Anno Accademico 2018-2019

Vol. 63, n° 4, Ottobre - Dicembre 2019

Simposio: Infezioni ospedaliere: un problema emergente

14 maggio 2019

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Le infezioni ospedaliere da Clostridium difficile: un problema emergente

L. Gasbarrone

Non parliamo di una nuova infezione. Fin dal 1893 era stata segnalata con il nome di “colite pseudomembranosa” a causa dell’aspetto della mucosa intestinale riscontrato negli esami autoptici. Nel 1935 è stato isolato per la prima volta il “Bacillus difficile” come agente responsabile, ma è solo degli anni ’70 il riconoscimento di una stretta relazione tra terapia antibiotica e colite pseudomembranosa. A pochi anni dopo, nel 1978, risale la scoperta della “tossina” come principale causa responsabile della sintomatologia clinica e poi l’introduzione della terapia.

Il Clostridium difficile (Cd) è un microrganismo Gram+, sporigeno, ubiquitario, largamente diffuso nel suolo, in acque, fiumi, piscine, verdure crude, anche se il suo principale serbatoio è l’ambiente ospedaliero, o meglio l’ambiente delle strutture sanitarie. È ritenuto responsabile del 10-20% delle diarree, del 50-70% delle coliti, di oltre il 90% delle coliti pseudomembranose associate alle terapie antibiotiche. È anche presente nel colon del 3% circa di adulti sani e nel 15-20% dei pazienti in terapia antibiotica: la sola sua presenza non è indice di malattia. La diffusione della malattia è enormemente facilitata dalla sopravvivenza delle spore per molti mesi nell’ambiente1.

Nell’ambito delle infezioni associate alle cure sanitarie, il Cd è causa del 70,9% di quelle a carico dell’apparato gastrointestinale, mentre germi come Stafilococco aureo, Klebsiella pneumoniae, Escherichia coli e altri sono solo sporadicamente presenti, con discreta variabilità nelle diverse nazioni; nell’ambito dei paesi europei, l’Italia si colloca al terzo posto dopo Inghilterra e Francia, seguita dalla Germania e dalla Spagna2.

Nel corso degli ultimi decenni, l’incidenza dell’infezione da Cd è andata progressivamente aumentando nel mondo intero: negli USA i tassi di infezione sono triplicati a partire dal 2000 nei pazienti ospedalizzati; in Italia si è passati da 0,3 episodi/10.000 giornate-paziente nel 2006 a 2,3 episodi/10.000 giornate/paziente nel 2011. L’incremento è stato nettamente superiore nelle fasce di età tra 61 e 80 anni e, anche se in lieve minor misura, oltre gli 80 anni. È verosimile che la resistenza alle terapie antibiotiche e le modificate caratteristiche di complessità dei pazienti possano aver avuto un ruolo nell’aumento dell’incidenza di questa infezione3.

Anche nella nostra realtà, in una casistica di 717 casi rilevata in quattro grandi ospedali di Roma (Policlinico Umberto I, Policlinico Tor Vergata, Policlinico Gemelli, Ospedale San Giovanni e Ospedale Sant’Andrea) e nell’ospedale di Latina i pazienti presentavano caratteristiche cliniche tipiche: età media 72 anni, nell’86% erano ricoverati in Medicina Interna, nel 93% si trattava di infezioni correlate all’assistenza, comorbidità importanti erano presenti in molti pazienti, il 74% aveva recentemente assunto antibiotici e IPP nell’83%, la mortalità ospedaliera è stata il 20%4.

L’aumento dei casi rappresenta quindi un “problema emergente di salute pubblica” correlata alla assistenza nelle strutture sanitarie con evidenti ricadute negative per il paziente e per le strutture stesse:

-    per il paziente poiché contrae una ulteriore patologia, infettiva, oltre quelle di cui è già affetto e che sono causa del ricovero in ospedale, per cui le sue condizioni cliniche ne risentono gravemente;

-    per il paziente perché dovrà essere sottoposto ad ulteriori terapie, non sempre scevre da effetti collaterali;

-   per il paziente, e per la struttura, poiché tipicamente questa patologia recidiva: dopo il primo episodio infettivo la possibilità di recidiva è già del 20%, si raddoppia alla prima recidiva, si triplica alla seconda recidiva e così di seguito5;

-    l’infezione da Cd svolge un ruolo permissivo nei confronti di ulteriori infezioni da germi emergenti (Candida, Klebsiella)6;

-    per la necessità di instaurare appropriata terapia medica, la degenza si prolunga con incremento dei costi, stimati di almeno 14.000 € a paziente;

-    i costi lievitano in caso di richieste risarcitorie per eventuale evoluzione negativa del caso clinico.

La trasmissione della malattia avviene tipicamente per via oro-fecale, quindi le mani di tutto il personale sanitario sono il principale veicolo di trasmissione, sia per contatto diretto con il paziente e/o con il materiale biologico contaminato del paziente stesso, sia per contatto indiretto attraverso effetti letterecci, oggetti del paziente o qualunque altra cosa da esso toccata nella stanza di degenza tipo maniglie, campanelli di chiamata, telecomandi, pareti, etc..

Ulteriori cause di trasmissione per via oro-fecale sono costituite dall’uso promiscuo di apparecchi sanitari non sanificati come sfigmomanometri, pompette per ECG, termometri, pulsiossimetri, o dal trasporto del paziente per esecuzione di esami diagnostici su carrozzine, barelle, ambulanze, ascensori, soprattutto quando il personale di assistenza non è avvertito preventivamente della presenza di un paziente con patologia potenzialmente trasmissibile. Ricordiamo appena come possano essere pericolose le lunghe permanenze nei locali promiscui dei Pronto Soccorsi quando di questa patologia non se ne ha neanche il sospetto. Esaminando le mani e le pareti della stanza di degenza di un paziente all’ingresso in ospedale, un recentissimo studio ha dimostrato che all’ingresso mani e pareti sono colonizzati da un organismo multiresistente (MDRO) rispettivamente nel 10% e nel 13,3%, ma durante la degenza si assiste alla colonizzazione da parte di almeno un altro MDRO rispettivamente nel 28,8% e nel 39,8% dei casi7. Questo rilievo ci deve far riflettere e ci pone importanti interrogativi circa le responsabilità negli ambienti sanitari.

All’ingresso in una struttura sanitaria un paziente non colonizzato da Cd può potenzialmente venire a contatto con le spore del Cd, verificandosi poi due ipotesi: nel primo caso il paziente è temporaneamente o permanentemente colonizzato, può disseminare le spore nell’ambiente ma non svilupperà sintomi di malattia; nel secondo caso può presentare i sintomi della malattia e disseminare le spore nell’ambiente8. L’evoluzione verso l’una o l’altra delle ipotesi dipenderà sia dalla tipologia del ceppo di Cd, in particolare dalla capacità di produrre tossine, sia dalle caratteristiche cliniche del soggetto, ovvero da fattori protettivi endogeni e dalla sua immunocompetenza9.

I ceppi tossinogenici del Cd producono due tossine principali: la tossina A (TcdA), che provoca secrezioni intestinali, e la tossina B (TcdB), con prevalente effetto citopatico, 1000 volte più potente della TcdA. Entrambe hanno potente attività citotossica, maggiore per la TcdB, ed enterotossica, maggiore per la TcdA. Agiscono modificando le guanosintrifosfato (GTPasi) sulle cellule della mucosa intestinale dell’ospite facilitando l’endocitosi delle tossine stesse. Inoltre, una tossina con attività ADP-ribosiltransferasica actino-specifica, tossina binaria (CDT) altamente virulenta, è stata identificata in alcuni ceppi di Cd, caratterizzando l’emergenza di un ceppo ipervirulento di Cd, PCR ribotype 027/North American pulse-field type 1 (NAP-1), che provoca coliti severe e alto grado di mortalità. È ipotizzabile che una mutazione genica abbia favorito l’insorgenza di questo ceppo ipervirulento altamente pericoloso10.

Quindi, una volta verificatasi l’ingestione delle forme vegetative del Cd o delle spore, mentre le prime vengono uccise nello stomaco, le seconde sopravvivono all’ambiente acido e, esposte agli acidi biliari nel piccolo intestino, continuano a germinare; il movimento dei villi intestinali facilita la progressione nel colon dove il Cd può quindi moltiplicarsi e aderire tenacemente alla mucosa9. Molti studi in letteratura hanno riferito di un ruolo determinante dell’albumina sierica in questo processo, rigettando l’ipotesi che l’ipoalbuminemia possa essere semplicemente conseguenza della diarrea proteinodisperdente provocata dal Cd: l’albumina è in grado di legare le tossine prevenendo la loro internalizzazione nelle cellule e proteggendo la mucosa dall’effetto citopatico. Quindi bassi livelli di albumina, quali possono essere riscontrati in pazienti defedati per altre patologie, possono favorire la progressione dell’infezione da Cd11.

Molti fattori correlati all’ospite, di seguito elencati, favoriscono l’infezione:

-  in primo luogo l’età > 60 anni, ma soprattutto > 80 anni, poiché per definizione gli anziani hanno minori difese immunitarie;

-  co-morbosità severe: neoplasie, insufficienza renale, diabete, malattie infiammatorie croniche intestinali (IBD), chirurgia del tratto intestinale o biliare;

- condizioni di immunodepressione per malattie concomitanti e/o terapie immunosoppressive in atto o pregresse;

- alimentazione con SNG o gastrostomia (PEG), sia per l’artificialità della nutrizione sia per le necessarie procedure manuali di assistenza;

-  l’ospedalizzazione protratta, specie in Terapia Intensiva (TI) ove pazienti gravi, spesso defedati e con molte patologie, sono portatori di molti presidi e quindi sottoposti a plurime manovre di assistenza, così come la dimora in strutture residenziali di pazienti anziani fragili.

Oltre ai fattori menzionati, devono essere ricordati ancora:

-  l’esposizione a precedenti terapie antibiotiche, specie se in associazione, in particolare con fluorochinolonici, cefalosporine, ampicillina, clindamicina o comunque con antibiotici ad ampio spettro capaci di modificare la fisiologia del microbiota intestinale: è ampiamente dimostrato che sia la durata della terapia antibiotica sia il numero degli antibiotici usati in associazione aumentano in modo esponenziale il rischio di infezione da Cd, ed oggi non deve meravigliare il riscontro di terapie anche con più di 5 antibiotici contemporaneamente e per più di 18 giorni in pazienti in TI12;

-  l’assunzione per lungo tempo di inibitori di pompa protonica (IPP): la soppressione spinta della secrezione acida si può associare ad una crescita eccessiva di batteri; il dato resta tuttavia da valutare, e in particolare non è noto se la sovracrescita batterica negli utilizzatori di IPP sia conseguenza della gastrite atrofica o sia un fattore eziologico favorente.

Dal punto di vista clinico distinguiamo:

-  forme lievi/moderate: con diarrea, ma senza segni sistemici di infezione, favorite dal soggiorno nelle strutture sanitarie, dall’uso di antibiotici e IPP, da chemioterapie, da alimentazione artificiale;

-  forme gravi: con diarrea e segni sistemici di infezione, prevalenti nei pazienti anziani, spesso dovute al ceppo ipervirulento NAP1/027;

-  forme gravi complicate: con diarrea, segni sistemici di infezione, ileo e megacolon, favorite, oltre che da quanto già descritto, da IBD e recente chirurgia del tratto intestinale;

-  forme recidivanti: si verificano entro 8 settimane dal termine di un efficace trattamento, in pazienti più anziani con comorbidità e maggiore gravità del primo episodio13.

Poiché le recidive dell’infezione sono possibili e più gravi del primo episodio, sarebbe importante conoscere i fattori di rischio predisponenti, per cui alcuni AA. hanno cercato di individuare dei fattori predittivi con cui costruire uno score di rischio, basato su età del paziente, persistenza della diarrea al 5° giorno di terapia, presenza della tossina al test diretto, precedenti episodi nell’ultimo anno di infezione da Cd14, 15. I pazienti a rischio di recidive sono anche quelli che più frequentemente vanno incontro a complicanze; il danno dell’epitelio intestinale determinato dall’infezione da Cd, dalle tossine e dai fenomeni infiammatori conseguenti può far sì che altri germi presenti possano superare la mucosa intestinale ed entrare in circolo. Una tipica “sindrome enteropatogenetica” è dovuta al passaggio in circolo di Candida e di Enterobatteri resistenti ai carbapenemi come la Klebsiella, per i quali sarà quindi necessario intraprendere terapie antibiotiche specifiche16, 17, 18. Quindi, oltre al tempestivo trattamento dell’infezione, è ancora più necessaria una tempestiva diagnosi, basata sulla clinica e sul laboratorio.

Dal punto di vista clinico la presenza di almeno 3 scariche di diarrea con feci non formate del tipo 5, 6, 7 della scala di Bristol, in assenza di altre motivazioni, deve far sospettare la patologia e indurre a prelevare il campione di feci, inviarlo entro un’ora al laboratorio per evitare la degradazione delle tossine, innanzi tutto per la ricerca della glutammatodeidrogenasi (GDH). Questo enzima è prodotto in elevata quantità sia da ceppi tossinogenici che dai non tossinogenici, quindi indicherà solo la presenza del Cd indipendentemente dal tipo; andrà eseguita la ricerca delle tossine A e B in PCR real time e la coltura per identificare il tipo di Cd.

Il trattamento dell’infezione è basato storicamente sull’impiego di Metronidazolo e Vancocina da soli o in associazione e in dosaggi variabili a seconda delle forme cliniche; da alcuni anni si è aggiunta la Fidaxomicina, antibiotico ad alto costo prevalentemente usato nelle forme gravi e resistenti19. Nella figura 1 sono riportati gli schemi terapeutici delle varie forme cliniche secondo le ultime linee guida della Infectious Diseases Society of America (ISDA) e della Society for Healthcare Epidemiology of America (SHEA) (Fig.1)20.

 

Fig. 1: Linee guida di terapia della infezione da Cd (McDonald LC et al, 2018)

 

Nuovi antibiotici sono in fase di studio in trials di fase II e III, ma nessuno al momento è ancora entrato nell’uso clinico21. Anche le ricerche sull’impiego degli anticorpi monoclonali hanno visto un limitatissimo uso del bezlotoxumab, capace di legare e neutralizzare la tossina B e recentemente approvato per la prevenzione delle recidive in pazienti ad alto rischio22. Sono in fase di studio anche i vaccini con tossine A e B inattivate sia per la prevenzione che per la terapia, ma al momento non entrati nella routine.

Negli ultimi anni ha invece avuto impulso determinante il trapianto di feci, o per meglio dire il trapianto di microbiota, allo scopo di ricostituire una flora microbica intestinale fisiologica. L’indicazione al trapianto è per i pazienti a rischio di recidiva o comunque dopo la prima recidiva. La procedura è ormai standardizzata nei centri autorizzati, e prevede una severa selezione del donatore che deve essere perfettamente sano e che è quindi sottoposto a tutta una serie di esami clinici e di laboratorio per escludere patologie infettive, metaboliche, autoimmuni, neoplastiche, IBD, etc. Le feci del donatore sono ugualmente testate, oltre che per la presenza del Cd, anche per enterobatteri, protozoi, elminti, germi Gram- MDR, VRE. Il protocollo di preparazione delle feci prevede la diluizione con soluzione fisiologica, la omogeneizzazione e la filtrazione del preparato, che viene poi instillato mediante sondino naso-gastrico o naso-duodenale-digiunale o mediante colonscopia, così da poter anche visionare le condizioni del colon, o per clistere o con una combinazione delle metodiche citate. Il ricevente viene in genere pretrattato con lavaggio del colon con macrogol per rimuovere le spore, somministrazione di Vancocina nei 4 giorni precedenti, loperamide per aiutare la ritenzione del materiale instillato23. Il costo della procedura è di per sé alto, considerando tutte le procedure di preparazione del donatore e del ricevente, ma verosimilmente inferiore al costo di una infezione da Cd complicata e recidivante che può andare incontro a complicanza chirurgica anche con esito fatale.

Alla luce di quanto esposto, appare chiaro come siano importanti tutte le misure di prevenzione dell’infezione e di prevenzione della diffusione che tutte le società scientifiche hanno emanato nelle loro linee guida e che dovrebbero costituire buona prassi di ogni struttura sanitaria20, 25. Nello specifico le più importanti raccomandazioni sono:

-     nel sospetto di infezione da Cd:

  • predisporre immediatamente gli esami su campioni di feci idonei;
  • isolare il paziente o attuare il cohorting (isolare nella stessa stanza pazienti con la stessa infezione);
  • mettere in atto tutte le misure specifiche per l’isolamento da contatto (uso di guanti e camici a perdere, lavaggio delle mani con acqua e sapone, piuttosto che uso di soluzione idroalcolica, prima e dopo le procedure di assistenza);
  • predisporre l’utilizzo di strumenti dedicati per il paziente (sfigmomanometro, etc);
  • utilizzare detergente sporicida per la disinfezione degli strumenti e per la disinfezione della stanza;
  • avvertire servizi o reparti dove il paziente viene trasportato per esami in modo da predisporre idonee misure di prevenzione;
  • mantenere l’isolamento e le misure di isolamento da contatto fino a 48 h dopo la risoluzione della diarrea o preferibilmente fino alla dimissione del paziente.

Le infezioni correlate all’assistenza rappresentano un problema emergente di salute pubblica; tutte le strutture sanitarie dovrebbero essere consapevoli della tipologia dei germi prevalentemente presenti e delle rispettive resistenze per poterle contrastare con idonee misure. Appare indispensabile una corretta politica di uso degli antibiotici, non solo nelle strutture sanitarie ma nella popolazione generale26. L’analisi corretta dello status quo, la costituzione di team multidisciplinari con infettivologi, microbiologi, igienisti e farmacisti consente di raggiungere l’obiettivo, come è stato dimostrato da quanto messo in atto nel Policlinico di Modena tra il 2013 e il 2018: il lavoro multidisciplinare di un team così composto ha permesso di ridurre il tasso di resistenza della Klebsiella multiresistente dell’89% e la spesa per gli antibiotici del 52%.


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