Anno Accademico 2015-2016
Vol. 60, n° 2, Aprile - Giugno 2016
Simposio: La cronicità: impatto epidemiologico nel terzo millennio
22 marzo 2016
Simposio: La cronicità: impatto epidemiologico nel terzo millennio
22 marzo 2016
Versione PDF dell'articolo: Download
Ogni anno, nel mondo, muoiono 38 milioni di persone per malattie non trasmissibili, principalmente a causa di malattie cardiovascolari, tumori, malattie respiratorie croniche e diabete. Oltre 14 milioni di morti per malattie non trasmissibili si verificano nella fascia di età compresa tra 30 e 70 anni. Di questi l'85% avvengono in paesi in via di sviluppo (OMS).
Questa correlazione fra stato socio-economico e prevalenza di malattie croniche è documentata da vari studi che evidenziano come soggetti relativamente giovani residenti nelle aree più povere siano colpiti da multimorbosità nella stessa percentuale di persone di 10-15 anni più anziane che vivono in aree più ricche.
Con l’aumentare progressivo dell’aspettativa di vita, negli ultimi anni il tema della cronicità ha rappresentato, sempre più, la vera sfida per i sistemi sanitari dovendo affrontare una vera e propria “pandemia” rappresentata dalla crescita esponenziale del numero di pazienti, per lo più anziani, ad elevata vulnerabilità per la multimorbilità. Per quantificare questo fenomeno basti pensare che negli USA la malattia coronarica si manifesta come unica patologia solo nel 17% dei pazienti.1
L’aumento della prevalenza di malattie croniche gravi negli uomini ultra-70enni e nelle donne ultra-75enni ed il contestuale invecchiamento della popolazione ha determinato in Italia, secondo l’ISTAT tra il 2005 e il 2012, un aumento della percentuale di residenti con almeno una malattia cronica grave di circa 1,5 punti (da 13,3 su 100 residenti a 14,8 su 100 residenti).
Inoltre, secondo stime dell’OMS pubblicate nel 2014, in Italia le quattro principali malattie croniche (patologie cardiovascolari, tumori, diabete e BPCO) sono responsabili del 75% dei decessi ogni anno andando ad incidere pesantemente in termini di costi umani e finanziari sul bilancio dello Stato.
Il trend al rialzo della spesa sanitaria è confermato anche dalle previsioni della Commissione europea, dell’OCSE e del Fondo monetario internazionale secondo cui, tenendo conto dei principali driver di spesa, la quota percentuale della spesa sanitaria rispetto al PIL avrà un crescita tra il 40 ed il 60% nei prossimi quarant’anni2-4.
La maggior parte degli studi sull’impatto economico della salute nei Paesi avanzati, e dell’Unione Europea in particolare, si concentra attualmente sul costo della malattia, ovvero sulla quantità di risorse investite nella cura della malattia, nei sistemi sanitari, e sull’impatto negativo, in termini di guadagno perso e di perdita di produttività causati dalla malattia a livello socioeconomico.
Facilmente, si potrebbe commettere l’errore di pensare che se l’aspettativa di vita, già molto superiore all’età di pensionamento, dovesse crescere ulteriormente il numero di persone improduttive ed a carico della spesa pubblica aumenterebbe in maniera significativa. In realtà bisogna distinguere tra l'aspettativa di vita alla nascita e gli anni di vita in buona salute e quindi potenzialmente produttive. Grossman distingue tra salute come bene di consumo e salute come bene capitale. Mentre nel primo caso la salute risulta di utilità individuale nel secondo determina la fruizione e la spendibilità dell'individuo nell'attività lavorativa e non5. Pertanto risulta fondamentale prevenire l’insorgenza delle malattie croniche in quanto causa di contrazione della forza lavoro. Nonostante tali evidenze, la medicina moderna è ancora molto sbilanciata sul trattamento delle patologie acute e singole; addirittura le stesse linee guida, baluardo della medicina difensiva, possono essere uno strumento controproducente se non si considera che esse sono modellate sulla singola patologia, non contemplano il concetto di paziente complesso e non valutano i rischi legati alla polifarmacoterapia. In pratica non si è tenuto conto della crescita esponenziale del numero di pazienti critici e vulnerabili per la co-presenza di più malattie croniche. A conferma di questa affermazione uno studio di Barnett e coll. pubblicato su Lancet nel 2012, in merito alla prevalenza delle più frequenti malattie croniche in Scozia, ha dimostrato che il 42% della popolazione scozzese è affetta da almeno una patologia cronica, il 23% presenta comorbilità e l'8% la compresenza di una malattia fisica con una mentale.6 A peggiorare la situazione c’è stata la tendenza, per anni, a settorializzare gli interventi medici facendo sviluppare le branche specialistiche e ridurre drasticamente i reparti di medicina interna. Seguendo questo modello il paziente pluripatologico è stato, e ancora in larga parte lo è, esposto a processi di cura molto frammentati legati alla mancanza di una visione unitaria e multidisciplinare con conseguente ripetizione di iter diagnostico-terapeutici comuni a più malattie. Questo perché ogni specialista consultato concentra la propria attenzione sul trattamento della singola malattia piuttosto che agire sinergicamente sui meccanismi eziopatogenetici comuni. Non bisogna, infatti, dimenticare che la ricerca ha identificato mediatori comuni nei meccanismi fisiopatologici di molte patologie complesse quali la BPCO, il diabete, la cardiopatia ischemica e le malattie reumatiche. Inoltre, le singole patologie croniche si condizionano a vicenda determinando un nuovo stato morboso a cui non sono applicabili le linee guida diagnostico-terapeutiche progettate per pazienti differenti e per patogenesi specifiche della singola malattia. Naturalmente ciò si traduce non solo in una cattiva medicina per il paziente ma anche in una scarsa sostenibilità economica.
Proprio alla luce di queste evidenze e della crescita esponenziale della pluripatologia il medico internista sta riacquistando la rilevanza che gli compete connotandosi come lo specialista della complessità non solo clinico-biologica ma anche psico-sociale. L'internista è, di fatto, colui che possiede l'impostazione clinica e l'approccio globale al paziente pluripatologico complesso. È lui in grado di gestire piani terapeutici complessi (bisogna considerare che un paziente complesso mediamente assume 7 principi attivi) tenendo conto delle difficoltà di adesione da parte del paziente, delle eventuali reazioni avverse, delle interazioni, del metabolismo, della farmaco cinetica e quant’altro. La scarsa conoscenza di questi parametri è, di per sé, responsabile di un gran numero di ricoveri ripetuti.
BIBLIOGRAFIA