a Nostro Signore una spezie di accidente, Sua Eminenza accorse subito, e munito con la sacra stola, le fece la solenne raccomandazione dell’Anima.

C. 236 Anima in quella medesima forma, che fù praticata con la Sua maestà d’Innocenzo X dal Signor Cardinal Ludovisi, all’ora Penitenziero Maggiore, e nel seoclo passato haveva fatto con quella di Pio IV il glorioso S. carlo Boromeo, che pure sosteneva con tanta pità la medesima carica che questa funzione intervennero oltre i Domestici, il Padre Generale della Compagnia di Giesù, il Padre Commissario Generale de ministri Osservanti, et alcun’altri Religiosi. Nel tempo, che si recitavano le sante preci, procurava Nostro Signore di andar rispondendo; ma l’affanno se lo interrompeva; così seguiva almeno con lo spirito

C. 237 le voci della Chiesa, e tutto attento sospirava il gran dono della perseveranza, bagiando in quello stato divotamente più volte l’imagine del Crocifisso, ne i di cui meriti infiniti mostrava di confidare interamente, dando con gl’occhi e con le mani varij segni della sua interna contrizzione. Ricevè poi un gran conforto in udire l’essempio della sofferenza del beato Pio V, e fu sentito replicare il detto di S. Fulgenzio “auge dolorem, sed auge patientam”. Proferiva ancora frequentemente alcune parole, le quali a distanza non si potevano intendere: ma accostatosi più da vicino Monsignor Porta, sentì

C. 238 che ripateva fra se quel versetto del salmo” quoniam tu Domine singulariter in spe constituisti me” O beato e felice Pontefice, che confidava in Dio con una fiducia, che non si può riuscir vana a che spera con viva fede! “O spes, que vana esse nequit” eslama S. Paolino, “qua speratur in Christo, que confertur a Christo!” Ne terminarono qu’egli esercizj di pietà, fatti in quella mattina; poiché Sua Eminenza rammentando a Nostro Signore, che s. Agostino prima di morire si fece leggere i Salmi penitenziali, giudicando, che verun’anima benchè consapevole di esser libera

C. 239 dal peccato, doveva passare da questa all’altra vita senza la penitenza perciò a sua imitazione furono recitati i suddetti salmi alternativamente da molti Religiosi; e perche Sua Santità mostrava una divozione, et affetto particolarissimo veso la passione di Giesù Christo, udì con estrema tenerezza legger quella descritta sa S. Pio: come pure con altrettanto giubilo sentì ricordarsi le Lodi, e la confidenza della Betaissima Vergine. Con questi trattenimenti spirituali la Santità Sua fu continuamente eccitata, invigorita,e  ricreata per conservarle quella fervida confidenza, ch’egli haveva nel Signore.

C. 240 Questo S. Padre in mezzo a tanti affanni, e con lo spirito tant’appresso, diede un grand’esempio di una vera humiltà, nel domandare due volte perdono alla sua Famiglia e nel ringraziarla ancora, perquanto poteva esprimere, della pia servitù, che le prestava, eccitando con si rara, e si tenera azzione tutti i circostanti alle lacrime. Le fù dopo suggerita la grand’allegrezza di S. Teresa di morire figlia della Chiesa e Nostro Signore con un nuovo atto di humiltà rispose “bisognerebbe havere il suo spirito” Era stato avvistato il Signor cardinale dal Canonico Quadri familiare

C. 241 del Papa, di haverli detto Sua Santità in altri tempi che, quando stava vicino al morire, bramerebbe le si fosse replicata l’assoluzione, perciò Sua Eminenza disse a Nostro Signore, che riuscendole tanto grave il parlare, gli stringesse la mano in contrasegno di quel pentimento, che haveva nel cuore; così corrispondendo sua Santità prontamente il Signor cardinale le diede l’assoluzione: ma perché Nostro Signore s’avvide, che nel riceverla haveva tenuto in capo il berrettino, se lo cavò da se medesima, e o fosse una spezie di compunzione dell’irreverenza, che dubito di haver commessa, o una brama di estrinsecare, ancorche moribondo

C. 242 i maggiori segni, che poteva di rispetto a questo sacramento, volle che se le reiterase l’assoluzione. Fece poi, come è costume dei Romani Pontefici, la professione della Fede con tal pietà, che nel leggere Sua Eminenza la formula, egli teneva continuamente la mano sopra il foglio, e bagiava intanto teneramente con le sue lacrime l’Imagine del Crocefisso al quale in soddisfazione delle proprie colpe, accettava di offerire tutte le pene, che era per incontrare nell’avvicinarsi alla morte, e tutte quelle insieme, che le conveniva patire nel Purgatorio.

C. 243 La notte seguente al Giovedì Sua Santità fù assistita dal Padre Maetsro del Sacro Palazzo, che lo tratteneva con varie riflessioni christiane, ereplicati atti di more verso Dio, vivo moribondo, e glorioso: e la mattina del Venerdì ricevè divotamente la sospirata benedizzione del Santissimo Rosario che, racchiudendo tutti i isterij della nostra Redenzione, le avvalorerò la viva speranza, che nodriva nel Cuore. Ritornato intanto la mattina il Signor Cardinale fù ricevuto con un espressione di carità, dicendole, che non si prendesse tant’incomodi: et egli dopo haverla animata alla confidenza,

C. 244 et alla costanza, le diede di nuovo con i precedenti atti di dolore l’assoluzione. Intorno alle 16 hore parve che si avanzasse la vera agonia, mentre fù grandissimo l’affanno, che incominciò, e continuò ad angustiare Nostro Signore sicche avendo già perduta la parola, venne assistito a vicenda da sopradetti Religiosi, dal Padre Generale  di San Domenico, et altri insieme con i Padri penitenzieri di S. Pietro, i quali con varie, et efficiaci preghiere attendevano ad iplorare da Dio un transito felice at venerabile moribondo, suggerendole opportunamente sentimenti pij, e divoti

C. 245 per eccitare in Lui gl’atti di quelle Apostoliche Virtù, delle quali già possedeva gl’habiti nell’animo suo. Tra gl’esercizi di Pietà fù il recitarsi due volte dal padre Generale di S. Domenico la terza parte del Rosario a cui rispondeva il buon numero de religiosi, e de Sacerdoti, e de Secolari, che venivano a vedere, et a piangere la perdita irreparabile del loro dignissimo Pastore: onde quella Camera comigliava ad un coro di paradiso, lodandosi in essa sempre il Redentore; e si poteva dire all’caso nostro ciò, che la morte dell’Serafico d’Assisi scrisse S. Bonaventura “ Astantes autem sic diem

C. 246 illum, in quo Almus Christi Confessor decessit, divinis Laudibus dedicarunt, ut non morientis exequie sed Angelorum excubie viderentur” Vi entrarono ancora molti Signori Cardinali, che accrescerono con la Loro pietà quella de Religiosi; e perche dopo le 17 ore Nostro Signore fu sorpreso da diversi accidenti, sino al numero di otto o nove; perciò il Padre Rettore della Penitenziaria le rinnovò l’assoluzione, econ le possibili espressioni di varij tenerissimi affetti verso Ddio, e con il confidente ricorso a i Santi e particolarmente alla Santissima Vergine , questo Capo dignissimo della Chiesa rese felicemente

C. 247 la gloriosa anima al Creatore alle 21 hore e tre quarti in giorno di venerdì consecrato alla passione di Giesù Christo, di cui egli non solo fù sempre sopramodo divoto, ma in quest’ultima infermità era stato con le ferite, e con le piaghe in qualche parte imitatore. Il Reverendissimo Padre Maestro del Sacro Palazzo chiuse gl’occhi all’inclito Cadavero, e sua Eminenza intonò il “Subvenite” con altre preci per accompagnare quella santissima Anima a godere il premio delle sue gloriose fatiche.Così, in età quasi età ottogenaria sarà volato prosperamente al Cielo Beatissimo Innocenzo, huomo

C. 248 veramente tutto d’Iddio, che non “respexit Carmen nec sanguinem” e che nel suo operare usò continuamente una soda prudenza per non restare ingannato, hebbe sempre una ferma credenza per non ingannare giammai. Onde potrà dire “dicum Laboravi, et inveri mihi multam requiem”.

Ma poiché una pessima proprietà degli huomini è quella di non conoscere bastantemente il vero, et il buono all’ora che si possiede, confessarlo poi, e piangerlo, dopo haverlo perduto, per questa ragione fù prodigioso pubblicata in Roma la Morte di questo Santo Pontefice, l’udire non meno

C. 249 le querele de Poveri, i sospiri de i Miserabili, e gl’applausi de Giusti, che il ritrattamento, e la confessione ingenua di quei, che, guidati dalle proprie passioni, vivendo il Papa, si erono fatti condurre a giudicare sinistramente della sua irreprensibile condotta.Pertanto la Domenica mattina il sacro Cadavero con le solite cerimonie nella Cappella del Santissimo entro la Basilica di San Pietro, et esposto al bagio de piedi vicino alla ferrata, che folto e numeroso il concorso d’ogn’ordine di persone, e così impaziente in esse il desiderio di ottenere qualche memoria del Santo Pontefice, che dalla grata

C. 250 in brieve tempo gli furono tolte le scarpe, e le calze, e tagliate fin’dove si poteva l’estremità delle vesti, della Pianeta, e del Rocchetto. Onde fù d’uopo tirare in dietro, affinchè non restassse denudato il suddetto Cadavero. Ma questo ripiego in vece di moderare, rese con la privazione di conseguire quei sacri furti, molto maggiore la brama della gente: poiche rivolta a tentare le due porte di dentro della medesima Cappella, le riuscì di sforzarne una, e all’ora la devozione del popolo non perdonando al rimanente delle vesti di sotto, et a i guanti medesimi, si avanzo non innocente offesa

C. 251 a lacerarne ancora in qualche parte le mani: tanto che, vedendosi questa violentissima venerazione, convenne raddoppiare le guardie a dette porte, et acciò che il Sacro Cadavero non continuasse in quell’indecenza, benche gloriosa, di comparire quasi affatto spogliato, levatole la Sacra Mitra, fu ricoperto, fuor’ che nel volto e nei Piedi, con una nobilissima Coltra, e perche la folla non si poteva più sodisfare con le divote accennate rapine, convenne per tutti tre i seguenti giorni ( ne quali secondo il costume si tiene esposto il Cadavero del Sommo Pontefice) obligar’ sempre alcuni Sacerdoti

C. 252 a star dentro la ferrata, per prendere le medaglie, e le Corone, che a gara venivano da Ogn’uno consegnate per toccare con esse i Santissimi Piedi, benche tutti laceri e piagati. Tant’oltre giunse la pubblica testimonianza per la Santa memoria, lasciata se dal nostro Glorioso Innocenzo. Nel Martedì sera col’intervento della pietà, e gratitudine degl’Eminentissimi Signori Cardinali Creature, e dell’Eccellentissimo Signor D. Livio, fù data sepoltura al venerabile Cadavero, nella qual funzione bisognò parimente usar nuovi ripieghi, e valide difese per non essere impediti dalla moltitudine del Polopo addolorato, e piangente

C. 253 in quella Sacrosanta Basilica, di modo che con maggior stupore si poteva applicare a questo successo cio che scrisse San Paolino de i funerali di Rufina, perche nel caso nostro non vi fù come in quello la sla plebe, ne vi concorse con la speranza di consequir’0 l’elemosina: “ Videre mihi videaor” notò San Paolino, “ illos pietatis divine alumnos tantis influere penitus agminibus in amplissam gloriosi Petri Basilicam ut tota et intra Basilicam, et pro Ianvis Atrij, et pro gradibus Campi, spatia coarctentur”.

C. 254 carta bianca

C. 255 carta bianca

C. 256 Indice

 

INDICE DELLE COSE PIU’ NOTABILI FRA LE QUALI LE VIRTU’ DELL’ANIMO DI QUESTO PONTEFICE VENGONO CONTRASSEGNATE CON LA *19

Introduzzione al Giornale. Pag: 9

Descrizzione del temperamento si Sua Santità. Pag: 12

Varij accidenti accadutigli nella sua gioventù. Pag: 13

*Ispirazione del Signore Dio per fargli preleggere lo stato ecclesiastico. Pag: 14

Principia il Giornale. Pag: 20

Rggione fisica del poco genio al muoversi. Pag: 21

Dalla tumefazzione delle gambre, principia il male di Sua Santità. Pag: 23

Principio della Febbre. Pag: 25

Presaggio mortale fatto da se stesso. Pag: 26

Colore variegato nelle meni di Sua Santità conosciuto segno fisico mortalee sue ragioni. Pag:28

Questione avuta se si dovesse purgare da principio, e perché si conchiuse di no. Pag: 30

*Risoluzione eroica fatta dal papa di licenziare il Bucciotti suo speziale, e perché. Pag: 34

Augumento del male con segni di futura Podagra. Pag: 36

Poca forza della natura per moverla. Pag: 37

Repugnanza di Sua Santità al soprachiamare altri Medici, et alla fine espugnata. Pag: 38

Nova questione intorno al purgare. Pag: 39

Accrescimento di gonfiore della gamba destra conosciuto più tosto risipelatoso, che Podagrico. Pag: 43

Miglioramento di Nostro Signore. Pag: 44

*Taciturnità del medesimo tutto intento aal’orazioni mentali nel tempo della febbre. Pag: 47

*Cessata la febbre, quali fossero i suoi descorsi. Pag: 44

*Pensiero di Sua Santità intorno alla ragionee del poco frutto, che fanno i Predicatori moderni. Pag: 49

*Ammonizione fatta da Sua Santità a predicatori di Roma .Pag:50

*Piacere che aveva questo Pontefice nel recitare l’Offizio Divino, e sua ragione. Pag: 51

*Censura della Corte, e savia apologia di Sua Santità intorno al non doversi operare in tempo di male. Pag: 52.53.

*Istoria di monsignor Torregiani, che dimostra non doversi operare nell’Infermità. Pag. 54

*Compatimento di Sua Santità per l’Infermi e varij comandi imposti da me da farsi suoi Ministri amalati, e specialmente alla Sanità di Nostro Signore Clemente XI, all’ora suo Segretario de Brevi. pag: 57

*Quando però vi fosse potuto essere un pregiudizio sensibile della Chiesa operava quantunque Infermo, Essempio. pag: 58.59

Timore di suppurazione nel Piede gonfio. pag: 61

Istanza per il chirurgo il quale trova già suppurato il piede_pag: 63

*Taglio dato dal medesimo e sofferto generosamente dal Papa. pag: 64

Nova suppurazione in mezzo al Piede, e novo taglio con esito di materia gipsea e marciosa. pag: 65

Troppa quiete in Nostro Signore conosciuta per pessimo segno rimadj e profitto. Pag 69

*Nostro Signore prende il Santissimo Sacramento dell’Eucarestia con la pena in mezzo all’estate di non aver voluto ne pur sciacquarsi nella notte precedente. Pag 73

Altra suppurazione dietro al Piede. pag. 75

Vari discorsi della Corte intorno all’esito di questo male. Pag 76.

Sentimento d’un gran Principe d’Italia fattomi communicare circa il vitto pratticato in Sua Santità, e mia risposta. Pag 78

Tregua de mali del Papa. Pag.82.

La veglia senza dolore sperimentata da Sua Santità sempre favorevole alla depurazione de buoni pensieri essempio. pag. 83

*Le armi vere de Papi esser l’Orazioni. Pag. 83

*Costanza e intrepidezza del Papa per voler morir Martire se fosse bisognato per mantenere i diritti della Chiesa. Pag. 84

*Risposta prudente di questo S. Pontefice data ad un figliolino del signor Landi, Presidente di Venezia, che le disse di voler essere Cardinale. Pag 86.

*La nostra buona sorte derivaci non da proprij meriti, ma dal volere di Dio. Pag 87.

*Prova evidente in Persona di Monsignor Paolo Odescalchi, che con tanti meriti non giunse alla Porpora. Pag 87

*Succinto della vita e morte di questo Prelato. Pag. 88

*Morte del medesimo Pietro Giorgio Odescalchi Vescovo di Alessandria, e poi di Vigevano, esua vita. pag. 92.

*Nobili ignoranti credono con loro grandissimo pregiudizio differenza di natura dalla nascita. Pag 93

*Conseglio prudente dato da questo Santo Pontefice a Monsignor Ariberti. Pag. 95

*Savio partito preso da Sua Santità quando giunto a Ferrara in qualità di Legato vi trovò la maledicenza contro i suoi predecessori, l’inimicizia fra cittadini e la pubblica carestia. Pag. 96.

Nuovo timore intorno al Papa. Pag 103

La speranza della salute dei Papi devesi prudentemente sostenere più di quella d’altri Principi, e perché. Pag. 105

Accrescimento di timore del vedersil’eruzzione cutanea di un male, che dicesi dagl’Arabi d’essere. Pag. 106.

Varij rimedi adoperati per oppugnare la causa del male. Pag. 108.

Dalla retrocessione dell’essere augumentasi il male della gamba. Pag. 109

Scarico per le ferite produce miglioramento.pag 109.

*Compatimento paterno di Nostro Signore pe l’Signor Carlo Gavotti paralitico, et epilettico. Pag. 111.

*Bramava anzi di morire che sopravvivere inutile. Pag. 112.

*Desiderava di poter’ essere libero dal dover prendere rigali da cammerali, e perché. pag. 113.

*Buon’uso de rigali fatto sa Sua Santità. Pag 114

Origine e progresso dell’Ospizio di Santa Galla riferita da Sua Santità. Pag. 116.

Non esser’ lodevole confondere questo istituto con quello di un ‘ Ospizio chiuso nel palazzo di San Giovanni in Laterano, e perché. pag. 119.

Speranza del Papa, che dopo la sua morte dovesse continuare quest’opera pia del Signor Duca Livio suo nipote. Pag. 125.

Dolore del Piede di Sua Santità maggiore di quello della Podagra, nulla di meno sofferto con estrema tranquillità di spirito. Pag. 128.

Nuovo dolore al piede sinistro. Pag. 130.

*Detto sopra ciò da Sua Santità. Pag. 132.

Manca il detto dolore, e cresce la febbre. pag. 134.

Rimadij adoperati. pag. 134.

Suppurra il detto piede e si apre dal chirurgo ne i luoghi proporzionali al primo Pag. 135.

Speranza della salute di Sua Santità sempre più declinante e perché. Pag. 137.

Parere del famoso Dottor Malpighi, mandato dall’Eminentissimo Negroni da Bolognasopra il male del Papa. Pag. 138.

Dallo spurgo libero de Piedi non apparente miglioramento di Sua Santità. Pag. 141

*Riflessione fatta da Nostro Signore sopra la diversa sortede Svizzeri della sua Guardia, di quella dei soldati dell’Ungheria. Pag. 142.

*Se i Papi avessero seguitato Paolo III nel fortificar Roma, questa sarebbe in sufficiente buon stato di difesa. Pag. 143.

*Desiderio di veder respinti i Turchi nella Tracia era antico nell’animo di Sua Santità. Pag. 144

*Contribuzione costante di dodici mila scudi, fatta da Lui per la guerra contro il Turco in tempo di Clemente X. Pag. 145.

*Viva fede in Dio di questo Santo Uomo per il felice prosseguimento delle vittorie nell’Ungheria. pag. 147.

Mezzi umani, o siamo soccorsi con qual prudenza fossero trasmessi da Sua Santità. Pag. 149.

*Creò 27 Cardinali nel medesimo giorno, in cui fu espugnata Buda e per quali motivi. Pag. 152.

Perché Nostro Signore trovasse più quiete giacendo sopra il lato destro, che sopra il lato sinistro. Pag. 154.

Tosse secac sopravvenuta da Sua Santità. Pag. 157.

Dubito se la cagione di questo gran male fosse un’acre alcalico o vero un’acido.pag. 159.

Sopravivere un dolore all’osso sagro con una nuova febbre il di 6 Agosto. Pag. 167.

*Con tanto abbattimento di corpo ancor dura la vivacità dello spirito. Pag. 168.

*Uomini di molta Pietà dall’anticipata notizia della morte abbandonano tutti i mezzi nostri. Pag. 169.

*Si palesa a Sua Santità lo stato disperato di sua salute, che con intrepidezza riceve. Pag. 170.

*Viatico dato a Sua Santità.

Effetto di questo sacramento nel polso fatto sensibilmente più alto. Pag. 172.

Nei mali disperati gran confusione. Pag. 175.

Uscita sopragiunta, pessimo segno. Pag. 177.

*Mirabile e sopraumano distaccamento da parenti mostrato particolarmente in questo male. Pag. 178

*Due proposizioni singolari di questo Santo Uomo, il Papa non ha parenti, il Papa non ha niente del suo. Pag. 179.

*Speranza di molti, che alla fine di dovesse arrendersi alla forza del sangue. Pag. 179.

*Artificio tenuto da me perché il suo Nipote per una sol volta potesse entrare dal Papa. Pag. 186

*Miglioramento detto volgarmente della morte. Pag. 190.

*Sua Santità, dice che avendo sortito il nome di Benedetto dovrebbe invitarlo nel morire, e come. pag. 191.

*Estrema unzione ricevuta da Sua Santità con gioia. Pag. 193

*Domanda dopo al suo Medico con ilarità quanto le restasse ancor da vivere. Pag. 196

*Ordina che si chiami il Signor cardinale Colloredi sommo Penitenziero. Pag. 199.

*Quali furono creduti i discorsi tenuti con Sua Eminenza. Pag. 200.

*Si avanza il pericolo sino ad avvicinarsi l’agonia. Pag.204.

*Umiltà del Papa. Pag. 204

*Principia l’Agonia. Pag. 206

Assistenze spirituali nell’Agonia e morte di questo Santo Pontefice. Pag. 209

Relazione delle cose accadute negl’ultimi quattro giorni del suo vivere, uscita dalla sagrestia dell’Eminentissimo Cardinal Colloredi. Pag. 219.

 

Fig. 1: Scuola romana (sec. XVIII). "Ritratto di Giovanni Maria Lancisi". S. Spirito in Sassia, ASL Roma 1. Roma

 

Fig. 2: "Biblioteca Lancisiana". S. Spirito in Sassia, ASL Roma 1. Roma

 

Fig. 3: "Filigrana" Roma, Biblioteca Lancisiana, ms 149 LXXV.2.16, G.M. Lancisi

 

Fig. 4: "Frontespizio" Roma, Biblioteca Lancisiana, ms 149 LXXV.2.16, G.M. Lancisi


  1. Roma, Biblioteca Lancisiana, ms 149 LXXV.2.16, G.M. Lancisi.
  2. La Biblioteca Lancisiana di Roma, ubicata presso il Palazzo del Commendatore presso il Complesso Monumentale di S. Spirito in Sassia, è parte integrante del patrimonio storico artistico dell’Azienda Sanitaria Locale Roma 1.
  3. TOGNETTI, 1982. PETRUCCI, 2018.
  4. “Giovanni Maria Lancisi, Luminare della scienza medica del tempo suo lasciò un dono, quanto mai prezioso a noi posteri, un dono che costituisce per lui uno dei suoi più alti titoli di gloria: la Biblioteca Medica Lancisiana, che da due secoli e mezzo costituisce uno dei privilegi più invidiati dell’Ospedale S. Spirito”. P. De Angelis, La Biblioteca Lancisiana, l’Accademia Lancisiana nel 250° anniversario della sua fondazione. Roma, 1965.p. 105.
  5. Nel manoscritto 148 vi sono molte correzioni, alcune anche autografe con cui il Lancisi è intervenuto di suo pugno. Sulla controguardia è presente un talloncino di carta, fissato con la ceralacca, recante il sigillo di Giovanni Maria Lancisi (due lance in s. Andrea accompagnate in capo da tre stelle allineate ed in basso dal Trimonte) che recita: "Io infrascritto mi obbligo di consegnare a chi mi restituirà il presente biglietto da me sottoscritto e sigillato col sigillo di Monsignore illustrissimo Lancisi due esemplari della sua opera De noxiis paludum effluviis eorumque remediis, la quale si va presentemente stampando. Roma, questo dì 21 ottobre 1716. Antonio Boldrini segretario di mons. illustrissimo Lancisi". Il Lancisi fu il primo ad intuire che la causa dell’epidemia malarica fossero le zanzare e ne erano pure il veicolo di diffusione, insetti che provenivano principalmente dai canali di scolo e dai territori alluvionati.
  6. I manoscritti lancisiani 149 e 150, possono considerarsi copie del codice manoscritto 148 che presumibilmente rappresenta una delle prime stesure (se non della prima) dell'opera di Lancisi avente per oggetto la morte di Innocenzo XI.
  7. Roma, Biblioteca Lancisiana, ms 149 LXXV.2.16, G.M. Lancisi, Il Giornale dell’ultima infermità di Sua Maestà Innocenzo XI, c. 6.
  8. Il Lancisi fu decorato del titolo di Nobile da Papa Clemente XI, che fin dal primo anno del suo Pontificato concesse al suo Archiatra, la facoltà di inquadrare il suo blasone raffigurato in Tre Monti con tre Stelle, con le Lance Lancisiane. Della nobiltà del Lancisi resta solo il blasone inciso sulla lapide sepolcrale e quello impresso sulla copertina in pelle che racchiude il Diploma di Laurea dello stesso Lancisi.
  9. Roma, Biblioteca Lancisiana, "Indice delle scanzie, ossia inventario de' libri esistenti nella Biblioteca Lancisiana fatto per ordine di Monsignor illustrissimo e reverendissimo Giovanni Potenziani", 1770.
  10. Il titolo è inscritto in una cornice decorata, incisa sul frontespizio: “Giornale dell’ultima infermità della Sua Maestà d’Innocenzo XI in cui si rende conto non solo del male e sua cura, ma eziando della sofferenza, pietà e morte di questo santo pontefice disteso e dedicato alla santità di Nostro Signore papa Clemente XI. Da Giovanni Maria Lancisi Medico e Cameriere Segreto di ambedue questi Sommi Pontefici”.
  11. La dedica che il Lancisi, “UMILISSIMO DEVOTISSIMO ET OBLIGATISSIMO SERVITORE E SUDDITO” rivolge a papa Albani, e con “ARDIMENTO” ne elenca i due motivi che lo hanno spinto a presentare il “ROZZO LAVORO DELLA SUA PENNA INTORNO AL GIORNALE”: poter aggiungere autorità alla verità dell’“Istoria” ovvero della morte di Innocenzo XI, e trasferire le virtù individuate in Innocenzo XI a Clemente XI.
  12. La terza parte riguarda l’introduzione al giornale con cui il Lancisi traccia la biografia della giovinezza di Innocenzo XI.
  13. Il resoconto dettagliato che il Lancisi fa della malattia del pontefice inizia con l’indicazione dell’anno di stesura 1689.
  14. Il giorno seguente la morte di Innocenzo XI avvenuta il 12 agosto il cadavere fu sottoposto a sezionamento e le relative osservazioni “ANNOTATE FRATTOLOSAMENTE SU UN FOGLIO” furono consegnate dal Lancisi al nipote del papa, il principe Livio “ACCIOCCHE’ SUA ECCELLENZA PRENDESSE QUALCHE MOTIVO DI CONSOLAZIONE NEL VEDERE SUO ZIO ESSER GIUNTO FINO ALLA VECCHIAIA CON DUE GROSSE PIETRE NE RENI LE QUALI SARANNO NELLE MEMORIE DE MEDICI UN RARISSIMO ESSEMPIO”.
  15. Il Lancisi entra in contatto con un documento riguardante la relazione degli ultimi quattro giorni di malattia del pontefice, proveniente dalla segreteria del cardinal Colloredo, penitenziere maggiore, il quale ha assistito alla morte di Innocenzo XI.
  16. Il Lancisi nel redigere l’indice del giornale, contrassegna con un asterisco, “LE COSE PIU’ NOTABILI FRA LE QUALI LE VIRTU’ DI QUESTO SANTO PONTEFICE”.
  17. La carta 224  riporta sul margine sinistro del testo, l’annotazione: “Psalm: 121/, verosimilmente riferendosi al salmo 121 dell’Antico Testamento.
  18. La carta 253 riporta sul margine sinistro del testo, l’annotazione “Epist: Cap. 6” verosimilmente riferendosi alla lettera di Giacomo del Nuovo Testamento.
  19. A partire dall’ “Indice delle cose notabili…. con la *”  la cartulazione scompare.

BIBLIOGRAFIA

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Canezza A. Inventario dei manoscritti della Biblioteca Lancisiana, Inventario a schede mobili. Roma 1926-1945.

De Angelis P. La Biblioteca Lancisiana, l’Accademia Lancisiana nel 250° anniversario della sua fondazione. Roma, 1965. (Collana di studi storici sull’Ospedale di Santo Spirito in Saxia e sugli ospedali romani).

Indice delle scanzie, ossia inventario de' libri esistenti nella Biblioteca Lancisiana fatto per ordine di Monsignor illustrissimo e reverendissimo  Giovanni Potenziani,1770.

Petrucci A. Prima lezione di paleografia. Roma-Bari: Laterza, 2002.

Ricca P. La Biblioteca Lancisiana di Roma. In: Manzari F, Ricca P. Medicina illuminata. La Biblioteca Lancisiana di Roma. Alumina 2018; 55: 30-1.

Tanese A. La gestione del Complesso monumentale di Santo Spirito in Sassia: conservazione e valorizzazione di un luogo e di un’identità. In: Vivere la misericordia nel Trecento, le miniature del Liber Regulae. Roma: Ed. Croma, Università degli Studi di Roma Tre, 2018.

Tognetti G. Criteri per la trascrizione di testi medievali latini e italiani. Roma,1982. (Quaderni della R.A.S.; 51).