Anno Accademico 2015-2016
Vol. 60, n° 2, Aprile - Giugno 2016
Conferenza: Il medico e l'industria del farmaco: matrimonio felice o divorzio?
15 marzo 2016
Conferenza: Il medico e l'industria del farmaco: matrimonio felice o divorzio?
15 marzo 2016
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Credo che non ci sia dubbio sul fatto che nei passati ottanta anni la medicina si sia giovata di grandi farmaci connessi in genere all’una o all’altra di quelle che si chiamano grandi industrie farmaceutiche, dalla Bayer coi sulfamidici di Domagk alla Sandoz con la ciclosporina di Dietl (e si potrebbe andare ancora più indietro, con l’aspirina di Hoffman e Eichengrun con Bayer e il rapporto di Lilly con il gruppo di McLeod, Banting, Best e Collip per l’insulina). E’ stato, quel lungo periodo, quello che un bel libro di James Le Fanu ha chiamato l’ascesa della medicina ed è quello che io chiamerei il “periodo dell’innamoramento” tra la medicina e l’industria del farmaco. Se però guardiamo oggi quali sono le grandi Industrie farmaceutiche vediamo che molte di quelle alle quali si devono quei grandi progressi farmacologici e terapeutici degli ultimi 80 anni a due o non esistono più o hanno cambiato nome; si sono formati dei grandi raggruppamenti (anche su base nazionale) che hanno assunto dimensioni notevolissime, a volte con un fatturato che è simile a quello del pil di alcuni Stati come la Croazia o la Slovenia. I motivi di queste trasformazioni sono diversi ed esulano da questa trattazione, ma mi sembrano in gran parte riportabili ad alcune modificazioni legislative avvenute soprattutto negli USA all’inizio degli anni ’80a in base alle quali: a) le Università o le piccole imprese hanno avuto la possibilità di brevettare i risultati di loro ricerche ottenute in seguito a fondi provenienti dal National Institute of Health (NIH) degli USA, con la conseguenza che il costo della ricerca è ricaduto in gran parte sullo Stato; ove in seguito i risultati di tale ricerca siano apparsi economicamente interessanti, di solito la grande Industria ne ha assunto, poi, la distribuzione su vasta scala; e b) la durata dei brevetti è stata estesa fino a 20 anni, con alcune possibilità di ulteriore prolungamento. Ciò ha profondamente mutato il carattere dell’Industria e il suo rapporto con la classe medica, al punto che alcuni importanti personaggi al centro delle relazioni tra essa e l’Industria (come Marcia Angell, già per anni editor del New England Journal of Medicine e Richard Smith, editor del British Medical Journal) sono diventati tra i più acuti critici di quest’ultima1, 2. La situazione che si è venuta a creare viene ben riassunta nel 2015 da John Sulton, Nobel per la medicina 2002: “ ..naturalmente il processo funziona, produciamo farmaci, ma le applicazioni sono per lo più realizzate allo scopo di trarre profitto; siamo tutti parte di questo sistema”3. Il termine “profitto” richiama quello di “mercato” e per avere una idea della potenza di fuoco delle forze in campo vale la pena di ricordare che il “mercato farmaceutico” mondiale che nel 2008 raggiungeva la cifra di 795 miliardi di dollari è passato nel 2013 a 989 miliardi di dollari (+24%) e si stima raggiunga nel 2018 i 1300 miliardi di dollari4. Di queste cifre, il marketing farmaceutico nelle sue varie forme cattura circa il 30%, cifra riportata da Sulton e confermata in vari studi5. In questo ambito, l’Italia si situa ormai da anni al sesto posto (in seguito all’ingresso della Cina), dopo essere stata a lungo al quinto.
Un certo contrasto tra i centri accademici di ricerca medica e l’industria è inevitabile, considerate le diverse “missions” (come oggi si usa dire) dei due gruppi; non ci devono essere pregiudizi verso l’industria, ma si deve essere ben coscienti dei possibili conflitti di interesse tra la professione medica e la stessa industria. Come ha ben detto Milton Friedman, premio Nobel per l’economia nel 1976: “There ain’t no such thing as a free lunch” (non si può mangiare al ristorante senza pagare il conto, potremmo tradurre; o anche: non si può ottenere qualcosa in cambio di nulla). In questo confronto, quasi inevitabilmente al centro del quadrato è il medico il quale deve avere informazioni corrette e disporne facilmente al fine di essere il medico giusto al momento giusto con una corretta conoscenza. In Italia, ma anche in genere, intorno al tavolo della prescrizione di farmaci sono quattro giocatori: il paziente, il SSN (nelle sue diverse forme), il medico e l’industria e ogni “giocatore” ha le sue prerogative. Sintetizzando, si può ammettere che il medico basi la sua prescrizione su diversi elementi: l’insegnamento ricevuto all’Università; la “letteratura”; le informazioni ottenute da colleghi e da quelli che vengono ritenuti “i grandi medici”; quanto detto in un recente corso, il ricordo o la lettura di “linee guida”; le informazioni che gli arrivano dall’industria tramite i cosiddetti IMS (Informatori Medico Scientifici); e infine, last but not least, la propria esperienza, che però è il risultato di quanto sopra. Negli ultimi anni, e soprattutto a partire dal 2000, molta attenzione è stata rivolta, non soltanto in campo medico ma anche dal punto di vista sociologico, alla influenza che l’industria del farmaco esercita sulla professione medica6, 7, 8, 9, 10, una influenza tanto maggiore in quanto si tratta di una industria con profitti molto elevatib. Sintetizzando, Jelinek e Neate11 notano che l’industria si sforza di agire su molti aspetti alla base della prescrizione, dalla ricerca e dalle modalità di pubblicazione dei dati sui farmaci, a ciò che il marketing indica come “educazione” della classe medica (IMS, EMC –corsi di educazione medica continua-, giornali medici), alla sponsorizzazione dei cosiddetti “opinion leaders” e dei gruppi che formano le cosiddette “linee guida” per la prescrizione. Ovviamente non mancano modalità corrette di apprendimento sull’uso e sulle proprietà dei farmacic, ma per esse esistono ancora alcune remore, tra cui il costo di abbonamento alle rassegne (da 85 a 400 dollari/anno) e la circostanza, cui ci si appella spesso, di “non avere tempo”. Un aspetto fondamentale è relativo al ruolo che l’industria ha nella ideazione, esecuzione, stesura e pubblicazione dei clinical trials che sono alla base della cosiddetta Evidence Based Medicine, di norma considerata una delle grandi conquiste degli ultimi decenni12, 13; è stato di recente affermato14 che “la pietra miliare della EBM, le prove cliniche controllate e randomizzate (RCT), è stata spesso corrotta da interessi estranei coinvolti” in ognuno di questi punti. Tra i due terzi e i tre quarti di tutte le RCT pubblicate nelle riviste mediche sono finanziate dall’industria15, 16. Un primo punto appare evidente: le ricerche finanziate da organizzazioni “for profit” (leggi: industria) raccomandano il farmaco in studio come “farmaco di scelta” significativamente più sovente (p<0.001; OD=5,3; CI95% 2.0-14,4) che non studi finanziati diversamente, indipendentemente da efficacia e sicurezza17; anche altri Autori18, 19 confermano -su grandi complessi- che gli studi sponsorizzati dall’industria tendono a pervenire a conclusioni ad essa favorevoli (il che, in fondo, non stupisce troppo). Quando, in seguito a pressanti richieste, l’FDA ha concesso il permesso di considerare tutti i trials in suo possesso su un determinato farmaco, è apparso evidente20 che solo una parte dei trials condotti a termine (solo quelli a esito positivo per l’industria) era stata oggetto di pubblicazione, mentre gran parte degli altri erano, in un certo senso, stati eliminati. Il concetto vale anche se ci si riferisce alle meta-analisi, come hanno dimostrato Jorgensen et al.21 notando che mentre tutte le meta-analisi “industry-supported” considerate hanno conclusioni che raccomandano in varia maniera l’uso del farmaco in studio, nessuna delle meta-analisi condotte sullo stesso farmaco da un organismo indipendented ha conclusioni analoghe (p<0.02) pur se gli effetti stimati dei famaci sono simili (p=0.64); su altre 24 meta-analisi senza supporto industriale le conclusioni sono sempre simili a quelle delle corrispondenti Cochrane reviews. Questa tendenza degli studi “industry sponsored” a favorire esplicitamente il farmaco in esame rispetto agli standard ha a volte delle conseguenze imprevedibili e curiose. Su 30 studi che confrontano a due a due tre farmaci usati in psichiatria22, le conclusioni sono a favore del farmaco della ditta che ha sponsorizzato lo studio nel 90% dei casi; se si considerano solo 21 studi soggetti a peer reviewe i risultati non cambiano; non solo, ma esaminandoli si perviene alla conclusione che il farmaco A è migliore del farmaco B che a sua volta è migliore del farmaco C che, chiudendo il cerchio, è migliore del farmaco A. A questo riguardo vanno anche considerati almeno due altri aspetti: la valutazione del farmaco non può che essere fatta in base ai dati pubblicati, ma questi rappresentano solo la punta dell’iceberg; esiste in realtà una massa di altri dati che non sono di norma resi pubblici, ma che, ad esempio, sono presenti presso le agenzie statali o sovranazionali per la autorizzazione al commercio, tipo FDA o EMAf; se si valutassero separatamente, ad esempio20, i dati pubblicati e quelli disponibili presso la FDA per 12 farmaci antidepressivi si otterrebbero dei risultati da cui appare che nei dati pubblicati si ha, rispetto ai dati presenti, un aumento della efficacia dei vari farmaci che varia dall’11 al 69% e un aumento globale pari al 32%. Questo e altri dati hanno portato prima Melander al.23 e più recentemente Doshi et al.24 ad affermare che in assenza di accesso a tutti gli studi (positivi e negativi, pubblicati o non pubblicati) e sempre in assenza di analisi alternative (“Intention to treat” e “per protocol”) ogni tentativo di raccomandare un farmaco specifico è con ogni probabilità basato su prove “biased”, tanto che nel titolo di una delle pubblicazioni si trasforma la Evidence Based Medicine in Evidence B(i)ased Medicine. Le pubblicazioni, poi, non rispecchiano sempre i dati disponibili presso le industrie25 e questo costituisce un’altra possibile fonte di errore. Il secondo punto da considerare è emerso, tra l’altro, dalla proposta26 indicata dall’acronimo RIAT (Restoring Invisible Abandoned Trials) che vuole rivedere studi pubblicati anni fa alla luce della successiva disponibilità di dati prima “invisibili”; in conseguenza di tale revisione uno psichiatra australiano ha inviato il 26 aprile 2013 una lettera al CEO di Glaxo-Smith-Kline con la richiesta “that you write to Dr. Andrés Martin, the editor of Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry to request retraction of the Keller et al. article“. L’articolo di Keller27 che concludeva affermando che “paroxetine is generally well tolerated and effective for major depression in adolescent” è stato in seguito molto attaccato, l’uso che ne è stato fatto dalla ditta ha determinato una controversia legale negli USA che si è conclusa con una enorme multa a carico del produttoreg e una sua recentissima rivisitazione28 ha concluso che una valutazione più completa ed attenta dei dati anche inizialmente disponibili ma non considerati conduce a ritenere che “neither paroxetine nor high dose imipramine showed efficacy for major depression in adolescents, and there was an increase in harms with both drugs”. Questa vicenda, che sembra estendersi ad altri studi (citati in26) ha messo anche in evidenza il ruolo che nella stesura dei lavori scientifici è sovente assunto dai cosiddetti “ghost-writers”29, 30, 31 cui è devoluto, spesso ad opera di organizzazioni a ciò preposte (tipo “DesignWrite”32) il compito di scrivere i lavori da pubblicare poi con autori diversi. Il lavoro di Keller et. al27, citato or ora, servì anche per la “promozione” “off-label” del farmaco in una indicazione (la depressione grave adolescenziale) che non era stata al momento approvata dall’FDA; questo delle indicazioni “off-label” è un fenomeno largamente sfruttato, sulla base di lavori appositamente programmati e pubblicizzati, dalle industrie, anche a fronte di pene legali non indifferentih; un caso tipico è quello del gabapentin, un farmaco approvato solo come terapia di attacchi epilettici parziali, di convulsioni parziali e di dolore neuropatico periferico, ma che è stato propagandato e usato in larga misura per disturbi psichiatrici (disturbo polare), emicrania e dolori in genere33, 34, 35; ovviamente le prescrizioni (e quindi le vendite) sono aumentate in proporzione. Si stima che un quinto circa dei farmaci sono usati per indicazioni “off label” sulla base di una base scientifica molto scarsa36. Spesso (ma non sempre) i lavori di questo tipo sono del genere indicato come “seeding trials”i (letteralmente: lavori di semina), un tipo di studi a ben scarso valore scientifico, ma che per le modalità con cui vengono presentati può essere pubblicato su una rivista medica molto nota e autorevole37, 38. In un certo senso, il contrario o meglio l’opposto dei seeding trials è dato dai cosiddetti “Speakers bureaus”j in cui alcuni opinion leaders offrono la loro opinione su determinati farmaci nel corso di riunioni (a volte “congressi”) organizzati dall’industria cui vengono invitati medici o più spesso specialisti del settore. Forse al riguardo il miglior commento è quello che si ricava da una rivista di puro marketing: “Il processo di consulenza è uno dei mezzi più potenti per avvicinare i medici e per influenzarli… il sistema permette di valutare come i vari soggetti possono essere usati, motivati a voler lavorare con e per l’industria e per diffondere largamente messaggi subliminali”39, 40; naturalmente molto dipende dagli accordi che si pongono in essere per lo svolgimento degli incontri. Un caso limite al riguardo può essere considerato quello che ha portato il Conseil d’Etat francese nel 2011 a eliminare due “guide-lines” in precedenza approvate dalla Haute Autorité de Santé (HAS) dal momento che alcuni componenti del consesso non avevano dichiarato il loro conflitto di interessi derivante dai contatti con l’industria; si trattava di guide-lines relative al trattamento del diabete di tipo 2 (con glitazoni, alcuni dei quali poi tolti dal commercio) e della malattia di Alzheimer (con antagonisti della colinesterasi)41.
Non è possibile in questa sede estendere adeguatamente l’analisi ad altri elementi critici quali: la qualità di quello che si indica come “advertising farmaceutico” che compare su riviste mediche anche autorevoli (dal 21 al 71% dei claims riportati nell’advertising non ha un riferimento bibliografico e nel 35-50% dei casi valutati si tratta di claims non supportati 42, ma l’importanza “prescrittiva” degli annunci su riviste mediche non può essere sottovalutata: la qualità del materiale promozionale fornito ai medici è in genere molto criticabile (uno studio al riguardo43 suggerisce “molta cautela” nel valutare i risultati esposti nelle brochures e di consultare il lavoro cui la brochure si riferisce valutandolo in base ai criteri della EBM); né ritengo sia il caso di intrattenersi sul rapporto del medico con gli IMS (sul quale la letteratura si interroga da molti anni44 senza giungere – salvo in casi eccezionali45, 46, k) - a conclusioni definitive (se però circa la metà delle spese che l’Industria sostiene per il marketing se ne va per spese relative ai cosiddetti “reps”47, il loro ruolo non può certo essere indifferente). Vorrei però accennare, seppur molto brevemente e in conclusione, ad almeno tre strategie che l’industria applica con sempre maggiore frequenza. La definizione di “disease mongering” non è facile e non è sempre univoca, anche se il concetto è nato addirittura 24 anni fa48 e sono ormai 13 anni che esso è apparso nella letteratura medica49, in quanto il confine tra “awareness” (la coscienza della presenza di una situazione o di un fatto) e “induction” (il cercare di indurre un certo comportamento al riguardo) non è netto. Di norma, con “disease mongering” si intende quel complesso di azioni messo in atto principalmente dall’industria, ma spesso di concerto con altri gruppi, al fine di ottenere che una certa situazione sia vista come “malattia” e come “malattia curabile con farmaci”; l’”awareness” diventa un mezzo per ampliare il mercato. Esempi al riguardo50 sono la ridefinizione della disfunzione erettile nel maschio, la sindrome delle gambe senza riposo, la banalizzazione e la globalizzazione del disturbo bipolare, la sindrome da deficit di attenzione e iperattività negli adolescenti e negli adulti (ADHD) e molte altre situazioni per le quali si giunge persino a considerare il lutto una malattial e a stimare la frequenza di disfunzione sessuale femminile in una popolazione generale degli USA pari al 43%51, m. Naturalmente, il processo di “disease mongering” si è spesso associato alla pubblicità diretta verso il paziente (DtCPhA: direct to consumers pharmaceutical advertising) una pratica che è divenuta legale negli USA all’inizio degli anni ’80 e che malgrado molti sforzi lobbistici al riguardo non è (ancora) permessa in Europan, anche se in pratica essa viene attuata massicciamente anche da noi. La terza delle strategie cui ho accennato è relativa ai cosiddetti farmaci “evergreen”; in effetti il brevetto di un farmaco copre un periodo di tempo abbastanza lungo, ma che ad un certo punto termina. Il danno economico che ne deriva alla azienda produttrice può essere notevole, dal momento che il farmaco brevettato viene sostituito dal cosiddetto “generico” il cui costo è in genere molto più basso e i cui ricavi di solito non vanno al primo produttore, ma ad altri. Malgrado si sia tentato più volte di indicare che il generico è diverso dal farmaco brevettato, la FDA ha certificato che, salvo naturalmente i casi di frode, i farmaci generici sono copie accurate dei progenitori, con biodisponibilità sovrapponibile per cui il passaggio dall’una all’altra formulazione va considerato sicuro ed efficaceo. Ci sono almeno due possibilità che l’industria adotta per modificare l’impatto economico a suo danno; la prima è esemplificata da varie situazioni in cui allo scadere del brevetto la ditta proprietaria tenta di sostituire il farmaco brevettato con un suo analogo a costo maggiore (è il caso del citalopram vs escitalopram; simvastatina vs simvastatina più ezetinibe; ac. alendronico vs ac. alendronico più colecalciferolo; zolpidem vs zolpidem extended release; loratadina vs. desloratadina; gabapentin vs pregabalin; cetirizina vs levocetirizina) affermando in genere la maggiore efficacia del nuovo prodotto in relazione al precedente; in parecchi casi si tratta della sostituzione della forma attiva in luogo della miscela di vari enantiomeri e questo rende quanto meno difficile credere a variazioni sostanziali degli effetti52. La seconda possibilità è molto recente ed è data dal tentativo di trasformare il farmaco a brevetto scaduto in un farmaco senza prescrizione medica: questo è quanto sta accadendo negli USA per il Lipitor, una statina che il produttore vuol far diventare, come si dice, “da banco”53.
Lo spazio mi impedisce di affrontare altri punti del problema; per concludere voglio solo ricordare che il costo delle recenti terapie antitumorali, su cui da anni si è portata l’attenzione54, 55, 56 e sulla cui formazione è lecito discutere, ha portato a profonde riflessioni sui reali vantaggi (sia in senso assoluto sia come costi/benefici) che da tali terapie si possono ricavare, al punto che uno dei più attenti clinici italiani ha di recente sollevato anche sulla stampa non specializzata57 un interrogativo: “Molti dei nuovi farmaci antitumorali hanno costi elevati, anche 60.000 euro per un ciclo di cura, ma i benefici sono quasi sempre modesti. Vanno prescritti ? E’ meglio qualche settimana di vita in più fra grandi sofferenze o usare una piccola parte di quei soldi per garantire a chi è malato di essere assistito a casa sua ?”.
E’ tempo, credo, che questo tipo di problemi venga affrontato sul campo anche da noi.
a. Dole-Bayh act, 1980; Hatch-Waxman act, 1984 mod. 2003.
b. Secondo alternet.org (http:// www.alternet.org/11-major-drug-companies-raked-85-billion-last-year : visitato ott. 2015) nel 2012 i profitti per le 11 maggiori ditte farmaceutiche raggiunsero gli 85 miliardi di dollari.
c. Segnalo solo pubblicazioni del tipo “Journal watch” (http://www.jwatch.org/) una pubblicazione edita dal NEJM che esamina, riassume e recensisce oltre 250 pubblicazioni, con sezioni specialistiche; o “Evidence based practice new letters”, una pubblicazione analoga del gruppo BMJ (www.bmj.com/.../evidence-based-practice-newslett.. ); o Dynamed (una banca data per le varie necessità cliniche e di cui esiste anche un tutorial in italiano: https://www.bvspiemonte.it/opencms/opencms/it.step.opencms.bvsp/Allegati/IT_DynaMed_Basic_Tut.pdf ); o ancora, molto utile e forse la più antica, “Medical letters” pubblicata anche in italiano.
d. Tale organismo indipendente era, nel caso, rappresentato dalle “Cochrane reviews” (la “Cochrane Review” è ritenuto l’organismo internazionale più idoneo e conosciuto per stabilire il valore scientifico di una terapia, rappresenta il massimo della chiarezza e riassume tutte le evidenze scientifiche, pubblicate e non pubblicate, su uno specifico trattamento).
e. Sui dubbi che la peer review suscita, così come è di norma compiuta non solo in ambito medico, si vedano: Shatz D.: “Peer review, a critical inquiry”. Rowman & Littlefield Publ., Oxford, 2004; e Campanario J. M.: J. Am. Soc. Information Sci., 1996, 47, 302-10.
f. FDA: Food & Drug Administration, USA; EMA: European Medicines Agency, Bruxelles.
g. USA, Department of Justice, Office of Public Affairs, Monday, July 2, 2012: “GlaxoSmithKline to Plead Guilty and Pay $3 Billion to Resolve Fraud Allegations and Failure to Report Safety Data, Largest Health Care Fraud Settlement in U.S. History”. Vedi: http://www.justice.gov/opa/pr/glaxosmithkline-plead-guilty-and-pay-3-billion-resolve-fraud-allegations-and-failure-report consultato ott 2015.
h. Si veda la nota di J. Hopkins Tanne: “Pfizer pays record fine for off-label promotion of four drugs” in BMJ, 2009, 339, b3657; la nota indicava che la ditta era stata condannata a pagare 2,3 bn (miliardi) di dollari, ma, come notava il New York Times, tale enorme cifra corrisponde solo a meno di tre settimane delle vendite della ditta.
i. Lo “Skeptic dictionary” di Robert Todd Carroll così definisce un “seeding trial”: “A seeding trial is a pseudo-clinical trial designed by a pharmaceutical company to promote the use of a product that was recently approved by the U.S. Food and Drug Administration (FDA). Seeding trials are marketing trials designed to look like clinical trials. Their goal is to give the appearance of doing research while promoting a product. Seeding trials are not designed to discover if a product is safe and effective, but to get doctors to prescribe the product”.
j. Dizione anglosassone che io traducevo in “circo”; negli anni ’70 in Italia si avevano il “circo degli antiipertensivi”, quello degli “antireumatici”, degli “antibiotici” e molti altri. La definizione inglese è un mix di lingue, utilizzando per “bureau” il plurale in “s” dell’inglese in luogo della “x” del francese.
k. Il sito indicato elenca per ogni singolo Stato USA, per ditta e per singolo medico le somme ricevute da varie industrie dall’agosto 2013 al dic 2014.
l. Vedi: “Prolonged grief disorder”, in https://en.wikipedia.org/wiki con rif. a DSM IV e ICD-10. Nel DSM V la situazione è fortunatamente cambiata.
m. Questi dati sono stati in seguito soggetti a molte critiche e modifiche: vedi
http://www.systematicreviewsjournal.com/content/3/1/75 ; McCool M.E. et al., Syst Rev. 2014; 3: 75.
n. Per una completa rassegna del problema si veda: Lee Ventola C: “Direct-to-Consumer Pharmaceutical Advertising: Therapeutic or Toxic?” P T. 2011; 36(10): 669-674, 681-684. La spesa in USA per il DTCA è aumentata di 4,41 volte tra il 1998 e il 2007, passando da 1.2 a 5,3 miliardi di dollari. Molto di recente, l’AMA (American Medical Association) ha chiesto la abolizione per legge della DTCA (http://www.fedaiisf.it/ , 15 nov 2015)
o. Vedi: http://www.fda.gov/drugs/resourcesforyou/consumers , ultima revisione 19 giu 2015, visitato 22 ott 2015.
BIBLIOGRAFIA