Anno Accademico 2019-2020

Vol. 64, n° 1, Gennaio - Marzo 2020

Simposio: La modernità liquida e il processo di invecchiamento. Una ricerca sulla categoria demografica dei tardo adulti

10 dicembre 2019

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Giovani e Tardo Adulti nella Post Modernità

M. Federici

La categoria dei “tardo adulti” sposta sempre più avanti l’asticella che segna il confine tra “adultità” e “anzianità” dai 65 anni ai 70, ora ai 75 a fronte di una aspettativa di vita tra le più “lunghe” della storia umana. Con 2 milioni di italiani ultra ottantacinquenni, l’Italia è il paese più longevo d’Europa e detiene con la Francia il record dei centenari tutti nati ormai nel 1900. Oltre sette milioni di italiani godono di una buona forma cognitiva e costituiscono un gruppo reale e vitale definito dalla locuzione “Active aging, happy living”, un invecchiamento positivo, in buona salute mentale e fisica tanto da richiedere una ri-definizione del termine “vecchiaia”.

Studiando l’invecchiamento in due distinti momenti: a livello di coscienza intesa come comprensione dei rapporti tra il proprio corpo e il mondo esterno; a livello di linguaggio la cui comprensione permette di unire in un’unica narrazione autobiografica, memorie, emozioni e pensieri creando l’identità.

Le parole chiave del percorso da seguire sono: memoria

                                                                                    Corpo

                                                                                    Identità

nella traccia lasciata da S. Agostino che ha scritto che la memoria ha il potere per creare opinioni, noi abbiamo bisogno di comunicare le nostre opinioni, i nostri ricordi, le nostre emozioni.

Non è sufficiente fornire le risorse, diritti formali e beni, perché i soggetti siano in grado di convertirle in capacità di azione e auto-determinazione, utilizzandole a proprio vantaggio. È necessario che le politiche pubbliche di livellamento delle risorse da garantire a tutti i cittadini siano accompagnate da politiche tese a potenziare le competenze individuali e la disposizione all’attivazione delle capacità personali e a migliorare le condizioni del contesto sociale e familiare promuovendo l’esercizio della libertà: bensì una libertà sostanziale, che dia ai soggetti l’opportunità di sviluppare le proprie capabilities, conseguire la capacità di trasformare i beni primari, le risorse, in possibilità di perseguire i propri obiettivi, promuovere i propri scopi, mettere in atto stili di vita alternativi, progettare la propria esistenza secondo quanto ha valore per sé come dimostrato da Sen1. Questa libertà, espressione di responsabilità e di possibilità di autorealizzazione, è emancipazione da vincoli ascritti e da appartenenze obbligate, è garanzia di auto realizzazione e di possibilità di far valere la propria posizione nella programmazione, nell’erogazione e nella fruizione dei servizi. Nelle parole di Sen la realizzazione di questa tipologia di libertà è una dimensione irrinunciabile dello sviluppo. Si può così affermare che il benessere individuale dipende, oltre che dal fattore economico, che certamente rende fattibili le opportunità di scelta di ciascuno, dalla libertà dei soggetti, o meglio dalle libertà declinate al plurale a cui essi hanno accesso, non misurate solo sul piano normativo, garanzia di un diritto riconosciuto, ma sul piano dell’azione. Il benessere personale non è dato unicamente dalle condizioni materiali dell’esistenza e dalla garanzia dei diritti politici, civili e sociali, anche se entrambe ne sono prerequisito irrinunciabile perfino per formulare i bisogni, bensì anche dalla possibilità di esserne responsabili in prima persona. La “capacitazione sociale” implica l’opportunità dell’individuo di identificare e raggiungere gli obiettivi migliori per lui, per realizzarsi pienamente come essere umano2. Dalla definizione dei “diritti di capacità” passa l’equità e la giustizia sociale. Laddove ciò non si realizzi, si verifica la disuguaglianza, frutto non solo della diseguale e pregiudizievole distribuzione delle risorse, ma anche della diseguale capacità di sfruttarle a proprio vantaggio. L’importanza della relazione e i suoi aspetti critici nel particolare momento socio culturale che viviamo sono alla base della riflessione che cercherò di fare. Una relazione (dal latino religo= lego, tengo insieme) è tale se stabilisce, mantiene un rapporto tra attori sociali. La vita umana è nella relazione in cui ciascuno si trasforma senza maturarsi, ha scritto Eduard Glissant, e perché una relazione esprima la capacità di rapportarsi all’altro è necessaria una funzione di “ruolo” e di aspettative di ruolo, di comportamenti legati a ciò che gli altri si aspettano da noi. Relazionarsi e comunicare sono attività socialmente orientate alla base del vivere sociale, definiscono e sviluppano i rapporti tra persone e contribuiscono alla creazione dell’identità, alla trasmissione dei valori e delle culture, all’affermazione del proprio sé, alla conservazione della memoria. La comprensione dei rapporti tra il proprio corpo e il mondo esterno permette, attraverso il linguaggio, di unire in un’unica narrazione autobiografica, memorie, emozioni, pensieri. In questo ambito il contributo delle persone agées è determinante. Comunicare trae origine dal latino cum moenia e communis agere alla cui base c’è il linguaggio condiviso e la memoria in ordine inverso.

Si può ipotizzare una comunicazione in assenza di linguaggio (es. un abbraccio) ma non oggetti sociali privi di memoria (es. la scrittura, i documenti, ma anche i computers, i telefonini, gli archivi etc.). La scrittura non è semplicemente un promemoria, come credeva Platone, ma un’attestazione dello status sociale così come la carta d’identità non ci ricorda chi siamo ma certifica agli altri chi siamo. È importante analizzare questa dimensione per comprendere il mondo dei giovani e quello delle persone agèes in Europa oggi. Michel De Montaigne ha scritto che “le leggi della coscienza che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine”3. Televisione e vita quotidiana oggi rappresentano un ambito che modifica la concezione e la percezione del sé. I mass media, la radio, le televisioni tra i beni tradizionali comunemente usati e il computer, il video-registratore, il DVD, la TV satellitare, la Playstation, l’IPOD, beni più innovativi si inseriscono nelle dinamiche generazionali, nei rapporti di genere, nella organizzazione dello spazio e del tempo, nella costruzione del sé. Spingono a identificarsi e conformarsi in standards e modelli di consenso e di consumo prestabiliti incollando alla realtà artificiale, bloccando gli spazi, saturando lo spazio simbolico con fiction e reality. Il corpo si configura come interfaccia nelle comunicazioni umane e intergenerazionali, depositario di un complesso di significati che vanno decodificati. Il rapporto mente/cervello, Mind/Brain, permette di sentire nel modo più diretto attraverso il corpo l’impatto dell’azione altrui. La componente più significativa dell’essere umano, base della sua identità e della sua individualità, non ha sede solo nel sistema mente/cervello ma nell’intero corpo, nella sua capacità di sentire, di parlare e di agire attraverso il corpo, il cervello e la mente divengono sociali. Nella società tradizionale la maggior parte degli schemi circolanti nella mente di un attore sociale derivavano in gran parte dalla prima socializzazione, la famiglia, da istituzioni quali la chiesa o la politica e/o il sindacato locale attraverso altri esseri umani e, solo in piccola parte, attraverso testi scritti. Nella società della comunicazione, la maggior parte degli schemi nella mente dell’essere umano sono formulati e veicolati da media, supportati da una tecnologia specifica con linguaggio globale, una sorte di global english. Tuttavia cervello-mente-comportamento possono essere con Morin definiti unitas-multiplex4.

Già Tarde aveva dimostrato che il collante delle società umane è l’imitazione, qualcosa che non suppone una accettazione consapevole ma piuttosto che si nasce molto giovani in un mondo molto vecchio e ci si adegua a usi che si impongono alla nostra coscienza prima che ce ne rendiamo conto e che soltanto più tardi siamo in grado di accettare o rifiutare, da qui la consapevolezza di sé. Questo costituisce il nodo critico dell’incontro/scontro tra le generazioni. Essere italiani, giovani o anziani ha senso se la nostra identità è contemporaneamente legata alle fasi della vita, al nostro corpo che muta, alle nostre radici familiari, locali, regionali, nazionali, storiche e linguistiche, al nostro apparato culturale di cui è parte la lingua ma soprattutto le produzioni culturali della lingua, la letteratura, la musica. Nello specifico del vivere l’esperienza delle “Università delle Tre età” si traduce in studio e interesse, utilizzo delle nuove tecnologie come strumento, capacità di relazione tra le generazioni per fornire, da un lato la costruzione dell’identità, dall’altro conservare la memoria, la cultura e le tradizioni rimettendo in gioco il ruolo dell’anziano e la sua funzione di trasmettitore di cultura e di creatore di generi identitari, costituendo così il punto di incontro tra le generazioni e la modalità di costruzione di senso dell’esistenza (identità) sia per i giovani e sia per gli anziani attraverso il recupero della memoria, patrimonio culturale, giacimento di ricchezza in larga misura inespressa. In questo scenario il life long learning costituisce una prospettiva di grande spessore sociale, culturale, economico e last but not least, politico. Le persone anziane sono infatti cittadini portatori di diritti a pieno titolo che possono e devono rappresentare e rappresentarsi, comunicare e comunicarsi con processi relazionali tecnicamente adeguati.

Indice di vecchiaia in Umbria,199,3, 7° regione in Italia

Nelle società occidentali l’invecchiamento della popolazione costituisce il fenomeno demografico di maggiore rilievo della fine del XX secolo ed ancor più dei primi decenni del XXI, con conseguenze molteplici, diversificate, incisive e diffuse che cambiano con il variare dell’età dell’individuo. Il fenomeno dell’aumento della durata media di sopravvivenza dell’uomo, l’aspettativa di vita che dal dopoguerra ad oggi è addirittura raddoppiata e sembra destinata ad aumentare ulteriormente. A questo fenomeno va sommata una forte diminuzione della mortalità infantile, che si accompagna ad una drastica caduta del tasso di natalità, di cui l’Italia porta il primato che prefigura scenari con profonde alterazioni di «equilibri millenari». Queste trasformazioni demografiche, sono fenomeni in cui il cambiamento, che era stato per molto tempo lento e graduale, si è imposto nell’arco di qualche decennio, con un’accelerazione troppo rapida5.

«La popolazione invecchia a ritmi ancor più veloci rispetto alle stime»6, per cui ci avviamo, in Europa e soprattutto in Italia, in una realtà con sempre meno giovani e sempre più anziani; si riscontrano «più over 60 che under 30»7. La «transizione demografica» ha ribaltato completamente i valori caratteristici degli equilibri di antico regime, giungendo agli attuali bassi valori, tanto di mortalità, che di natalità, due dinamiche fondamentali nella vita della popolazione, destinato a mantenersi nel tempo. Questo aggraverà il peso sui sistemi di protezione sociale, al punto di mettere in discussione la capacità del nostro Welfare di garantire agli over 65 un sostegno adeguato con problemi nel settore previdenziale e assistenziale. Si tratta di un fenomeno «in Italia tanto previsto, quanto imprevedibile nella sua accelerazione»6. Le previsioni ci dicono che la componente anziana sarà l’unica fascia d’età che continuerà a crescere e lo farà in modo molto sostenuto, grazie anche ai progressi della prevenzione e della sanità. «Anziché parlare di invecchiamento della popolazione, sarebbe più corretto utilizzare l’espressione “vita allungata” perché è la longevità che cresce. «Demograficamente questo è certo il secolo dei nonni»8 e dei bisnonni, due generazioni con vissuto ben diverso: quattro nonni (due coppie di nonni) possono avere in totale un solo nipote. All’inizio del XX secolo meno di una persona su dieci arrivava a superare gli ottant’anni, all’inizio del XXI secolo tale meta è diventata, per la prima volta nella storia dell’umanità, un’impresa alla portata dei più, oltre la metà degli uomini e oltre il 70% delle donne9, 10. L’aspettativa di vita è in costante aumento e acquista da uno a tre mesi ogni anno prolungando non soltanto la vita, ma anche la nostra vitalità. Probabilmente nel 2050 avremo non una società di vecchi, ma di «giovani-vecchi» (tra i 60 e gli 80 anni), che si distinguono dai «grandi-vecchi» (gli over 80). I protagonisti della società odierna sono i cosiddetti «nuovi anziani», che vivono socialmente, culturalmente e attivamente la loro terza età, con grandi probabilità di mantenersi in buona salute, economicamente autonomi, fisicamente curati e con una buona vita sociale. La quarta età, quella della vera senilità, della necessità di aiuto, si è spostata in avanti agli over 80. Si tratta di un arco di età, all’interno del quale l’anziano attraversa una realtà complessa ed eterogenea, dato che lo scorrere del tempo non ha lo stesso effetto su ogni persona. La popolazione anziana, costituisce un gruppo eterogeneo arrivando a tre sottogruppi: gli anziani più giovani (da 60 a 69 anni), il gruppo di mezzo (da 70 a 84 anni) e gli anziani di età molto avanzata (da 85 in su). Questa segmentazione permette di percepire meglio le problematiche e valutare la situazione come una risorsa, «dando vita agli anni e non solo aggiungendo anni alla vita»11, come spesso ripeteva Rita Levi Montalcini. Un processo di cambiamento epocale che possiamo sintetizzare con tre “i”; «inedito, incisivo, irreversibile»: inedito, perché si tratta di un fenomeno senza precedenti nella storia dell’umanità. Nelle società tradizionali gli anziani sono sempre stati una ristretta minoranza con un peso molto marginale. Oggi invece «essere ricchi di età» è la norma. Incisivo e pervasivo, perché destinato ad agire marcatamente in tutti i paesi del mondo e in tutte le classi sociali, con conseguenze inattese; irreversibile, perché questo fenomeno progressivo e inarrestabile, prodotto dal continuo aumento della vita media e dall’accentuato calo della fecondità altera la composizione per età della popolazione in maniera nuova, destinata a diventare strutturale e permanente nel tempo: un paesaggio antropologico, economico e sociale59 che mette in discussione non solo la struttura economica e sociale del paese, ma anche la visione della vita e del ciclo della vita, il sistema di relazioni interpersonali e intergenerazionali, un processo destinato a cambiare la società. A questo proposito l’Umbria presenta un indice di vecchiaia di 199,3 a fronte di un indice del sistema Paese di 168,3 (elaborazione dati ISTAT del 2017). Gli attuali tratti dell’età anziana presentano varie tipologie: la vecchiaia biologica, quella psico-relazionale e quella sociale. La vecchiaia biologica è determinata dal processo d’invecchiamento che investe tutta la vita della persona ed è caratterizzata da stadi successivi dello sviluppo del corpo e della personalità. «Si comincia quindi a invecchiare ancor prima di nascere e si invecchia ogni giorno della nostra vita»11. «La vecchiaia biologica si prolunga nel tempo»12, anche se con aspetti di criticità, va sicuramente considerata come esperienza positiva, che modifica “i modi e i tempi” di transizione verso la vecchiaia e delinea un’immagine nuova e più concreta del mondo degli anziani, ridefinendo l’identità e il ruolo dell’anziano nelle società contemporanee, con la prospettiva dell’activity. Il processo biologico che trasforma il nostro corpo e la nostra mente, è diverso per ogni individuo ma irreversibile, tutt’al più modulabile. La vecchiaia socio-relazionale può essere causata da un insieme di eventi e situazioni che mettono alla prova la forza psichica delle persone e che possono provocare una vera e propria crisi d’identità, in un processo inevitabile di riduzione di una “omeostasi psicologica e spirituale”. L’anziano positivo e attivo, con capacità di reagire e assorbire le difficoltà, mobilitando meccanismi di difesa e strategie di adattamento, guarda con soddisfazione alla propria vita, vive con dignità la vecchiaia e conquista la saggezza. In caso contrario, la persona tende a rifiutare il suo passato e ad aspettare con terrore la morte, il “dolore della mente” che da una indagine del Censis, una sofferenza pervasiva che può condizionare la qualità e la durata della vita. Queste considerazioni comportano il cambio di prospettiva nell’analisi e nella governance del fenomeno, fenomeno che al proprio interno comprende individui pienamente autonomi ma anche persone con ridotte capacità fisiche e cognitive. Si diventa anziani quando si va in pensione, quando si compiono 75 anni, quando si ha accesso agli sconti sui mezzi pubblici, ingressi al teatro, al cinema, ai musei, ecc., a prestazioni mediche e sanitarie gratuite o anche sulla base di situazioni esistenziali non ben definibili poiché il percorso di vita non è più lineare, non circolare ma frattale, multidimensionale legato anche al fatto che ogni individuo percepisce sé stesso in relazione e in differenziazione con gli altri. Quindi non necessariamente legato ad un determinato stato della vita che evidenzia come anche il nostro Welfare State si sia invecchiato insieme alla popolazione. Sebbene nascano più maschi che femmine, il rapporto uomini-donne diminuisce durante tutto l’arco della vita. Oggi, negli ultracentenari, questo rapporto uomo-donna diventa addirittura 1:413, dati che rivelano che l’aspettativa di vita favorisce quella delle donne: “con il genere femminile che costituisce [quasi] il 90% dei centenari e degli ultracentenari- con 110 o più anni d’età”14. È un fenomeno demografico emerso per la prima volta tra le persone nate alla fine dell’Ottocento15, grazie alla prevenzione delle malattie infettive, al miglioramento dell’alimentazione e in generale, alle migliori condizioni di vita. La divergenza nella mortalità tra uomo e donna fu riscontrata, infatti, in un primo studio nel 1880 dalla National Academy of Sciences negli USA. Uno dei motivi di questa divergenza è il fumo di tabacco, che ha inciso per circa il 30% della mortalità “in eccesso” degli uomini nella fascia di età tra 50 e 70 anni. Sulle cause di longevità delle donne sono state avanzate diverse possibili spiegazioni di ordine genetico, ormonale e comportamentale. La differenziazione tra uomini e donne si riscontrava tra le generazioni a cavallo tra i due conflitti, in cui gli uomini, coinvolti durante il periodo del boom economico (1950-1960) nell’attività produttiva, erano più soggetti ai maggiori rischi legati all’ambiente di lavoro e ai processi produttivi contraendo abitudini nocive alla salute, come il fumo di sigarette. Le donne poste ai margini del mondo del lavoro nel ruolo di casalinga erano così protette dagli stili di vita più nocivi. Quella dei “nuovi anziani” è una “nuova realtà”; l’età anziana ha subito un vero stravolgimento. I segni dell’invecchiamento sono più rallentati, abbiamo imparato a volerci più bene. Si hanno oggi settantenni che sono ancora dei tardo-adulti, che tengono il passo coi giovani e dopo i settantacinque anni qualcuno fa ancora il doppio lavoro, perché oggi, la vecchiaia, quella vera, può attendere, dato che si mantiene più a lungo un buon equilibrio fisico e mentale, che si associa a salute, medicina e prevenzione. Anche l’orologio sessuale sta cambiando. Nell’anziano c’è la capacità di una carica affettiva che fa nascere amori senili. Una volta innamorarsi a tarda età era quasi impensabile, oggi aumentano i matrimoni dopo i sessant’anni e per contro anche i divorzi dopo questa età. Le donne riescono ad affrontare una gravidanza anche a più di sessant’anni. Gli anziani nell’era digitale sono attivi sui social network e media in generale, perché permette loro di sentirsi liberi, anche con fini relazionali.

La figura dell’anziano ha assunto diverse connotazioni nel corso della storia e, a seconda delle condizioni economiche, sociali, religiose e culturali, ha oscillato tra il rivestire un ruolo centrale nella famiglia e nella società, venerato e rispettato, e l’essere considerato come un peso, disprezzato ed emarginato, obsoleto. Nell’antichità e nei recenti secoli passati i Grandi Vecchi rappresentavano un numero del tutto esiguo della popolazione […]. La vecchiaia era considerata un dono divino e come tale circondata da venerazione, rispetto ed anche da timore. Per alcuni popoli antichi la figura dell’anziano era sacra, portatrice di sapere e di esperienza nel saper cacciare e coltivare. Gli antropologi hanno registrato la diffusa abitudine nelle società primitive a uccidere gli anziani quando diventavano un peso per gli altri. Nei periodi di guerre, di carestie, di epidemie, la riduzione del numero degli anziani determinò un ritorno dei vecchi alle posizioni di prestigio e di potere. Con la riscoperta di valori esaltanti la bellezza giovanile, l’anziano tornava ad essere disprezzato come figura marginale. Nel corso della storia, gli anziani utili alla società, come portatori di memorie e di esperienza, sono stati sempre trattati con più rispetto, mentre i vecchi di basso ceto sociale e non sapienti, venivano emarginati e abbandonati. Gli anziani del Settecento ebbero un miglioramento della loro situazione sociale: in Inghilterra nascono i primi ospizi, la Chiesa e le associazioni di carità sostengono i vecchi e i poveri. Nell’Ottocento in Francia nasce la prima forma di pensione e poi nasce anche la branca della medicina completamente dedicata alla tarda età, la Geriatria.  Nel Novecento la figura dell’anziano cambia per certi aspetti, viene rivalutata, si enfatizzano le sue conoscenze, le esperienze ed i valori che essa racchiude e trasmette alle generazioni future. A partire dagli anni Venti, l’anziano torna ad essere percepito come un problema sociale. Sul finire della Seconda Guerra Mondiale, con il diffondersi di uno stato di benessere e ai progressi ottenuti nel campo medico e scientifico, nell’alimentazione, nell’igiene, nelle abitudini di vita, si comincia ad evidenziare un significativo allungamento dell’esistenza. Con la fine del XX secolo si ha poi un ritorno a considerare la vecchiaia come un periodo della vita in cui non si può essere d’aiuto alla comunità ma solamente di attesa della morte, atteggiamento che lega il valore che si dà all’individuo alla sua “produttività” e “utilità” per la società e la famiglia, concetto utilitaristico dell’essere umano, nella società industrializzata”, dove l’anziano, soggetto che non produce, perde il suo valore. Dal principio della produttività, tipico della modernità, si passa poi al “consumismo” della postmodernità, e dinanzi a una società intransigente e competitiva, in un’epoca in cui lo sviluppo tecnologico è rapido, le persone che non riescono a stare ai tempi con esso, rischiano di restare indietro. In questo clima è difficile per l’anziano trovare una collocazione, a disagio in un mondo votato al cambiamento, dove il vecchio è sempre sorpassato dal nuovo, dove anche il valore dell’esperienza si è indebolito in favore dell’innovazione.

Nella postmodernità la vecchiaia rimanda più al mondo dell’avere che a quello dell’essere. Oggi gli anziani sono i protagonisti dell’universo dei consumi15, un’opportunità di business articolata intorno alle diverse fasi dell’invecchiamento per soddisfare servizi per tempo libero e per la cura del proprio corpo, ma anche rivolta alle esigenze dell’anziano passivo disabile. Una parte degli anziani attuale costituisce un gruppo di consumatori relativamente più affidabile rispetto a quelli più giovani, grazie a una maggiore garanzia di continuità del reddito. Si parla molto del problema degli anziani, così come ieri si parlava di quello dei giovani. Se il «secolo XX è stato […] quello della grande crescita demografica, il XXI secolo è quello del forte invecchiamento»10, il “secolo dei nonni” e anche dei bisnonni. L’anzianità si è rivelata essere un “fenomeno di massa” che prevale nel mondo femminile, dove la longevità si accentua col crescere dell’età. La figura dell’anziano sta assumendo un ruolo di protagonista, più per il fenomeno del numero crescente, che per il suo valore come persona e come cittadino. Data la variabilità e l’individualità che caratterizzano oggi i processi di invecchiamento, anche le problematiche etiche si presentano una gamma differenziata di situazioni che si accrescono e si incrociano con quelle sociali e sanitarie. Le loro vite sono a volte minacciate perché essi sono visti come un “ingombro” per la società date le preoccupazioni che possono causare, le cure di cui necessitano e il costo che creano17. L’“etica dell’invecchiamento” sta rivalutando tale dignità negli anziani, portatori preziosi di esperienze e di professionalità, utili a tutte le età, che vanno apprezzati e valorizzati. Per questo «è necessario coinvolgerli […], per quanto possibile, nella tutela del bene della vita, che è un valore per la persona, per la famiglia e per la comunità»17. Gli anziani stanno aumentando in maniera esponenziale. Oggi varie istituzioni, come per esempio l’Università della terza età, per molte persone sono state un aiuto a programmare gli anni di vita a disposizione dopo l’uscita dal lavoro produttivo per non cadere nell’insignificanza sociale e diventare bisognoso di assistenza con i conseguenti oneri per la società (Dal Ferro, 1985, 33-52)19. «La grande paura, quella che non vogliamo neanche pensare, è sentirsi definitivamente vecchi, è la paura della non autosufficienza, del decadimento fisico e mentale. Solo quelli sono i veri vecchi»16. Sembra che ad invecchiare siano solo gli altri. Nella prima fase dell’anzianità si assiste ora a una rincorsa all’esaudimento dei desideri (viaggi, sport, spettacoli, mostre, hobby, ecc.) e a possibilità operative con lavori gratificanti, utili e di responsabilità: è l’età del “tempo disponibile” dei senior, con cui l’età anziana può ben trasformarsi anche in un “tempo del dono e della condivisione”. Questa «dimensione del prendersi cura, del dono, può rappresentare un nuovo e valido legame generazionale e intergenerazionale»16. Fino «agli anni Cinquanta e Sessanta, erano i figli che aiutavano i genitori, oggi sono i genitori ad aiutare i figli in caso di difficoltà. I flussi finanziari si sono invertiti»20: c’è un esercito di nonni che si prende cura dei nipoti a tempo pieno. Oggi una larga componente del volontariato italiano è anziana a differenza di un non lontano passato, dove il protagonismo civile e solidaristico era lasciato soprattutto ai giovani. La nuova generazione esprime difficoltà nel confrontarsi con l’immagine della vecchiaia in un contesto socioculturale che enfatizza la prospettiva di una gioventù perenne e tende a cancellare gli aspetti più problematici legati alla malattia e alla morte, insomma al senso del limite21.

AGEISMO

Il termine ageismo deriva dall’inglese “ageism”, coniato nel 1969 dal gerontologo Robert Neilbuttler, spinto dalla rabbia per le ingiustizie dettate dall’età, a fronte di un gap generazionale. L’ageismo può essere inteso come una sistematica stereotipizzazione e una discriminazione sociale contro le persone, perché sono vecchie e vengono qualificate in rapporto all’età, così come il razzismo e il sessismo squalificano una persona in base al colore della pelle e al genere. L’ageismo è una discriminazione celata, una vera e propria forma di abuso, così insita nella società, da non essere neanche considerata una discriminazione. A livello sociale e culturale si evidenzia un rifiuto per l’anzianità, associato a debolezza, invalidità e malattia, in un mondo in cui chi non è produttivo è “inutile” e deve essere messo da parte. L’atteggiamento negativo nei confronti dell’età e dell’invecchiamento, è stato e rimane profondamente radicato nella storia globale: “la vecchiaia è una malattia” così definita da Seneca (4 a.C. – 65 d.C.). Nelle società preistoriche e agricole tradizionali, le poche persone che vivevano a lungo erano maestri di vita e allora si dava potere ai più vecchi. Questa tradizione orale ha ricevuto un duro colpo con l’invenzione della stampa. «Fino a quando l’età avanzata è rimasta relativamente rara, i più vecchi hanno mantenuto un ruolo sociale, come depositari di importanti capacità e informazioni. […] I più vecchi reggevano le redini e […] i giovani dovevano invecchiare per accedere a posizioni di autorità»22.

Con la società dei consumi prevale la cultura giovanile e con essa il “culto della giovinezza”, la gerentofobia, la paura di invecchiare, i giovani, negli anni sessanta e settanta, prendevano posizione verso una divisione generazionale. Lo status di anziani è radicato non solo nellecircostanze storiche ed economiche ma anche nelle paure umane più profonde, nelle vulnerabilità inerenti l’età avanzata, la perdita in alcuni casi di mobilità, di visibilità e di indipendenza; passaggi naturali ed inevitabili. Spesso l’anziano viene “messo in panchina”. La discriminazione contro gli anziani, è più evidente nei confronti della donna anziana, in rapporto alla figura dell’uomo anziano, che a volte può essere definito “interessante”.

L’ageismo è un pregiudizio che si radica nella negazione che diventeremo vecchi. La sua peculiarità è l’insistenza irrazionale che i più vecchi sono gli Altri, non Noi, neppure fra anni, e facciamo molto per allontanarci da quel futuro, perciò ci si sforza di sembrare più giovani, sia per il desiderio di proteggersi dalla discriminazione, sia per un disgusto interiorizzato. I giovani odiano oggi ciò che diventeranno domani: una forma di negazione. I più vecchi tendono ad identificarsi con i più giovani, tanto da sentirsi tali. L’ageismo permette alle generazioni più giovani di vedere i più vecchi differenti da loro, quindi cessano […] di identificare gli anziani come esseri umani. I vecchi sono solo gli altri, ma quegli “altri” sono i loro futuri sé. La discriminazione, e non l’età o la disabilità, è la barriera a una piena partecipazione alla vita civile, dove però sono così profondamente radicati stereotipi che negano spesso ai vecchi capacità e dignità.

A questi si lega il linguaggio.

ELDER SPEAK è il termine coniato da Becca Levy, Università di Yale, per indicare il linguaggio con cui ci si rivolge agli anziani “tesoro”, “giovanotto”, “figurina bella”, ecc., in ospedale, in famiglia, nelle case di riposo, ecc. Questi vezzeggiativi, irrispettosi e condiscendenti, sono AGEISMO, discriminazione in base all’età. L’ ELDER SPEAK bolla l’anziano come incompetente, quasi “non persona”, ne limita le speranze e la possibilità di uno stile di vita da lui stesso, facendo perdere autostima e favorendo la depressione, fattori che isolano pericolosamente. Il nome e il cognome sono importanti ai fini identitari. Inoltre chi vive meglio fa più volontariato e chi fa volontariato vive meglio ed è più soddisfatto dei rapporti interpersonali, della propria salute e della qualità del tempo libero. Si dovrebbe rielaborare una “voglia di comunità”, dove i membri non siano estranei, intessuta di comune e reciproco interesse, dove poter contare sui valori di sicurezza e libertà, con la responsabilità di garantire il pari diritto di essere considerati esseri umani e la pari capacità di agire in base a tale diritto; libertà come diritto di autonomia, di autoaffermazione, senza però sfociare nell’individualismo. «In tempi di salvaguardia dell’IO, ciò implica ritrovare […] la possibilità di pensare ad esplicare un NOI […] che apra alla condivisione mantenendo l’unicità elaborativa della propria esperienza»23: in una società più giusta, più responsabile.

Il sentimento principale che affligge l’uomo postmoderno è il disagio per una “instabilità futura”, dovuta alla perdita di una propria identità stabile e duratura. Bauman utilizza figure come quella del «pellegrino”, simbolo dell’età moderna, […] che costruisce la sua vita […] conscio che domani ci sarà un futuro»24. Di fronte a una realtà troppo flessibile, che non permette di costruire qualcosa di stabile e duraturo nel tempo, al pellegrino subentra il “vagabondo”, con la sua mancanza di radici e stabilità e la perdita di identità crea una confusione, una sorta di “nomadismo identitario”.

«La figura emblematica della postmodernità, e forse la più significativa, è quella dell’adulto bambino e del bambino adulto, poiché il tratto più caratteristico di questo tempo è quello dell’affievolirsi degli attributi specifici e dell’uno e dell’altro. […]. Le età della vita si sarebbero ridotte a due: la primissima infanzia da un lato e la vecchiaia dall’altro»24. Il processo di crescita sembra non avere più riti di passaggio, con la rottura dell’appartenenza con la precedente età; si vive in una sorta di continuità, che rischia condurre l’individuo allo stazionamento in una fase del percorso evolutivo del ciclo di vita, o a un’erranza identitaria, che può portare anche ad aprirsi al mondo, ad uscire dal proprio io, per incontrare l’altro, «spinti dall’innato bisogno/desiderio di autorealizzazione». Cercare nuovi equilibri tra etnie, categorie, generazioni: questa la possibilità per ristabilire i legami sociali e uscire dal disagio, riconoscersi collettivamente e ricollocarsi nel proprio tempo e produrre arricchimento sociale in uno scenario di relazione tra le generazioni»16. Ulrick Beck (1944-2015) utilizza l’espressione “società del rischio e dell’incertezza”, per richiamare l’attenzione sui cambiamenti, nella vita dei singoli e delle società peculiari nella società postmoderna, che derivano dall’avere perso quelle sicurezze garantite dagli ancoraggi alla tradizione e ai valori comunitari e dalla conoscenza scientifica, “Società del rischio” significa vivere in un mondo fuori controllo, non c’è nulla di certo ma soltanto incertezza e insicurezza, per la minaccia incombente e onnipresente delle guerre e dei terrorismi, con la prospettiva aberrante della distruzione dell’ecosistema con lo sguardo rivolto ad orizzonti ristretti, all’immediato, al breve termine: se il domani inquieta è meglio non guardarlo. In questa Beck definisce una “seconda fase della modernità”, dove l’incertezza si accompagna all’incapacità di trovare nuovi punti di riferimento. Si tende a non voler prendere atto dei processi destinati a divenire traumatici, come l’eccessivo invecchiamento della popolazione, il surriscaldamento globale, le migrazioni dei popoli, elementi che porteranno effetti incisivi sulle nostre condizioni di vita. I problemi «sembrano lontani da noi e allo stesso tempo molto vicini, sono visibili e contemporaneamente evidenti nei loro effetti e la coscienza che nessun uomo comune ha potere su di essi, determina tanta insicurezza, precarietà e ansietà»25, al punto che si preferisce non pensarci seriamente e si continua a vivere in una sorta di “accondiscendente rassegnazione”. La rivoluzione telematica, i processi di globalizzazione e la crescente mobilità espongono a continue trasformazioni, dove si incrociano e si scontrano diversità culturali e religiose, dove le relazioni si fanno sempre più rarefatte, virtuali, complesse, obiettivo essenziale dell’educazione è apprendere a relazionarsi positivamente con gli altri e con il mondo». Solitudine, scoraggiamento, tristezza, rassegnazione, rabbia, paura, angoscia, richiedono la costruzione di “relazioni”, fonte di “speranza”, un imperativo in tutti gli spazi della formazione. Lavorando sulla capacità individuale e sociale di vivere positivamente e creativamente la relazione e formando individui capaci di consegnarsi all’altro, di accogliere le diversità dell’altro e di vivere insieme, in una condizione di interdipendenza, abbattendo l’individualismo, in una visione di comunità, che si basi su valori di collaborazione e di condivisione si può vincere la sfida di partecipare alla costruzione di un mondo migliore.


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