Dott. Giuseppe Sberna

Laboratorio di Virologia, INMI “L. Spallanzani”, Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2020-2021

Vol. 65, n° 4, Ottobre - Dicembre 2021

Simposio: Pandemia COVID-19: facciamo il punto su…

15 giugno 2021

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SARS-CoV-2: evoluzione della diagnosi di laboratorio

M. Capobianchi, G. Sberna

 

Introduzione

A partire da gennaio 2020, quando per la prima volta è stata segnalata l’identificazione del nuovo coronavirus che avrebbe determinato una pandemia di dimensioni inimmaginabili, l’armamentario diagnostico si è rapidamente evoluto, creando test sempre più perfezionati e rispondenti alle mutevoli esigenze epidemiologiche, scientifiche, assistenziali e di salute pubblica. 

Esistono diverse tipologie di test che si basano sul riconoscimento sia del virus che della risposta immunitaria1. È importante sottolineare che i due parametri non sono equivalenti e si applicano in momenti diversi: il virus, con i suoi antigeni e il suo acido nucleico è riscontrabile nelle prime fasi dell’infezione; gli anticorpi, invece, misurano la risposta dell’organismo, quindi rappresentano una testimonianza “ritardata” dell’incontro con il virus o con i suoi componenti.


Test molecolari

La diagnosi dell’infezione da SARS-CoV-2 si basa sulla ricerca diretta del virus nelle vie aeree, effettuata principalmente con un test molecolare che rivela la presenza del genoma del virus nel tampone nasofaringeo (TNF) o, nelle forme più gravi, nelle secrezioni profonde, che possono essere accompagnate da una negatività nel tratto superiore. Questa modalità operativa è considerata il gold standard nella strategia diagnostica.

Oggi, oltre al TNF ed ai campioni provenienti dalle vie aeree profonde, l’attenzione si sta rivolgendo a un campione alternativo, la saliva. Tale matrice biologica è più facile da prelevare, ma presenta alcune complicazioni poiché è più variabile, più densa e risente delle modalità di prelievo2, 3.

Altro importante aspetto da considerare, riguardo i saggi molecolari, è che tutti i test si basano su disegni con target che possono essere diversi, comprendendo geni non strutturali, in particolare il gene dell’enzima replicativo, oppure geni strutturali, quali il gene della proteina spike (S).  Questo è di fondamentale importanza se consideriamo che poter scegliere più target con cui rilevare la presenza virale può aiutarci nell’identificazione anche le varianti virali che presentano mutazioni in vari punti del genoma.


Il “problema” varianti

SARS-CoV-2 è un virus a RNA che ha una moderata capacità di cambiare, accumulando ogni mese circa un paio di mutazioni che si possono fissare nel genoma [https://www.gisaid.org/epiflu-applications/phylodynamics/]. Considerando quanto detto in precedenza riguardo alla molteplicità di target che abbiamo a disposizione per rilevare il genoma virale, va aggiunto che i target bisogna monitorarli per capire se la variabilità accumulata possa influire sulla loro rilevabilità da parte dei saggi molecolari, perché i cambiamenti accumulati nel tempo potrebbero rendere il target del saggio non rilevabile, con la possibilità che il virus sfugga al rilevamento. Dal monitoraggio costante effettuato tramite la piattaforma GISAID, il target che subisce maggiormente gli effetti negativi della variabilità virale è il China-CDC-N [https://www.epicov.org/epi3/cfrontend#lightbox-343017270, accesso effettuato il 7 Giugno 2021]. Questo saggio però oltre a questo target ne include un altro, meno influenzato dalla variabilità virale. Nel complesso, in questo momento siamo di fronte ad una pletora di varianti che portano numerose variazioni; le Variants of Concern (VOC, varianti preoccupanti) portano delle mutazioni distribuite lungo tutto il genoma, che hanno dei risvolti sul piano della diffusibilità, della sensibilità al potere neutralizzante degli anticorpi e della sensibilità dei test molecolari. Le varianti si sono largamente diffuse nel mondo; in Italia la situazione vede la variante alfa (lineage B.1.1.7, precedentemente denominata “inglese”) predominare e a seguire la beta (brasiliana, lineage P1 e P1.1); a partire da aprile ha fatto il suo ingresso in Italia la variante delta (indiana, lineage B1.617.2), che non ha avuto, per il momento, la diffusione esplosiva osservata nel Regno Unito. Nel Lazio la situazione delle varianti ricalca per lo più la situazione nazionale, con una netta predominanza della variante alfa (Fig. 1).

 

Fig. 1: Dati delle survey mensili (gennaio-maggio 2021) sul territorio della regione Lazio.

 

Conoscere le varianti, come anticipato, è fondamentale dal punto di vista diagnostico, infatti nel disegno di un test vengono raccomandati l’utilizzo di più target perché potrebbe capitare che un determinato target non venga riconosciuto essendo mutato, e possa quindi portare ad un esito falsamente negativo del test. Ovviamente le varianti hanno risvolti anche riguardo alla patogenesi o alla sensibilità al potere neutralizzante degli anticorpi, in particolare per quanto riguarda le mutazioni ospitate dal gene della proteina Spike.

Le varianti possono essere riconosciute attraverso il sequenziamento totale o parziale del genoma; questo è il metodo di elezione che purtroppo non è appannaggio di tutti i laboratori. Numerose aziende hanno immesso sul mercato dei test, non basati sul sequenziamento ma su RT-PCR, per identificare le varianti sulla base di alcune mutazioni caratteristiche. Questi test non sono diversi, quanto a tecnologia e a semplicità di esecuzione, dai mezzi utilizzati per la diagnosi, ma il loro potere di riconoscimento è congelato ad un dato momento, in base al set di mutazioni (in genere due o tre) che possono essere rilevate; poiché il panorama delle varianti varia continuamente, non ci possiamo fidare del riconoscimento da parte di questi test di screening basati su RT-PCR in multiplex, che sono in grado di identificare un set predefinito di mutazioni ma non la sequenza di tratti rilevanti di genoma virale. Il sequenziamento rimane quindi la giusta chiave di lettura delle varianti per conoscere la loro diffusione, permettendoci di comprendere come evolve il genoma virale, analizzare cluster di infezioni, conoscere la dinamica di trasmissione degli outbreaks e identificare la presenza di mutazioni che possano impattare sugli aspetti patogenetici e diagnostici.


La misura della risposta immune

Tale approccio si basa in maniera predominante sulla ricerca degli anticorpi specifici. La presenza degli anticorpi rispetto alla presenza del virus è tardiva, e per questo il loro rilevamento   in genere non ha valore diagnostico in quanto la diagnosi arriverebbe tardivamente rispetto all’inizio dell’infezione. Nonostante questo gli anticorpi hanno ed hanno avuto un valore importantissimo in materia di sorveglianza, perché un campione di popolazione sottoposto a ricerca degli anticorpi può darci un’idea di quale sia la pregressa circolazione del virus nell’ambito di una determinata comunità.

Abbiamo a disposizione test rapidi, ELISA, basati sulla chemiluminescenza (CLIA) e basati sulla neutralizzazione del potere infettante. Questi test hanno caratteristiche diverse sia nella facilità e rapidità di esecuzione sia nell’informazione che danno. Per quanto riguarda la sensibilità nel rilevare l’infezione, i test sierologici non sono equivalenti tra loro; se volessimo fare una comparazione considerando i test rapidi, ELISA e CLIA, sulla base del principio su cui sono disegnati, i test rapidi risultano avere la sensibilità inferiore soprattutto in pazienti che sono in corso di malattia rispetto alla diagnosi retrospettiva in cui essi presentano una sensibilità simile agli altri4.

L’unico test in grado di fornire una informazione sul potere protettivo degli anticorpi rispetto al potere infettante del virus è il test di sieroneutralizzazione in cui si mette il siero a contatto con il virus e si infettano le cellule. Se tali cellule non si infettano, il siero è dotato di potere neutralizzante, se si infettano non c’è potere neutralizzante. In genere vengono effettuate delle diluizioni seriali dei sieri da analizzare, e il potere neutralizzante si può misurare colorando le piastre di cellule cimentate con le miscele siero-virus, e andando a leggerle con un lettore di densità ottica, ottenendo anche dei dati quantitativi in termini di diluizione del siero capace di inibire (IC=concentrazione inibente) al 50% o al 90%. Trattandosi di un test che si basa sull’infettività del virus, può essere eseguito soltanto in BSL3, e richiede personale esperto nella coltivazione del virus. Inoltre non si presta all’automazione e alla tracciabilità delle varie fasi. Per tale motivo, l’utilizzo di tale tecnologia è appannaggio di pochi laboratori specializzati, ed è assolutamente limitato nella pratica diagnostica, che invece si basa sui metodi immunometrici.

Assunto che il test di sieroneutralizzazione è l’unico che ci fornisce informazioni sul potere protettivo degli anticorpi, possiamo verificare che le altre tipologie di saggi sierologici hanno una diversa correlazione con la sieroneutralizzazione. Ad esempio i saggi basati sul riconoscimento immunometrico degli anticorpi contro la proteina S hanno un coefficiente di correlazione che è sicuramente più alto rispetto a test basati sulla ricerca di anticorpi anti-N. Questa diversa correlazione dipende dal fatto che l’infezione viene mediata dall’interazione dell’antigene S di superficie, e quindi solo i test immunometrici che hanno come bersaglio tale proteina forniscono un correlato indiretto della capacità degli anticorpi di inibire l’infezione.

Caratteristica dei SARS-CoV è quella di avere una regione RBD (Receptor Binding Domain, dominio che lega il recettore) presente in due conformazioni, quando acquista conformazione “up” il virus riconosce ACE-2 (il suo recettore). Avvenuta l’interazione S1 e S2 si separeranno, così S2 avvicina il virus alla membrana cellulare e media la formazione del poro che permette al genoma virale di entrare nella cellula. Quindi i saggi immunometrici basati su diverse proteine virali hanno un significato diverso nell’indicare se l’anticorpo è protettivo o meno5, 6.

Con l’avvento recente dei vaccini, la misura degli anticorpi ha assunto un significato importante nel predire il potere protettivo della risposta ai vaccini. Va sottolineato che misurare la risposta anticorpale post-vaccino non è raccomandato nella pratica comune. Tuttavia, nella prospettiva di conoscere se la riposta protettiva dei vaccini sia efficace, gli studi in coorti selezionate sono importanti poiché ci permettono di capire l’intensità della risposta dei vari vaccini, la durata, la dinamica, l’opportunità di somministrazioni ripetute e tutto ciò che serve agli organi competenti per redigere le policy vaccinali. Popolazione ideale per effettuare studi sulla risposta vaccinale è la classe degli operatori sanitari che è anagraficamente omogenea e facilmente accessibile ai controlli dei tempi successivi alla somministrazione. Facendo una valutazione della risposta anticorpale a seguito della vaccinazione, possiamo verificare come la correlazione tra questo parametro e la sieroneutralizzazione sia sempre più elevata considerando le seconde generazioni dei test immunometrici, che prevedono come target la porzione RBD o la proteina S nella conformazione nativa che interagisce con ACE-2 (trimerica).

Infine, va ricordato che se da un lato la risposta anticorpale è uno dei bracci della risposta immune indotta dai vaccini, un altro braccio fondamentale è costituito dalla risposta cellulare, sostenuta dei linfociti T virus-specifici. La ricerca della risposta dei linfociti T si misura come produzione di citochine quale, ad esempio, è l’interferon γ (INF- γ), da parte delle cellule del sangue stimolate con cocktail di antigeni virali. Si tratta di una tecnica meno diffusa perché più complessa, e benché fattibile e standardizzabile, è alla portata solo di pochi laboratori specialistici.

Dai dati ottenuti su coorti selezionate, come gli operatori sanitari vaccinati presso l’INMI, abbiamo osservato che il 100% dei vaccinati presenta una risposta anticorpale misurabile sia con metodi immunometrici che con test di sieroneutralizzazione. Tale risposta aumenta come intensità dopo il richiamo. In parallelo, si osserva anche l’induzione della risposta T, anche questa in aumento dopo il richiamo7.  


Conclusioni

Abbiamo a disposizione un ampio armamentario di test di laboratorio nei riguardi del SARS-CoV-2, ognuno dei quali si può adattare al proprio contesto ideale, ma nessuno di questi può fornirci, se preso singolarmente, una risposta per ogni domanda che potremmo porci.

I test molecolari o antigenici hanno il fine ultimo di identificare il virus, in maniera differente e utilizzando tipologie di campioni differenti; essi non ci danno informazioni riguardo l’infettività del virus e potrebbero essere proni all’influenza della variabilità virale.

I test sierologici sono molto discussi al momento; a scopo epidemiologico non ci interessa capire quale antigene è usato per la rilevazione anticorpale, dato che questi test ci forniscono l’informazione di base essenziale: se hai gli anticorpi, qualunque essi siano, sei entrato a contatto con il virus; d’altro canto per stabilire la risposta al vaccino serve un correlato della protezione e per stabilire i livelli di protezione il miglior test è quello della sieroneutralizzazione. Quest’ultimo non è assolutamente possibile utilizzarlo come test di routine, a causa dell’elevato livello di biocontenimento (BSL3), quindi vi è il bisogno di succedanei che siano correlati con il potere neutralizzante degli anticorpi. Proprio per questo gli ultimi test sono stati disegnati sulla proteina S nelle sue varie conformazioni, per misurare specificamente gli anticorpi diretti contro le strutture molecolari che permettere al virus di penetrare nella cellula.

Fine ultimo di queste correlazioni è quello di stabilire delle soglie che ci permettano di comprendere, senza dover effettuare il test di sieroneutralizzazione, da che momento in poi gli anticorpi sono presumibilmente in grado di neutralizzare il virus.

Sempre sotto il profilo del controllo vaccinale, un’ulteriore classe di test disponibili è quella che riguarda l’immunità cellulare mediata dai linfociti T, che può utilizzare target molecolari molteplici, non limitati alla proteina S. Infatti l’immunità T è rivolta contro le cellule infette, che esprimono una gamma di antigeni virali, e quindi questo tipo di risposta ha uno spettro più ampio rispetto ai test sierologici basati sulla proteina S come target.

Va infine ribadito che la risposta ai vaccini nelle persone normo-competenti dal punto di vista immunitario è generalmente elevatissima, virtualmente del 100%. Quindi la misurazione della risposta immunitaria con tecniche di laboratorio non fa parte del bagaglio routinario di monitoraggio dei vaccini nel singolo individuo, e non è indicata nella popolazione generale. Invece lo studio focalizzato su contesti sperimentali ben definiti consente di trarre delle informazioni sulla durata e l’intensità della risposta umorale e cellulare ai vari vaccini, anche contro le varianti, e quindi rappresenta uno strumento per trarre informazioni di carattere generale, utili al decisore di Sanità pubblica a stabilire le strategie di prevenzione vaccinale.


BIBLIOGRAFIA

  1. Monto AS, Cowling BJ, Peiris JSM. Coronaviruses. In: Kaslow R., Stanberry L., Le Duc J. (eds) Viral Infections of Humans. Springer, Boston, 2014, MA. https://doi.org/10.1007/978-1-4899-7448-8_10
  2. Moreira VM, Mascarenhas P, Machado V, et al. Diagnosis of SARS-Cov-2 Infection by RT-PCR Using Specimens Other Than Naso- and Oropharyngeal Swabs: A Systematic Review and Meta-Analysis. Diagnostics 2021; 11: 363. doi: 10.3390/diagnostics11020363.
  3. Bordi L, Sberna G, Lalle E, et al. Frequency and Duration of SARS-CoV-2 Shedding in Oral Fluid Samples Assessed by a Modified Commercial Rapid Molecular Assay. Viruses 2020; 12: 1184. doi: 10.3390/v12101184. PMID: 33092065; PMCID: PMC7589602.
  4. Lisboa Bastos M, Tavaziva G, Abidi SK, et al. Diagnostic accuracy of serological tests for covid-19: systematic review and meta-analysis. BMJ 2020; 370: m2516. doi: 10.1136/bmj.m2516.
  5. Moreira RA, Guzman HV, Boopathi S, Baker JL, Poma AB. Characterization of Structural and Energetic Differences between Conformations of the SARS-CoV-2 Spike Protein. Materials 2020; 13: 5362. doi: 10.3390/ma13235362.
  6. Lu M. Single-Molecule FRET Imaging of Virus Spike-Host Interactions. Viruses 2021; 13: 332. doi: 10.3390/v13020332.
  7. Agrati C, Castilletti C, Goletti D, et al. Coordinate Induction of Humoral and Spike Specific T-Cell Response in a Cohort of Italian Health Care Workers Receiving BNT162b2 mRNA Vaccine. Microorganisms 2021; 9: 1315. https://doi.org/10.3390/microorganisms9061315.