Anno Accademico 2018-2019
Vol. 63, n° 4, Ottobre - Dicembre 2019
Simposio: Infezioni ospedaliere: un problema emergente
14 maggio 2019
Direzione Sanitaria, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS
Simposio: Infezioni ospedaliere: un problema emergente
14 maggio 2019
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Premessa
Le infezioni ospedaliere o più correttamente, come da qualche anno a questa parte vengono indicate, le infezioni correlate all’assistenza (ICA o nell’espressione anglosassone HAI, healthcare-associated infections), costituiscono una complicanza nota della Medicina moderna, sin dal ‘800, da quando il medico ungherese Ignác Semmelweis intuì che la maggiore incidenza di sepsi puerperale riscontrata nelle puerpere che avevano partorito nel padiglione di ostetricia, contiguo alla sala anatomica dell’ospedale generale di Vienna, dipendeva dal fatto che le stesse pazienti venivano seguite nel parto da medici che avevano partecipato in precedenza a dissezioni di donne decedute per malattie ed interventi ginecologici.
Altrettanto noto è che l’intuizione di Semmelweis, che oggi gli sarebbe certamente valsa i riconoscimenti accademici e scientifici più prestigiosi, fu invece la causa dell’ostracismo di cui egli fu vittima da parte dei colleghi medici più influenti.
A dispetto degli enormi progressi che la Medicina ha compiuto da allora e in qualche modo a causa degli stessi le infezioni correlate all’assistenza, riconducibili a cure prestate non solo in strutture sanitarie per acuti ma in qualsivoglia setting assistenziale, continuano a mietere un numero incredibilmente alto di vittime.
Prima di soffermarsi su alcuni numeri che consentono di comprendere meglio le dimensioni del problema, si ritiene utile ricordare la definizione di ICA desunta dal protocollo per lo studio di prevalenza multicentrico europeo1 (Point prevalence survey, PPS) promosso dal European Centre for Disease Prevention and Control (ECDC), agenzia dell’Unione Europea.
Per ICA si intende un’Infezione insorta dopo 48 ore dal ricovero oppure presente anche prima del 3°giorno (considerando come giorno 1 quello del ricovero) se trattasi di un paziente ricoverato nuovamente con un intervallo minore di due giorni dopo il termine di un precedente ricovero in un ospedale per acuti (obiettivo infatti dello studio è la registrazione di tutte le infezioni correlate all’assistenza associate ad un ricovero in un ospedale per acuti), oppure se trattasi di un’infezione della ferita chirurgica insorta entro 30 giorni dalla esecuzione di una procedura chirurgica (con estensione del periodo di sorveglianza a 90 giorni in caso di inserzione di protesi), oppure se trattasi di un’infezione da C. difficile occorsa in un paziente dimesso da meno di 28 giorni da un ospedale per acuti, o infine se trattasi di un’infezione occorsa in un paziente nel quale è stato posizionato un dispositivo invasivo il giorno 1 o il giorno 2 di ricovero.
Epidemiologia delle ICA
In Europa2 si stima che ogni anno si verifichino poco meno di 9 milioni di ICA, quasi equamente distribuite tra ospedali per acuti e long-term care facilities (strutture riabilitative e residenze sanitarie assistenziali). Ne consegue che, ogni giorno, un paziente su 15 ricoverati in ospedali per acuti presenta almeno un’infezione correlata all’assistenza. Il rapporto, nelle strutture sanitarie non per acuti, diventa di 1 a 26. Ciò equivale a dire che ogni giorno 98.000 pazienti tra quelli ricoverati negli ospedali per acuti e 130.000 tra quelli gestiti nelle long-term care facilities sono affetti da almeno una ICA.
Non meno allarmanti i dati che riguardano gli USA. Secondo i Centers for Disease Control and Prevention3 (CDC) ogni giorno si stima che il 3% dei pazienti ospedalizzati abbia almeno una ICA, ovvero 1 per 31 pazienti ricoverati. Il dato, ricavato da uno studio di prevalenza analogo a quello prima citato e condotto nel 2015, mostrava una riduzione rispetto a quello rilevato nel 2011. Il numero annuo dei pazienti con ICA deceduti è di circa 72.000.
Calandosi nella realtà italiana, dall’ultima indagine condotta nell’autunno del 2016 nell’ambito della seconda edizione della Point prevalence survey europea4, e alla quale hanno aderito 135 ospedali distribuiti in 19 regioni (nessun ospedale della Basilicata aveva aderito), emerge una prevalenza pari al 8%.
Se si focalizza l’attenzione sulle tipologie di ICA ovvero sui siti di infezione si osserva che le più comuni sono le infezioni respiratorie (in buona parte polmoniti) pari al 24%, seguite dalle infezioni del tratto urinario (21%) e dalle infezioni del sito chirurgico e da quelle del sangue confermate dal laboratorio (entrambe pari al 16%).
La distribuzione per reparto ospedaliero mostra significative variazioni essendo le Terapie Intensive sensibilmente più colpite rispetto ad altri reparti. Le Terapie Intensive mostrano infatti una maggiore concentrazione dei tradizionali fattori di rischio associati all’insorgenza di ICA: primo fra tutti la maggior presenza di dispositivi invasivi.
Come già accennato in precedenza la maggior parte delle informazioni relative alle ICA provengono da studi di prevalenza puntuali. Tali studi, pur presentando dei limiti ben noti, che rendono ragione della variabilità nelle cifre utilizzate ad indicare le dimensioni del fenomeno anche in rapporti di Enti o Associazioni scientifiche autorevoli, ne permettono non di meno il monitoraggio nel tempo, con costi organizzativi relativamente contenuti.
Anche presso la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli dal 2013 e con cadenza annuale viene condotta un’indagine con la metodologia sopra ricordata. Attraverso tale studio è stato possibile registrare una tendenziale riduzione della prevalenza di due punti percentuali nell’arco di 6 anni (dal 6.64.del 2013 al 4.63 del 2018). Le infezioni più frequenti sono quelle già indicate nelle statistiche degli ospedali italiani che hanno partecipato alla seconda versione della Point prevalence survey: le polmoniti seguite dalle infezioni del sito chirurgico. Si conferma altresì il peso crescente delle infezioni da Clostridium difficile.
Per quanto concerne l’eziologia microbica, dai dati dello studio multicentico europeo, le prime cinque specie microbiche sono rappresentate da Escherichia coli, Staphilococcus aureus, Enterococcus ssp, Pseudomonas aeruginosa e Klebsilella pneumoniae. Progressivamente crescente, come denunciato con sempre maggiore insistenza dai diversi Organismi internazionali, il peso dei ceppi multiresistenti.
L’impatto economico annuale delle ICA5, in Europa, può essere quantificato in 7 miliardi di dollari, se si considerano solo i costi diretti. Negli Stati Uniti il valore è di poco inferiore (6.5 miliardi). Anche quando le ICA non determinano la morte del paziente (in Europa si stimano 37000 decessi per anno) esse comportano un significativo prolungamento della degenza (la stima in Europa è di 16 milioni di giornate extra) ed un carico consistente rappresentato dalle disabilità permanenti.
Gli aspetti gestionali: il ruolo dell’infection control
L’approccio del Infection and Prevention Control (IPC) delle ICA non può che essere un approccio multimodale perché differenti sono gli obiettivi che ci si deve prefiggere6. Ogni ospedale deve dotarsi di un solido corpo di procedure e linee guida interne, individuando come priorità quelle relative alle ICA più frequenti. Per questo è necessario sempre iniziare dalla misurazione locale del fenomeno. In questo campo poi, considerata la ricchissima produzione scientifica oggi disponibile, copiare non è solo lecito ma doveroso, tenendo conto però debitamente delle specificità delle singole realtà.
Poiché il lavaggio delle mani da parte degli operatori sanitari è universalmente considerato come la misura più importante7, nessun programma di IPC potrà essere strutturato senza che a questo tema sia dedicato un ampio spazio. Iniziando dalla formazione degli operatori sui 5 momenti che richiedono il lavaggio delle mani e sulle regole basilari dell’igiene delle mani, è necessario poi predisporre un costante monitoraggio per misurare sistematicamente l’adesione nelle diverse Unità Operative.
Un’attenzione particolare deve essere riservata all’effettuazione di indagini epidemiologiche, a seguito di notifiche relative a particolari patologie infettive. Ci si riferisce ad esempio alla Tubercolosi8 la cui occorrenza, in special modo, tra gli operatori sanitari suscita sempre un allarme particolare, sovente accompagnato da echi mediatici che finiscono per sopravvalutare la reale dimensione del fenomeno. Non di meno la ricostruzione dei contatti rappresenta un momento delicato per evitare da un lato il rischio di un allargamento immotivato dei controlli e dall’altro la mancata considerazione di soggetti con esposizione significativa. Analogamente, un’attenta indagine deve essere attivata in occasione di altre malattie quali il morbillo, per il quale è utile rammentare che l’epidemia in atto da alcuni anni in Europa non accenna ad arrestarsi, o la meningite. Infine lo stesso approccio rigoroso deve essere applicato in presenza di casi particolari di cluster di infezioni o semplicemente colonizzazioni da parte di microrganismi “alert”, laddove si possa ipotizzarne una diffusione legata al meccanismo della trasmissione crociata.
Nell’ambito della prevenzione di infezioni ospedaliere quali il morbillo o altre malattie esantematiche come la varicella o la rosolia, senza dimenticare l’influenza, non si deve trascurare l’importanza di una costante e attiva promozione delle vaccinazioni negli operatori sanitari9. Certamente ancora molto lavoro occorre per aumentare la consapevolezza di quali rischi per i pazienti, oltre che per essi stessi, comporta la presenza di operatori non immuni. I programmi di vaccinazione degli operatori non possono essere più lasciati all’iniziativa di pochi volenterosi ma devono entrare a pieno titolo nell’alveo delle attività di IPC.
Negli ultimi anni molti lavori e relazioni in importanti meeting scientifici hanno riproposto all’attenzione non più solo degli addetti ai lavori il ruolo dell’ambiente nel determinismo delle ICA10. Accanto quindi ai controlli ormai acquisiti sull’acqua, per il contenimento del rischio legionella (ma non solo), alle verifiche sul corretto processamento degli endoscopi, ai campionamenti negli ambienti a carica microbica controllata, un crescente interesse viene ormai rivolto alla sanificazione delle superfici, sia in termini di controlli dei risultati delle attività di sanificazione, sia in termini di impiego di sistemi innovativi o riscoperta di tecnologie già note (come ad esempio gli apparecchi a U.V). In questo ambito si colloca la ricerca San.Ica11 che ha evidenziato numerosi vantaggi derivanti dall’impiego di probiotici, vale a dire microrganismi non patogeni, se utilizzati in sostituzione dei tradizionali disinfettanti chimici.
Conclusioni
Il “paradosso” delle ICA, ovvero di infezioni contratte da pazienti che si rivolgono ad una struttura sanitaria per ricevere le cure che la loro malattia richiede ma che proprio a seguito di questo incontro finiscono per essere gravati da ulteriori problemi di salute, con esiti talvolta devastanti, continua a conservare la sua drammatica attualità. È ormai noto che alcuni dei successi più straordinari della Medicina, dalle moderne tecniche di assistenza ventilatoria ai dispositivi intravascolari per la somministrazione di farmaci o terapie nutrizionali, solo per citare alcuni esempi, sono chiaramente correlati con l’insorgenza delle ICA. Gli stessi farmaci che grandi successi hanno raccolto nella cura delle malattie infettive hanno fatto emergere limiti inquietanti, soprattutto per l’abuso che se ne è fatto negli ultimi anni.
Sebbene il tema abbia ormai stabilmente catturato l’attenzione dei mass media oltre che della comunità scientifica, vi è negli addetti ai lavori la piena consapevolezza che resta da compiere ancora un lungo percorso affinché le buone prassi vengano adottate capillarmente da tutti gli operatori e da tutte le strutture sanitarie e non solo da pochi professionisti virtuosi e da un numero limitato di realtà sanitarie votate all’eccellenza.
Con l’occhio rivolto alle vicende nostrane, è necessaria quindi una autentica chiamata alle armi da parte degli Organi istituzionali che si accompagni però ad adeguati finanziamenti, anche per sostenere i necessari cambiamenti che solo un una formazione costante degli operatori sanitari è in grado di conseguire.