Anno Accademico 2021-2022
Vol. 66, n° 4, Ottobre - Dicembre 2022
Conferenza: Virus e cancro
07 giugno 2022
Conferenza: Virus e cancro
07 giugno 2022
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“Viviamo in un ambiente in cui danzano i virus; si spostano repentinamente, un po’ come le api, da organismo a organismo, da pianta a insetto a mammifero a me e tornano indietro e nel mare, strappando pezzi di genoma e, da questo, stringhe di geni, trasportando trapianti di DNA, passando intorno all’eredità come a un grande party”.
Lewis Thomas
Leggere ciò che qualche tempo fa ha scritto il medico ricercatore e poeta americano Lewis Thomas, ci dà un’idea immediata di un peculiare aspetto del mondo in cui viviamo, popolato oltre che dalla miriade di creature che siamo abituati a vedere, da un’infinità di elementi invisibili tra cui abbondano i virus. Sono virus sia a DNA che a RNA, alcuni per così dire buoni, altri cattivi, altri ancora molto cattivi, non infrequentemente coinvolti nella genesi dei tumori, sia dell’uomo che degli animali (virus oncogeni). Tra questi, i virus che hanno dato il maggior contributo inziale alla conoscenza della natura delle malattie neoplastiche, sono quelli che hanno condotto alla scoperta degli oncogeni, un evento che ha cambiato radicalmente non solo l’interpretazione dei meccanismi che stanno alla base della genesi del cancro, ma anche la diagnosi e la terapia di questa malattia.
Le prime osservazioni sui virus risalgono alla fine del XIX secolo, quando Louis Pasteur (1884) affermava che la rabbia era causata da “un microrganismo infinitamente piccolo”. L’esistenza dei virus era dedotta soprattutto dal fatto che alcune malattie potevano essere trasmesse mediante filtrati privi di cellule e gli stessi agenti infettivi erano suddivisi in due categorie in rapporto alla loro filtrabilità. Quelli che erano arrestati dai pori dei filtri erano considerati batteri, mentre si riteneva che le soluzioni di agenti infettivi talmente piccoli da attraversare i filtri, contenessero virus.
Nel mondo vegetale, usando filtri di porcellana per bloccare il passaggio di ogni microrganismo visibile al microscopio, per la prima volta nel 1892 il botanico russo Dimitri Ivanowski era riuscito a trasmettere la malattia denominata mosaico del tabacco (formazione di macchie di colore giallo o verde sulle foglie di varie piante con distruzione dei cloroplasti).
Nel mondo animale, furono invece due ricercatori danesi, Vilhelm Ellerman e Oluf Bang, a trasmettere per la prima volta, nel 1908, l’eritroblastosi aviaria mediante un filtrato privo di cellule.
Questi esperimenti, tuttavia, non ebbero seguito e va attribuito a Peyton Rous (1879-1970) il merito di aver fondato, con i suoi studi, la virologia dei tumori all’inizio del XIX secolo.
Rous aveva circa 30 anni nel 1909, quando un allevatore gli portò una gallina che aveva un tumore sotto un’ala, asserendo che molti polli stavano morendo per quella malattia. Preparato un filtrato senza cellule di un campione di quel tumore, un sarcoma, lo inoculò in polli sani, osservando che dopo qualche settimana tutti avevano sviluppato lo stesso tumore. Inoltre, anche questi tumori indotti potevano essere omogenati e fornire un agente infettivo filtrabile che poteva essere trasmesso ad altri esemplari della stessa specie che sviluppavano un sarcoma nel sito d’iniezione1 (Fig. 1).
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Era la dimostrazione che il tumore conteneva un agente filtrabile, cioè un virus (poi identificato come un RNA-virus e denominato virus del sarcoma di Rous - RSV -), che aveva un ruolo etiologico. Alla scoperta, tuttavia, non fu data importanza poiché a quel tempo si riteneva che i tumori non potessero avere un’origine infettiva, nonostante altri virus oncógeni, come quello responsabile del mixoma dei conigli, fossero stati riportati già nel 1911.
Anche James Ewing, come riportato nel suo trattato di oncologia (1919), riteneva più probabile che ad agire fossero sostanze chimiche capaci di stimolare la crescita neoplastica, piuttosto che un virus passato attraverso il filtro, sulla cui esistenza non c’erano prove. Addirittura lo stesso Rous abbandonò lo studio del virus da lui scoperto per esplorare altri aspetti della ricerca sul cancro.
In verità, l’origine infettiva dei tumori fu anche screditata da un episodio singolare. Il medico danese Johannes Fibiger (1867-1928) aveva riscontrato in alcuni ratti catturati a Dorpat, una città dell’Estonia, tumori gastrici contenenti un nematóda, poi denominato Spiroptera neoplastica. Questi vermi furono trovati anche nello stomaco di ratti, vissuti in una raffineria di zucchero piena di scarafaggi, insieme a estese proliferazioni neoplastiche papillomatose, che fu possibile riprodurre nutrendo i ratti con tali scarafaggi. Sulla base di queste osservazioni, nel 1913 Fibiger affermò che i tumori gastrici erano generati da un’irritazione meccanica e chimica del parassita che si sviluppava nello stomaco dei ratti che mangiavano gli scarafaggi in cui il verme era presente allo stato di larva. Il conferimento a Fibiger del Premio Nobel per la Fisiologia o la Medicina nel 1926 per questa scoperta, ritenuta di straordinaria importanza, consolidò inizialmente la teoria che i tumori potessero realmente avere un’origine infettiva. Purtroppo, in breve tempo si poté dimostrare che quelli descritti dal ricercatore danese non erano affatto tumori, ma alterazioni metaplastiche dell’epitelio gastrico dovute a gravi deficit di vitamine causati dal fatto che i ratti si nutrivano quasi esclusivamente con canna da zucchero.
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Passarono alcuni decenni prima che le ricerche su RSV riprendessero al California Institute of Technology (Caltech), Pasadena, nel laboratorio diretto da Renato Dulbecco (1914-2012). Nel 1958 Howard Temin (1934-1994) (Fig. 2), un giovane che stava svolgendo la tesi di dottorato di ricerca sul virus del sarcoma di Rous nel laboratorio di Dulbecco - osservò (insieme a Harry Rubin) che i fibroblasti di embrioni di pollo infettati da RSV davano origine a foci di cellule rotonde, che si differenziavano nettamente dalle cellule normali. Quando i fibroblasti normali di pollo sono posti in una piastra di Petri formano colonie che si moltiplicano fino a occupare tutta la superficie disponibile, dopo di che la proliferazione si arresta per inibizione da contatto, dando origine a un monostrato di cellule quiescenti. Se però una di queste cellule è infettata con RSV assume, insieme alla sua progenie, una morfologia rotonda, molto simile a quella del sarcoma dei polli, e perde l’inibizione da contatto, continuando a proliferare e accumulandosi per formare un focus.
L’impatto di questa semplice osservazione su tutta la futura ricerca sul cancro fu enorme. Non era più necessario studiare i tumori nel complesso ambiente degli esseri viventi. Era sufficiente esaminare al microscopio il comportamento di cellule singole coltivate in vitro2.
Pochi anni dopo, nel 1961, fu dimostrato che RSV conteneva un genoma a RNA.
Da parte sua, Dulbecco cominciò a rivolgere l’attenzione ai virus oncogeni in seguito ai brillanti risultati di Temin e Rubin sull’RSV, ma scelse di studiare i virus a DNA, soprattutto il virus SV40 (Simian Virus 40) e il poliomavirus.
Il problema non era soltanto scoprire come il virus oncogeno potesse iniziare la trasformazione neoplastica, ma anche come riuscisse a mantenere il fenotipo trasformato delle cellule infettate.
Con esperimenti complessi e pioneristici, Dulbecco riuscì a dimostrare che il DNA virale si integrava nel DNA della cellula ospite e poteva così essere trasmesso ai discendenti nel corso di numerose divisioni cellulari, come se fosse un gene cellulare.
Da un punto di vista concettuale, accettare che il genoma di un virus a DNA si integrasse nel DNA della cellula ospite non era un problema. Ma come riusciva il virus del sarcoma di Rous a trasmettere il proprio genoma attraverso una lunga serie di generazioni cellulari? La soluzione di questo problema appariva molto più ardua poiché l’informazione genetica dell’RSV era contenuta in un filamento singolo di RNA che non poteva essere integrato direttamente nel genoma della cellula infettata. Il dogma centrale della biologia molecolare, infatti, postulava che la trasmissione dell’informazione poteva avvenire solo in una direzione DNA → RNA → Proteine3. Ammettere un percorso inverso era considerata un’eresia. Così, quando nel 1964 il giovane Temin(aveva 30 anni), nel tentativo di risolvere un problema apparentemente irrisolvibile, propose la DNA provirus hypothesis4, fu ridicolizzato dalla comunità scientifica e l’ipotesi sdegnosamente bocciata come sciocca e priva di basi concettuali.
Temin aveva ipotizzato che le particelle di RSV, una volta penetrate nella cellula, sintetizzassero un doppio filamento di DNA a partire dal loro filamento singolo di RNA e che fosse questo DNA a integrarsi nel genoma dell’ospite. Una volta integratasi, la versione DNA del genoma virale (da lui denominata provirus) non era dissimile da un gene cellulare e poteva, pertanto, essere replicata e trasmessa alle cellule figlie ogni volta che veniva replicato il DNA cromosomico dell’ospite.
Dovettero trascorrere altri sei anni prima che riuscisse a dimostrare la fondatezza dell’ipotesi che postulava la possibilità di una trascrizione inversa (sintesi di DNA dell’RNA), scoprendo la presenza di una trascrittasi inversa, capace di sintetizzare DNA usando come stampo RNA5.
Nello stesso anno, un altro giovane ricercatore del Massachusetts Institute of Technology (MIT), David Baltimore, ottenne in modo autonomo lo stesso risultato6.
La scoperta della trascrittasi inversa si rivelò una delle più importanti in campo biologico sia da un punto di vista generale sia, in particolare, nella ricerca oncologica. Ben presto divenne evidente che la trascrizione inversa era una prerogativa di tutti i virus a RNA, che cominciarono a essere chiamati retrovirus per evidenziare il fatto che utilizzavano un percorso inverso, rispetto a quello abituale, per trasferire l’informazione genetica.
Risolto il problema di come un virus a RNA riusciva a integrarsi nel DNA della cellula ospite, bisognò affrontarne subito un altro. In che modo i virus oncógeni a RNA causano il cancro?
È opportuno ricordare che negli anni 1960 Bruce Ames dell’University of California (UC), Berkeley, aveva dimostrato che i composti chimici - capaci di generare il cancro negli animali da esperimento - causavano anche mutazioni nei batteri, inducendo a ritenere che l’azione cancerogena fosse legata all’azione mutagena.
In quegli anni non erano ancora disponibili i metodi attuali per studiare il DNA e, di certo, la semplice associazione tra esposizione a un agente mutageno e aumento di incidenza dei tumori non poteva essere considerata una prova decisiva della correlazione tra mutazioni e cancro. Era necessario il riscontro diretto di geni mutati nelle cellule cancerose, anche di un solo gene. Come fare?
Un contributo decisivo a dare la risposta a questo quesito fu apportato dalla scoperta di due mutanti di RSV.
Nel 1970 Steve Martin, che dopo la laurea aveva iniziato a lavorare nel laboratorio di Harry Rubin all’UC, Berkeley, comunicò di aver prodotto (usando agenti chimici) una versione mutante di RSVtermosensibile7. Quando fibroblasti normali di embrioni di pollo sono infettati con mutanti termosensibili di RSV e coltivati a bassa temperatura (Fig. 3), l’azione trasformante del virus può essere espressa e le cellule cambiano forma (vanno incontro a trasformazione). Se, invece, le cellule infettate sono tenute a temperatura più alta, conservano la loro morfologia. Se la temperatura delle colture è successivamente cambiata, le cellule trasformate riacquisteranno l’aspetto normale e viceversa. Il fatto di riacquistare la morfologia trasformata con la diminuzione della temperatura indica che il genoma virale continua a essere presente nelle cellule alla temperatura più alta, nonostante il loro aspetto normale. Infatti, le cellule formano nuove particelle virali a entrambe le temperature.
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Ciò significava che il virus mutante aveva un gene alterato (oncogéne) necessario per indurre la trasformazione, la cui funzione era inattivata dalla temperatura elevata. Evidentemente, il genoma di RSV produceva una qualche proteina termolabile (la cui natura precisa non era ancora nota) che, denaturata (inattivata) dalle alte temperature, non consentiva il mantenimento delle cellule in uno stato trasformato, mentre poteva svolgere la sua normale funzione se riattivata dalla diminuzione della temperatura.
Ma qual era questo oncogene che produceva una proteina trasformante?
Studiando il genoma dei retrovirus, si poté osservare che, rispetto al virus della leucemia aviaria (ALV, avian leukosis virus), un agente infettivo relativamente comune dei polli contenente i tre geni strutturali tipici dei retrovirus (gag, pol e env) - il genoma di RSV (Fig. 4) conteneva un altro gene, denominato src (pronuncia “sark”) o v-src (src virale) per indicare la sua capacità di indurre sarcomi nei polli. Era questo gene mutato a codificare la proteina detta Src che determinava la trasformazione della cellula.
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Oltre a dimostrare la presenza nel genoma virale di un oncogéne che esercitava la sua azione tramite la formazione di una proteina termolabile, gli esperimenti di Martin evidenziarono un altro fatto importante. Poiché il mutante di RSV si moltiplicava sia alle alte che alle basse temperature, l’oncogéne v-src non era necessario per la moltiplicazione. In altri termini, il genoma virale conteneva altri geni capaci di fornire tutte le istruzioni per la produzione di ogni componente delle particelle virali: i geni preposti alla replicazione del virus erano diversi da quelli usati per la trasformazione.
Aver stabilito la presenza di un oncogene nel virus del sarcoma di Rous, non era però sufficiente poiché era necessario dimostrare la presenza del DNA di RSV anche nel genoma delle cellule animali.
La scoperta della trascrittasi inversa nelle particelle virali aveva indotto molti scettici della prima ora ad accogliere l’ipotesi provirale di Temin ancor prima che il DNA virale fosse realmente riscontrato nel genoma delle cellule infettate. Eppure, una siffatta evidenza rappresentava di certo una tappa indispensabile per una dimostrazione diretta dell’esistenza di un oncogéne nel genoma delle cellule animali.
Ed ecco venire in aiuto il secondo mutante di RSV, scoperto da Peter Vogt, un ricercatore che aveva iniziato a studiare l’RSV nel laboratorio di Harry Rubin alla UC, Berkeley.
Questo mutante presentava la perdita (delezione) di circa 2.000 dei 9.000 o 10.000 nucleotidi del suo genoma corrispondente proprio al gene v-src. Infatti, il virus mutato aveva conservato la capacità di moltiplicarsi ma non quella di indurre la trasformazione delle cellule, e poiché quest’ultimo fatto era osservabile - a differenza del mutante di Martin - a qualsiasi temperatura, risultava evidente che la perdita del gene era reale e completa e non consisteva in una mera alterazione della funzione, cioè della capacità trasformante del virus.
Ad affrontare in maniera risolutiva il problema furono Michael Bishop e Harold Varmus, che nel 1970 iniziarono a collaborare in ricerche sull’RSV all’University of California, San Francisco.
Fin dagli anni 1960 si sapeva che i geni delle cellule embrionali murine normali potevano produrre proteine retrovirali o retrovirus, a dimostrazione che geni retrovirali erano presenti nel genoma della cellula normale. Era possibile, si chiesero i due ricercatori, che nel DNA delle cellule normali di pollo si trovasse il gene src, causa del sarcoma di Rous? Per scoprirlo era necessario costruire una sonda molecolare di DNA marcata specifica per il gene v-src. Sonda che essi costruirono nel 1974, usando la tecnologia del DNA ricombinante e il mutante di Vogt8, 9.
L’ipotesi più ovvia era che, prima dell’infezione, le cellule non avrebbero dovuto contenere nel loro genoma sequenze di DNA correlate al gene src, che invece dovevano facilmente riscontrarsi dopo l’infezione perché apportate da RSV.
Nel 1975, invece, Bishop e Varmus giunsero a risultati completamente diversi da quelli attesi. Le sequenze correlate al gene virale src erano presenti nelle cellule non infettate in duplice copia, come se fossero geni cellulari normali del genoma diploide dei polli. Col tempo furono in realtà riscontrate in tutti gli animali multicellulari (compreso l’uomo), anche in specie apparse prima degli uccelli. Ciò significava che il DNA src era stato conservato per centinaia di milioni di anni durante l’evoluzione e, quindi, doveva contenere informazioni molto utili per gli organismi.
Accertato che src come gene cellulare normale, denominato c-src (cioè, src cellulare), doveva svolgere un ruolo fisiologico importante nell’organismo ospite (pollo), come poteva spiegarsi la presenza di un gene src virale (v-src) con capacità trasformante? Come mai, due geni strettamente correlati tra loro avevano funzioni così diverse? Nel genoma della cellula, il gene c-src svolgeva funzioni compatibili con lo stato di normalità. Nel genoma di RSV, invece, il gene v-src era in grado di trasformare una cellula normale di pollo in una cellula tumorale, agiva cioè come un oncogéne.
La spiegazione più plausibile sembrò ammettere che il gene src di RSV non era presente nei retrovirus comparsi prima di RSV. Questi retrovirus ancestrali avevano la capacità di infettare i polli e di moltiplicarsi in essi e, durante una di queste infezioni, uno di essi catturò casualmente, dal genoma della cellula ospite, una sequenza di DNA (per es. la sequenza src) incorporandola nel proprio genoma che, in tal modo, veniva a essere costituito da quattro geni, uno in più rispetto ai tre normalmente esistenti in tali retrovirus. Una volta presente nel genoma di RSV, il gene src andò incontro a una mutazione e, così alterato, fu usato dal virus per trasformare le cellule successivamente infettate.
Quale precursore di un oncogéne attivo, c-src fu poi chiamato proto-oncogéne (Tab. 1). Ciò significava che il genoma di cellule normali di vertebrati conteneva un gene che, in certe circostanze, poteva svolgere una funzione trasformante e generare un cancro: diventare cioè un oncogéne.
Inoltre, se i retrovirus erano in grado di attivare un proto-oncogéne in un oncogéne, era verosimile che eventi mutazionali di vario tipo potessero ugualmente modificare proto-oncogéni cellulari, trasformandoli in oncogéni senza la necessità di rimuoverli dal sito cromosomico in cui normalmente si trovano. Probabilmente, fu questa predizione la più grande eredità lasciata dalla ricerca sui precursori cellulari dell’oncogenesi virale.
In accordo con la virologa Janet Butel, come strumento di ricerca i virus sono comparabili alla stele di Rosetta, per aver svelato i misteri del controllo della crescita cellulare.
Il gene cellulare normale (c-src) è stato chiamato proto-oncogene, quale precursore di un oncogene attivo (v-src). |
La trasformazione dell’uno nell’altro può avvenire per eventi mutazionali di vario genere. |
Proto-oncogeni: Geni normali che codificano proteine che trasmettono alla cellula segnali proliferativi. |
Oncogeni: Forme mutate o iperespresse di proto-oncogeni che determinano la produzione di forme modificate o quantità eccessive di proteine stimolanti la proliferazione cellulare. |
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BIBLIOGRAFIA