Anno Accademico 2019-2020

Vol. 64, n° 3, Luglio - Settembre 2020

ECM: Innovazione nel trattamento del tromboembolismo venoso e delle arteriopatie

25 febbraio 2020

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Direct Oral Anticoagulant (DOAC) in Oncologia

C. Cianfrocca

La patologia neoplastica ed il tromboembolismo venoso (TEV) presentano una stretta correlazione, come dimostrano i dati epidemiologici che stimano, nel paziente neoplastico, un rischio da 4 a 7 volte più elevato rispetto alla popolazione generale12. Tra il 20 e il 30% delle prime diagnosi di evento tromboembolico risultano essere “cancro-relate”3. Nel paziente neoplastico la prevalenza di TEV clinicamente manifesta è di circa il 15% ed è associata a peggiore prognosi, rispetto ai pazienti affetti da neoplasia ma non da TEV4.

La base fisiopatologica di questa correlazione è rappresentata dallo stato di ipercoagulabilità correlato alla neoplasia a cui contribuiscono diversi fattori. In primis la microcircolazione del tumore, caratterizzata da vasi ectasici e ramificati, con flusso rallentato e tendenza alla stasi. Le cellule neoplastiche, d’altra parte, producono citochine quali il tumor necrosis factor (TNF), le interleuchine 1 e 6, che inducono l’esposizione del fattore tissutale (TF); alcune delle cellule neoplastiche sovraesprimono inoltre il TF e possono attivare il sistema coagulativo entrando nel torrente circolatorio sia come cellule intere che come microparticelle. Queste ultime possono essere generate anche dalle piastrine, dai leucociti e dalle cellule endoteliali. In alcuni casi di neoplasia epiteliale del tratto gastroenterico, le cellule secernono mucine, normalmente prodotte per lubrificare e prevenire la trasposizione batterica dal lume intestinale, anche nei vasi, così che queste grandi molecole carboidratiche interferiscono nell’interazione tra globuli bianchi e l’endotelio nella circolazione sistemica con conseguente attivazione delle piastrine. Di recente è stato descritto il coinvolgimento delle reti extracellulari neutrofiliche (NETs), espulse dai neutrofili attivati e costituite da fibre di cromatina; rappresentano un meccanismo di protezione nel contesto di patologie infettive poiché “imbrigliano” il batterio, ma nell’ambito della patologia tumorale formano un’impalcatura per le piastrine e gli eritrociti, favorendo invece la formazione del trombo. Infine i farmaci chemioterapici incrementano l’attività procoagulante, stimolano l’attivazione piastrinica e possono indurre danno endoteliale5.

I fattori di rischio per un evento tromboembolico venoso sono identificabili in tre categorie: inerenti al paziente, quali l’età più avanzata, il sesso femminile, l’etnia, l’ospedalizzazione, immobilità prolungata, pregresso episodio di TEV, comorbidità, leucocitosi e piastrinosi, trombofilia; inerenti alla neoplasia, come il tipo istologico, il sito della neoplasia e lo stadio della stessa ed infine quelli legati ai trattamenti chirurgici, chemioterapici, radioterapici nonché alla presenza di catetere venoso centrale (CVC) o l’uso di agenti stimolanti l’eritropoiesi o le trasfusioni6. Uno dei principali fattori di rischio legati al tumore è lo stato metastatico dello stesso, come già evidenziato nel 2006 da uno studio retrospettivo sul California Cancer Registry, nel quale, in particolare, la maggiore incidenza di TEV nel primo anno si osservava, in ordine decrescente, nelle neoplasie metastatiche di pancreas, stomaco, vescica, utero, rene e polmone4.

Pur essendo riconosciuto l’elevato rischio tromboembolico correlato al cancro, al momento l’unico score validato per stimare il rischio tromboembolico e quindi la necessità di terapia profilattica nel paziente neoplastico in chemioterapia è il Khorana score7 nel quale il maggior punteggio, corrispondente a 2 punti, viene assegnato ai tumori a rischio molto elevato, ovvero stomaco e pancreas, mentre i tumori ad alto rischio (polmone, ginecologici o del tratto genitourinario escluso la prostata), la condizione di obesità, l’anemia, la piastrinosi o la leucocitosi conferiscono 1 punto. Il Khorana score permette di individuare pazienti a basso, intermedio o ad alto rischio, utilizzando un cut off di 2 punti; sostanzialmente, però, pone nel computo solo il sito del tumore e alcuni biomarkers ematici. Recentemente, pertanto, è stata proposta la validazione di uno score che valuti in maniera più estesa i fattori di rischio coinvolti: il COMPASS CAT score applicabile ai pazienti affetti da neoplasia della mammella, ovaio, polmone o colon retto. In questo score vengono presi in considerazione anche i trattamenti, la presenza di CVC e lo stadio avanzato della neoplasia nonché fattori legati al paziente come le comorbidità cardiovascolari, la recente ospedalizzazione e l’anamnesi positiva per pregresso TEV, permettendo, così, una valutazione globale del singolo paziente8. Allo stato attuale le linee guida delle società oncologiche basano le loro raccomandazioni sul Khorana score, riservando il trattamento profilattico solo ai pazienti ad alto rischio (con un punteggio superiore a 2) e sconsigliando l’uso routinario della profilassi nei pazienti a basso rischio. Come scelte terapeutiche vengono indicate l’eparina a basso peso molecolare (EBPM) e, grazie ai risultati del Cassini Trial9 e dell’AVERT trial10, anche Rivaroxaban e Apixaban. Questi due trial sono entrambi randomizzati, a doppio cieco e verso placebo; nel Cassini nel braccio trattato con Rivaroxaban 10 mg/die si osservava una riduzione degli eventi tromboembolici solo durante il periodo d’intervento mentre nell’AVERT trial, i pazienti trattati con apixaban 2.5 mg bis in die presentavano una minore incidenza di malattia tromboembolica ma un maggior numero di sanguinamenti.

Se da un lato la scelta della profilassi del paziente affetto da cancro risulta non agevole, ancor più difficile risulta la terapia. Questo tipo di pazienti, rispetto a soggetti non affetti da neoplasia, ha infatti un maggior rischio di TEV, ma anche una maggiore incidenza di ricorrenza della malattia tromboembolica nonché di emorragia11, così da richiedere un’attenta valutazione del rapporto rischio-beneficio nel trattamento.

La pietra miliare della terapia è rappresentata dalle eparine a basso peso molecolare, grazie allo studio CLOT12, un trial randomizzato e controllato, a due bracci di trattamento per 6 mesi, uno con VKA e l’altro con dalteparina, in cui quest’ultima risulta superiore ai dicumarolici nel ridurre il rischio di ricorrenza di malattia tromboembolica senza differenze statisticamente significative nell’incidenza di emorragia. Studi successivi con enoxaparina (ONCENOX e CANTHANOX) e tinzaparina (LITE e CATCH)13 non hanno raggiunto risultati statisticamente significativi, tranne nel caso del LITE e, fatta eccezione per il CATCH, sono tutti gravati da scarsa numerosità del campione. Le linee guida delle società di oncologia o di cardiologia fino al 2018 indicavano come prima scelta per la terapia del TEV l’eparina a basso peso molecolare rispetto ai VKA e agli anticoagulanti orali diretti. L’esperienza nel mondo reale, tuttavia, già negli ultimi anni, dimostrava un uso più diffuso degli anticoagulanti orali diretti rispetto a quanto indicato nelle linee guida. Uno studio retrospettivo su un registro americano, lo Humana database, su circa 2400 pazienti con nuova diagnosi di neoplasia, mostrava che solo 660 erano in terapia con EBPM, mentre circa 1000 assumevano VKA e circa 700 rivaroxaban14. Questo uso dei DOAC è imputabile alla progressiva diffusione degli stessi nel trattamento del TEV ma anche alle analisi delle sottopopolazioni dei grandi trial registrativi degli stessi. Va tuttavia notato che la numerosità dei pazienti affetti da neoplasia nel RE-COVER, EINSTEIN DVT/PE, AMPLIFY e HOKUSAI VTE è piuttosto scarsa ed i criteri di inclusione ed esclusione non sempre ben definiti15. Lo svolgimento di trial disegnati appositamente per i pazienti affetti da neoplasia ha invece permesso di ottenere evidenze più robuste per il trattamento del TEV con i Direct Oral Anticoagulant (DOAC). Nell’HOKUSAI VTE CANCER sono stati arruolati 1050 pazienti, per l’89% affetti da neoplasia solida, soprattutto del colon retto, polmone, tratto genito-urinario e mammella e randomizzati a trattamento con edoxaban o dalteparina: non c’è stata differenza statisticamente significativa nell’incidenza dell’endpoint primario, un composito di TEV ed emorragia, durante il follow up a 6-12 mesi. Nel SELECT D l’arruolamento è di circa 400 pazienti, per un follow up di 6 mesi, in un confronto tra rivaroxaban e dalteparina, con esclusione però di pazienti affetti da neoplasia esofagea e gastroesofagea in seguito ad un’analisi ad interim sulla sicurezza nei primi 220 pazienti arruolati: i pazienti in terapia con rivaroxaban presentano una minore incidenza di TEV ricorrente, una frequenza simile di sanguinamento maggiore ed una maggiore incidenza di emorragia non maggiore clinicamente rilevante15. Le linee guida della società europea di cardiologia per la diagnosi ed il trattamento dell’embolia polmonare16 nonché le linee guida delle società oncologiche italiana e americana hanno recepito i risultati di questi trial ponendo indicazione al trattamento con rivaroxaban o edoxaban come alternativa all’EBPM per il trattamento iniziale e a lungo termine della malattia tromboembolica nel paziente neoplastico, con cautela nei soggetti affetti da cancro gastrico o del tratto genitourinario per l’aumentato rischio di sanguinamento. Le stesse linee guida forniscono indicazioni meno forti per quanto riguarda il paziente affetto da neoplasia cerebrale; sono invece concordi nell’attribuire al TEV incidentale lo stesso profilo di rischio della malattia sintomatica e quindi la necessità dello stesso tipo di trattamento. Per quanto riguarda l’apixaban, nell’ADAM VTE trial, su 280 pazienti, questo risulta superiore alla dalteparina negli outcome di efficacia e sicurezza17. È attualmente on going un trial con una numerosità maggiore, il CARAVAGGIO study, che possa confermare tali risultati.

Oltre al rischio emorragico, nel paziente neoplastico vanno inoltre considerate situazioni incidentali come l’emesi secondaria alla terapia, che può rendere difficoltosa la somministrazione orale, o citopenie, ma soprattutto le interazioni farmacologiche, dato che molti chemioterapici vengono metabolizzati dal CYP3A4 o dalla glicoproteina P, gli stessi utilizzati dai DOAC, e che spesso i protocolli terapeutici prevedono l’uso combinato di più farmaci. L’interazione dei chemioterapici con i citocromi può inoltre tradursi in induzione o inibizione, o, come nel caso degli antagonisti del recettore della neurochinina 1, in entrambe le condizioni a seconda del livello plasmatico del chemioterapico. Le interazioni farmacologiche, sono al momento, puramente teoriche, non essendo stati finora condotti studi clinici su chemioterapici e DOAC.

Essendo quindi ben lungi dall’essere risolto, il nodo della terapia anticoagulante nel paziente neoplastico prevede ad oggi indicazioni non complete e con evidenza non elevata. La Società Europea di Oncologia Medica ha proposto pertanto un algoritmo di trattamento (Fig. 1) che prende in considerazione come primo fattore la conta piastrinica, con un cut-off di 50.000, al di sotto del quale il trattamento prevede l’uso dell’EBPM o dell’eparina non frazionata solo in caso di elevato rischio di progressione della malattia tromboembolica, laddove il rischio sia basso e le piastrine siano di numero inferiore alle 25.000 non va impostata la terapia anticoagulante oppure, se il valore di piastrine è superiore alle 25.000 la terapia l’eparina va somministrata a dose ridotta o profilattica. Al di sopra del valore indicato di cut-off, la terapia con EPBM o DOAC va decisa in base al rischio di sanguinamento, alle sospette interazioni farmacologiche e alla preferenza del paziente18.

 

Fig. 1: Treatment algorithm for patients with cancer and acute VTE18 (from Florian Moik, Ingrid Pabinger, Cihan Ay. How I treat cancer-associated thrombosis. ESMO Open 2020; 5)

 


BIBLIOGRAFIA

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