Dott. Giovanni Addolorato

U.O.C. di Medicina Interna II, Ospedale Columbus-Gemelli, Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2021-2022

Vol. 66, n° 2, Aprile - Giugno 2022

Simposio: La Sindrome Long-COVID

25 gennaio 2022

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COVID-19 e Burnout negli operatori sanitari: una sindrome Long-Covid?

T. Dionisi, G. Gasbarrini, A. Gasbarrini, G. Addolorato

In termini di Global Burden of Disease, attualmente il fattore con maggior impatto sulla salute pubblica in tutto il mondo è la COVID-19. A causa del Sars-CoV2, la morbilità e la mortalità della popolazione mondiale aumentano drammaticamente di giorno in giorno1. Si stimano circa 146 milioni di pazienti infetti da SARS-CoV-2 con oltre 7.5 milioni di ospedalizzazioni2.

Sappiamo oramai che a determinare una forma grave di COVID-19 concorrono vari fattori e comorbilità. Queste ultime condizionano in maniera determinante la gravità della malattia da SARS-CoV-2, la probabilità di ospedalizzazione ed in ultimo la prognosi del paziente.  Tra le comorbilità che accrescono significativamente il rischio di forme gravi, oltre alle patologie primariamente polmonari, si devono annoverare anche l’obesità, le insufficienze d’organo, le patologie psichiatriche e la gravidanza. Rientrano in questa lista anche condizioni di immunosoppressione, malattie oncologiche e le patologie più diffuse nel mondo occidentale come l’ipertensione ed il diabete. Il paziente con più comorbilità presenterà un rischio molto elevato di sviluppare forme severe di malattia e di essere ospedalizzato. Date queste premesse, appare evidente come la gestione di un paziente ospedalizzato per forma grave di COVID-19 debba essere di tipo specificamente internistico3.

Un interessante articolo che dimostra questa tesi, evidenzia proprio le complicanze più frequenti dei pazienti ricoverati per COVID-19 e tra queste, oltre a polmonite ed insufficienza respiratoria, frequentemente ricorrono anche l’insufficienza renale, l’acidosi e le diselettrolitemie. Il rischio di complicanze aumenta nelle pluricomorbilità anche per queste condizioni che attengono al background dell’internista, abituato a gestire quotidianamente questo tipo di complicanze4.

I dati appena descritti hanno ricadute importanti sugli operatori sanitari ed in particolare sui medici, come emerge chiaramente dall’analisi dell’impatto della pandemia su questa popolazione. Uno studio condotto in Italia nel settembre del 2020 ha evidenziato come la COVID-19 abbia avuto un impatto significativo sulla vita degli operatori sanitari. Sebbene, infatti, le ricadute sul personale sanitario siano simili a quelle della popolazione generale, l’effetto della pandemia sui primi è significativamente più alto in termini di fatica, di solitudine ed instabilità emotiva5.

Una recente metanalisi illustra poi come la COVID-19 abbia aumentato i livelli di ansia nel personale sanitario. Si stima che circa il 37% lamenti disturbi di ansia di tipo moderato e severo. Lo stesso vale per la depressione e per l’insonnia che nella stessa popolazione si attestano rispettivamente attorno al 36% per la prima ed al 30% per la seconda. Ansia, depressione, disturbo postraumatico da stress, insonnia e burnout hanno visto un significativo incremento percentuale nel corso di questa pandemia tra gli operatori sanitari6.

In molti casi si tratta di risposte acute allo stress, che spesso possono essere fisiologiche, di tipo adattativo. Gli effetti negativi di queste risposte sopraggiungono quando l'esposizione a un fattore di stress è prolungata o particolarmente intensa e variano ampiamente tra diversi individui esposti. Al fine di indirizzare efficacemente le misure di prevenzione, è quindi essenziale identificare i fattori che favoriscono lo sviluppo di patologie psichiatriche. Questi si possono raggruppare in fattori legati all’individuo (come il genere, l’età o il livello di istruzione), fattori connessi alla struttura in cui si opera (come il carico di lavoro e la ripartizione dei turni, il lavoro in prima linea, etc) e quelli inerenti alla comunità (come il livello di esposizione mediatica e l’assenza di supporto sociale).

Le donne, i frontline workers e gli infermieri, appaiono maggiormente esposti al rischio di subire l’impatto psicologico di questa pandemia. Sono comunemente inclusi tra i fattori di rischio anche la pressione professionale e il basso livello di sostegno da parte dell'amministrazione ospedaliera, della famiglia e della comunità7.

Tra le sindromi cliniche precedentemente elencate c’è anche il burnout, che può essere senza dubbio compreso nelle patologie Long-Covid. Si tratta di una sindrome clinica inserita nel DSM-V, risultante da uno stress cronico non gestito con successo sul posto di lavoro e caratterizzata da esaurimento emotivo, depersonalizzazione e ridotta realizzazione personale in individui professionalmente coinvolti con gli altri8. Quando si sviluppa tra gli operatori sanitari, il burnout è associato ad un aumento degli errori medici, a peggiori outcome per i pazienti, a ridotta qualità delle cure e minore soddisfazione del paziente, ad una minore soddisfazione, ad una ridotta produttività, e ad una minore sicurezza sul lavoro9. Nei medici, l'esaurimento emotivo in particolare è stato associato ad abuso di sostanze ed alla scarsa salute fisica auto-riferita; negli infermieri invece in relazione ad ansia, minore autostima e scarsa qualità della vita9.Lo sviluppo di sindrome da burnout nel personale sanitario impatta negativamente non solo sulla salute dell’operatore sanitario ma si ripercuote anche sulla struttura sanitaria e sul paziente.Il burnout costituisce per il sistema sanitario un rischio per l'adeguatezza del personale, in quanto contribuisce all'assenteismo, all'aumento del turnover della forza lavoro e alla maggiore probabilità che i professionisti abbandonino il loro lavoro9.

Già in epoca prepandemica, diversi studi dimostrano come i medici presentassero una prevalenza più alta di sindrome da burnout rispetto alla popolazione generale ed un aumentato rischio di sviluppare questa patologia10.

La situazione attuale, come è facile intuire, ha reso più grave tale condizione, generando  nuove fonti di stress per i professionisti derivanti dalla scarsa conoscenza della patologia e dalle gravi condizioni cliniche dei pazienti, dalla carenza di personale a causa della presenza di sintomi tipici della COVID-19, dall’esposizione a personale positivo e dalla conseguente quarantena, dall’aumento degli straordinari, dal presentismo e dalla riassegnazione a ruoli non familiari, tutte circostanze che provocano forte disagio morale. Il pericolo per la salute personale e della propria famiglia e l’incertezza sui rischi infettivi e sulle precauzioni da attuare rappresentano ulteriori e non meno importanti cause di disagio emotivo.

Altre misure di salute pubblica come la chiusura delle scuole e delle attività commerciali, hanno avuto un impatto sugli operatori sanitari creando difficoltà legate alla gestione degli obblighi lavorativi e di quelli personali o familiari. In una situazione pandemica sociale e sanitaria come questa, un aumento della prevalenza del burnout tra gli operatori del settore medico era inevitabile.

Poiché il burnout è il risultato di uno stress occupazionale cumulativo11, ci si aspetta che il suo impatto aumenterà nel tempo durante la pandemia, e sembra che lo stia già facendo.

Studi condotti tra aprile e maggio del 2020 in Italia e in Belgio hanno riportato un grave esaurimento emotivo del personale sanitario che raggiungeva il 32-41%. Percentuali tuttavia simili al benchmark pre-pandemia12-14.

Uno studio longitudinale condotto in Canada tra il marzo e il maggio del 2020 ha rilevato che l'esaurimento emotivo e la depersonalizzazione non sono cambiati, coerentemente con l'aspettativa che il burnout legato alla COVID-19 si sarebbe sviluppato lentamente15.

Ulteriori studi condotti alcuni mesi dopo, hanno individuato tuttavia un significativo aumento della prevalenza del burnout tra gli operatori sanitari. Un'indagine svolta da agosto a ottobre 2020, ha riscontrato poi una prevalenza di grave esaurimento emotivo (MBI-EE >26) del 63%16.

Un'indagine longitudinale condotta a Toronto da novembre 2020 a maggio 2021, ha rilevato prevalenza di burnout elevata e crescente. La prevalenza di grave esaurimento emotivo negli infermieri era del 54% (autunno 2020), 62% (inverno 2021), e 63% (primavera 2021), invece in tutti gli altri professionisti sanitari negli stessi periodi si attestava rispettivamente al 43%, 56%, e 62%17.Un'attenta lettura di questi dati, cronologicamente disposti, può spingerci ad annoverare il burnout tra le Long-Covid Syndrome.

Durante la prima ondata pandemica abbiamo condotto una survey dei medici che lavoravano nel COVID-team18. Gli obiettivi dell'indagine erano la valutazione dello stress percepito e il burnout prima, durante e dopo l'esperienza in un COVID-team, e l’identificazione dei sottogruppi di medici a più alto rischio di sviluppare burnout e stress. A questo scopo sono stati arruolati 51 medici che operavano nel COVID-team del Policlinico Gemelli.  Ai partecipanti è stato chiesto di completare il Maslach Burnout Inventory (MBI) e il Perceived Stress Questionnaire sul breve periodo (riferito agli ultimi 7 giorni) al baseline (T0) e poi per quattro settimane (T1-T4). Il Perceived Stress Questionnaire sul lungo periodo (riferito agli ultimi 2 anni) è stato completato solo a T0.

Rispetto agli specialisti in Medicina Interna, gli specialisti di altre discipline hanno ottenuto punteggi più alti nella scala di Emotional Exhaustion dell’MBI.

I punteggi nella scala della depersonalizzazione hanno mostrato una riduzione nel tempo e gli specialisti hanno ottenuto un punteggio più basso rispetto agli specializzandi in questa scala. Gli specialisti inoltre hanno ottenuto un punteggio superiore a quello degli specializzandi nella scala Personal Accomplishment. In particolare, la scala complessiva del PSQ a lungo termine ha predetto tutte e tre le scale di MBI nel nostro campione.

Gli specialisti in Medicina Interna potrebbero dunque essere i più qualificati nella gestione del paziente con Covid-19, poiché risultano essere i soggetti meno a rischio di sviluppare esaurimento emotivo e Burnout, esponendo di conseguenza a minor rischio la propria salute, quella del paziente e il funzionamento della struttura in cui lavorano. La stretta correlazione della scala MBI e PSQ sul lungo periodo evidenziata dal nostro studio, potrebbe inoltre giustificare uno screening dei medici coinvolti nelle emergenze simile alla COVID18.

In conclusione, la COVID-19 ha portato ad un preoccupante incremento del Burnout negli operatori sanitari, con importanti ripercussioni per la salute degli stessi, quella dei pazienti e dei sistemi sanitari. Si rivela importante intervenire per arginare questa vera e propria pandemia silente. La maggior parte dei fattori di rischio noti per il burnout si verificano a livello logistico, e proprio per questo gli interventi organizzativi sono più efficaci di quelli mirati al supporto dell’individuo nel ridurre il rischio di sviluppare burnout, come è stato dimostrato anche da una meta-analisi pre-pandemica19. La combinazione di interventi organizzativi e supporto individuale rivolto al personale ha portato a benefici maggiori e più duraturi20.

La riduzione della durata delle rotazioni del personale di assistenza, l’accorciamento dei turni di servizio, e il miglioramento della gestione del lavoro clinico attraverso il perfezionamento della comunicazione delle informazioni, di incontri clinici mensili, e la presenza di assistenti medici per l’inserimento dei dati in cartella clinica elettronica costituiscono adattamenti necessari per preservare la salute del personale sanitario21.


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