Anno Accademico 2022-2023
Vol. 67, n° 2, Aprile - Giugno 2023
Conferenza: Citazioni artistiche ne 'A la recherche du temps perdu' di Marcel Proust. Nel centenario della morte dell’Autore
21 marzo 2023
Conferenza: Citazioni artistiche ne 'A la recherche du temps perdu' di Marcel Proust. Nel centenario della morte dell’Autore
21 marzo 2023
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Sono ormai da tempo nel mio novantesimo anno, che sta scomparendo. Da molti anni, e ne sono molto grato, l’Accademia Lancisiana, che mi ha eletto tra i suoi soci “titolati” nominandomi “accademico”, mi permette di essere presente a queste sedute come “conferenziere”, anche se spesso i miei contributi sono ormai, potrei dire, abbastanza collaterali alla Medicina. La Medicina a questo punto, infatti, mi vede sempre più spesso, dopo 66 anni dalla laurea, in veste di “utente” (come ora si dice) e certo non di “provider” (come ormai negli USA, giusto o sbagliato che sia, il Medico è indicato); non ho ancora, per fortuna, assaggiato da paziente quello che un tempo era, dal Medio Evo, l’ospedale e che ora, giusto o sbagliato che anche qui sia, è indicato come Azienda Ospedaliera. Sunt nomina rerum. Gli antichi colleghi e quelli che si indicavano come Maestri sono in gran parte solo nei miei ricordi e malgrado la loro personale gentilezza, i giovani ai quali a volte chiedo consiglio mostrano con molto garbo il loro per forza nascosto pensiero: “Caro collega, hai 90 anni, ringrazia Iddio, se ci credi; o la Fortuna, altrimenti”.
Mi rifugio allora, ringraziandone Iddio, in quel poco (quel tanto) che la mia seconda laurea alla Sapienza (quella in Storia dell’Arte, colta quando ormai avevo 77 anni, 53 anni dopo la prima) mi offre come aiuto al vivere. Come dice Seneca: “Finché viviamo dobbiamo imparare l'arte di vivere” e, in questo, questo mio rifugiarmi nell’arte mi è di molto aiuto e, di conseguenza, penso sia indirettamente di molto aiuto anche a chi (figli e nipoti e pronipoti) per vicinanza di affetti, mi vive vicino, anche se non accanto; ai quali cerco, per quanto possibile, di non essere troppo di peso.
Come si sa, anche se non sono molti ad aver letto interamente l’opera (quasi 4000 pagine, distribuite in numerosi volumi a seconda delle edizioni, pubblicate tra il 1913 e ben oltre la morte dell’autore nel 1922, fino al 1927), alla fine “A la recherche du temps perdu” di Marcel Proust risulta in una sorta di immenso affresco della società di quegli anni, rivissuta attraverso la Memoria e il Tempo (su cui avevano di recente portato l’attenzione da diversi punti di vista il filosofo Bergson e il fisico Einstein); con una struttura circolare, in cui l’inizioa “Longtemps je me suis couché” si lega alla fine: “Dans le temps”; di certo non semplice aggancio [si sa che il primo volume venne rifiutato da ben due editori, di cui uno (“La nouvelle Revue Française”) aveva come lettore André Gide, che poi si pentì del suo iniziale giudizio negativo] e venne pubblicato dal giovane Bernard Grasset a spese dell’autore; uno degli ispiratori reali del romanzo, icona del clima decadente, languido, estetizzante di quel momento, Robert de Montesquiou, che nel romanzo è il barone Charlus (lo mostro nella sua figura reale, in un ritratto che si deve a James Whistler e in un altro che si deve a Boldini), lo definì “un misto di litanie e di sperma”, e lo stesso Proust disse che “nessuno ci capì niente”. Il 30 dicembre 1919 uno dei volumi fino allora pubblicati (“All’ombra delle fanciulle in fiore”) ricevette il prestigioso “Prix Goncourt” in un clima che procurò non pochi dispiaceri a Proustb. Non che in queste 3000 e passa pagine (che sono state definite “un romanzo comico, tragico, d’avventure, eroico, poetico, onirico, unico”) non si parli di Medicina: Proust era figlio e fratello di medici; il padre, che appare sia in un dipinto di Lecomte du Nouy sia in una foto del famoso Nadar, in entrambi ha circa 50 anni, era un professore di Igiene, autore di un importante trattato su quella branca della Medicina e aveva ricevuto la Legion d’Honneur per aver evitato alla Nazione una epidemia di colera; il fratello Robert, mostrato in una fotografia insieme alla madre Jeanne Weil, era un urologo; lo stesso Marcel è dominato dall’asma bronchiale1, una malattia che a quel tempo -l’allergologia si può dire non era ancora nata e l’immunologia era ai primi vagiti- veniva considerata una malattia su base nervosa, tanto che negli ultimi venti anni della sua vita si confinò in pratica in una stanza tappezzata di sughero, dal 2021 ricostruita al Museo Carnevalet di Parigi; e alcuni medici2 (il dottor Cottard fissato con la dieta lattea e un po’ pettegolo; il dottor Potain che fa quel che può -e non può, secondo Cottard, un gran che; il dottor Percipied, un burbero benefico destinato a far ridere per le grosse sopracciglia e il tono grave della voce; o il dottor de Boulbon del quale Cottard è decisamente convinto che gli porti via i clienti) vi sono citati, spesso con estrema ironia (si pensi alla straordinaria descrizione della visita che il prof. Dieulafoy fa nel romanzo alla nonna del Narratorec; Dieulafoy tra l’altro era nella realtà un eccellente medico dell’Hotel Dieu di Parigi anche se in lui si può ritrovare qualche carattere del famoso Babinsky, quello del segno neurologico).
Ma i pilastri del romanzo sono decisamente altri: Bergotte, nella realtà forse Anatole France, lo è per la creazione letteraria; Vinteuil, forse Cesar Frank o Camille Saint-Saens o Gabriel Fauré, con la sua sonata lo è per la genesi musicale; la Berma, Sarah Bernhardt, riassume la scena teatrale del mondo; ma è soprattutto il pittore Elstir, in cui si rispecchiano probabilmente Edouard Manet e Claude Oscar Monet, che comparendo già nel primo volume vi sopravvive fino alla fine, colui che rappresenta con la sua arte il sogno romantico e simbolista che era condiviso da Mallarmé e Wagner e al quale tende lo stesso Marcel: quello di una sintesi di tutte le arti. Tuttavia, queste “corrispondenze” tra personaggi reali e personaggi del romanzo vanno prese sempre con molta cautela, come spiega lo stesso Proust: “…le chiavi dei miei libri...mi è impossibile darle. Non che abbia paura o che voglia nasconderle; ma ce ne sono troppe per ogni personaggio. Anche se le dessi tutte, ci si potrebbe ingannare ed immaginare, per errore o per piacere, che c'è più di quello o più di quell'altro. E, in ogni caso, non è importante"4.
Ci sono, sparsi qua e là ma soprattutto nelle lettere che Proust scrive al suo amico-compagno Reynaldo Hahn, un musicista e direttore d’orchestra venezuelano, dei suoi disegni che mostrano come egli fosse anche dotato di una notevole ironia, ma qui appuntiamo l’attenzione sui rapporti tra “La recherche” e la pittura.
La pittura per Proust è “una cosa mentale”, riprendendo un concetto di Leonardo5 (ed è interessante da un certo punto di vista: basta riandare al concetto di malattia su cui tanto si è soffermato nella sua lunga vita quel gigante del pensiero medico che è Vito Cagli6, che la stessa cosa si possa dire della Medicina): “ i miei occhi, istruiti da Elstir- scrive Proust- sono arrivati a privilegiare proprio gli elementi che all’inizio scartavo a bella posta; contemplano lungamente ciò che all’inizio non erano stati capaci di vedere”: che, in fondo, è quel che fa il medico utilizzando per la diagnosi (estraendoli con il suo senso clinico) solo alcuni fra gli infiniti elementi che la semeiotica di un tempo e la tecnica odierna gli mettono a disposizione. Prendiamo ad esempio l’episodio in cui è coinvolto proprio Bergotte al momento della sua morte, un tratto molto lavorato e sofferto da Proust, che vi prefigura la sua stessa morte. Lo scrittore è descritto in genere come un uomo dolce e di grande bontà (anche se alla fine mostrerà anche lui i suoi difetti umani: una propensione agli onori e alla presenza di giovani donne che -dice- gli sono “necessarie per l’ispirazione”). La sua salute nel corso degli anni mostra delle crepe e ne “La prigioniera” (siamo al quinto tomo del romanzo) ha avuto un attacco di uremia; ma sapendo che in una mostra è esposta la “Veduta di Delft” di Jan Vermeerd, un quadro da lui molto amato ma che non vede da molto tempo, mangia qualche patata, esce di casa e va alla mostra. Un brano di una critica attira la sua attenzione su alcuni particolari del dipinto che fino allora non aveva mai notato: i piccoli personaggi sulla riva del fiume, macchioline blu e bianche sulla spiaggia rosa, e soprattutto “la preziosa materia di un piccolo pezzettino di muro giallo”. Quel pezzettino di muro giallo lo stordisce, cattura la sua attenzione “come una farfalla che appare ai desideri di un bambino”. E ripensa in quel momento che “così avrei dovuto scrivere i miei libri, avrei dovuto metterci più colore, ottenere frasi preziose come quel pezzettino di muro giallo” e sente di aver perso la sua vita non avendo mai dipinto nei suoi libri nulla come quel pezzettino di muro giallo del dipinto di Vermeer; e guardandolo, va ripetendosi: “quel pezzettino di muro giallo, come una tenda da sole…” (si sa che Marcel diceva spesso alla fedele governante Céeste Albaret: “Ah, Céleste, se fossi sicuro di poter fare con i miei libri quello che mio padre ha fatto per i malati!”4). Si deve sedere, colpito al cuore da quel pensiero, su un canapé, viene colpito da un nuovo attacco, cade a terra e muore; ma scrive Proust, “muore per sempre? chi può dirlo?”. Quel rettangolino di muro giallo mi fa pensare a quando, nei dubbi della diagnosi, appare improvvisamente un dato, quale che sia, che mette a posto tutto il problema, lo risolve, lo chiarisce e al quale magari prima non avevamo assegnato tutto il suo valore.
Un altro personaggio chiave del racconto è Swann, dandy fortunato, discreto, elegante, lucido, ironico, fine e colto conoscitore d’arte, di cui in pratica non si sa come viva, se non che sta scrivendo da sempre una vita proprio su Vermeer e che possiede una proprietà nei dintorni di Combraye; proprio come capita, a ben vedere, a Marcel. Swann si innamora follemente di Odette, una donna facile e venale che dopo molte vicende finirà anche per sposare. Per Swann, Odette assume allora l’aspetto di un dipinto famoso di Gustave Moreau, (“L’apparizione”) in cui coesistono diverse personalità: quella di una mantenuta, un amalgama di elementi ignoti e diabolici, avvolta da fiori venefici intrecciati con gemme preziose e nello stesso tempo capace di sentimenti di pietà per gli infelici, di rivolta contro le ingiustizie, di gratitudine per un dono. Per lo più, specie all’inizio o dopo uno dei tanti incidenti di incomprensione, Odette gli ricorda le donne di Botticelli, quelle che circondano la Primavera; o la Venere che insieme alle “Tre Grazie” offre doni a una giovane; o persino, ma sempre pensando a Botticelli, alla “Vergine del melograno”: con quell’aria “abbattuta e triste che sembra piegarsi davanti a pesi per loro troppo gravi” (e allora viene in mente che di recente nel melograno di quest’ultima opera un chirurgo italiano, Davide Lazzeri7 ha voluto ritrovare, come scrive, “l’anatomia perfetta di un cuore. La disposizione dei semi e dei setti del frutto sbucciato disegna i due atri del cuore, i due ventricoli e il tronco polmonare principale. Perfino la corona della melagrana è separata in due parti che mimano la vena cava superiore e l’arco dell’aorta con le sue tre branche”.
La cultura pittorica di Swann è enorme, infinita; per cui quando arriva a una serata musicale organizzata dalla Marchesa di Saint Euverte e si trova attorniato da una turba di lacchè intabarrati e stivalati, gli viene subito in mente (“uno di loro aveva un aspetto particolarmente feroce e sembrava pronto a martirizzarlo, avanzando su di lui per prendergli il soprabito e il cappello”) di essere una specie di Sant’Agata circondata dai suoi torturatori, come nel dipinto di Sebastiano Luciani, detto Sebastiano del Piombo.
La capacità di Proust di associare un dipinto, anche di un autore non particolarmente noto, con uno dei suoi ricordi è evidente, per esempio, quando, avendo per la prima volta incontrato in un piccolo ristorante di Rivabelle (che può far pensare alla bettola di Père Ganne a Barbizon in cui si radunavano i preimpressionisti o barbizonniers alla Théodore Rousseau) il famoso pittore Elstin e avendo scambiato con lui qualche parola, si ripromette di andare nei giorni seguenti al suo atelier per ammirarne le opere; ma per il sentiero su cui si avvia incontra per caso una ragazzina (che poi sarà Albertine, uno dei personaggi più importanti del romanzo), “testa bassa come un animale che si è fatto rientrare suo malgrado nella stalla”, seguita da una persona autoritaria, con ogni probabilità la sua governante “inglese”: e quest’ultima gli fa venire in mente, per le guance rosse “come se la sua bevanda preferita fosse il gin invece che il tè”, un dipinto (del 1730) di William Hogarth con Elizabeth Jeffreys che mostra appunto, come il marito, questo particolare. E da quel momento –per lunghe pagine- il discorso devia sull’“innamoramento” che coglie Marcel per quella fanciulletta e per tutte le sue amichette, per cui lui si cambia d’abito ogni giorno e fa venire da Parigi nuove cravatte e nuovi cappelli.
O ancora, sempre a proposito di quella capacità associativa tra memoria e arte (e, se possibile, ancora più incredibilmente), quando ricorda un episodio avvenuto nella sua infanzia, sempre a Combray durante le vacanze di Pasqua nella villa della zia Léonie: finita la cena, il bambino (che poi sarà “il Narratore” del romanzo) viene mandato in camera sua a dormire senza aver potuto abbracciare la mamma come al solito. Il ricordo fa riaffiorare l’ansia di quei momenti, ove si sarebbe scatenato il rimprovero del padre nel caso lo avesse trovato ancora alzato entrando nella stanza. E il padre entra (sarà invece molto comprensivo, quella volta, nei confronti dell’irrefrenabile pianto del bambino e inviterà la moglie e restare con lui nella notte per consolarlo) e gli appare “alto, grande, nella sua camicia da notte bianca, sotto il cachemire indiano viola e rosa che si annodava intorno alla testa da quando soffriva di nevralgie, con il gesto di Abramo nell’incisione (tratta da) Benozzo Gozzoli … in atto di dire a Sara che deve separarsi da Isacco”. Si tratta, a ben vedere, di una incisione che il Conte Carlo Lasinio aveva ottenuto nei primi anni dell’‘800 dall’affresco di Benozzo nel camposanto di Pisa (un’opera importante certo e che andrà quasi completamente distrutta durante la seconda guerra mondiale, ma non conosciutissima al tempo di Proust), incisione che Swann nel romanzo ha regalato al ragazzo; ma è impressionante come Proust riesca ad agganciare questa incisione al suo ricordo del padre. È vero che Marcel ha vissuto la sua infanzia con una nonna materna alla quale ha voluto un bene del tutto particolare, una donna fantastica e originale che “cercava almeno di ridurre, se non di eliminare completamente, la banalità commerciale e di sostituirvi per quanto possibile l’arte o almeno vari spessori dell’arte; così -dice Proust- invece di regalare” al nipote “delle fotografie (della cattedrale di Chartres, dei grandi getti d’acqua di Saint Cloud o del Vesuvio) chiedeva a Swann se qualche grande artista non avesse dipinto quei luoghi e preferiva darmi, per dire, una riproduzione del Vesuvio di Turner”; e per i capolavori che non era possibile, per varie ragioni, vedere e conoscere direttamente preferiva ancora e sempre, ottenere e mostrare al nipote delle incisioni antiche, come ad esempio, per l’allora quasi scomparso “Cenacolo” di Leonardo, l’incisione che ne aveva fatta, alla fine del secolo precedente il suo, Raffaello Morghen.
Questa capacità associativa tra il pensiero e la pittura è presente anche in maniera sbalorditiva (e forse esagerata) nello stesso Swann, secondo cui nel “Corteo dei Magi” dello stesso Benozzo Gozzoli (un autore di pieno quattrocento) in cui vengono in maniera anacronistica raffigurati molti dei Medici, la famiglia fiorentina, si sarebbero potuti facilmente riconoscere tutti i parigini di qualche notorietà, notabili, uomini politici, avvocati e, ovviamente, medici alla moda, magari, ma è naturale, abbigliati diversamente. Ma la cultura di Swann, che poi è quella di Marcel, arriva anche ai contemporanei: ascoltando ancora una volta la sonata, il suo pezzo più riuscito e famoso, di Vinteuil (celebre compositore a Parigi, ma modesto maestro di piano nei dintorni di Combray) Swann si rende conto che l’impressione che, riascoltata anche dallo stesso interprete, ne riceve non è mai così forte come quella della prima volta e ne ricava che “tutte le rivoluzioni che si sono finora attuate nella musica ma anche nella pittura alla fine rispettano alcune regole e che ciò che noi vediamo dall’impressionismo alle dissonanze” (era il momento della “Sagra della primavera” di Strawinsky) “fino al cubismo o al futurismo sono coraggiosamente diverse da quanto le ha precedute”; e solo in seguito ad esse ci, per così dire, abituiamo (e qui ricordo le difficoltà e, insieme, gli entusiasmi che le prime prove cliniche controllate in medicina8, ai tempi del mio ingresso nel mondo medico, sollevarono, come i quadri di Picasso, Braque e Gris 40 o 50 anni prima). Proust nota in un altro passaggio che questo iniziale rifiuto delle novità non si verifica nella moda, particolarmente femminile, e porta ad esempio il caso di una amica del coreografo Diaghilev, Misia Edwards nata Godebska, che appunto a una rappresentazione dei balletti russi si era presentata con un cappello e una acconciatura che ripetevano un dipinto di Leon Bakst, cappello e acconciatura decisamente “particolari”, ma che tutte le signore parigine si erano affrettate a copiare e indossare (il pittore, oggi quasi dimenticato ma del quale esiste un bellissimo ritratto ad opera di Modigliani, era in quegli anni molto noto per aver creato i costumi di alcuni balletti dello stesso Diaghilev, ma quel dipinto in particolare, che pur aveva creato molto scandalo negli ambienti artistici, aveva avuto uno straordinario successo nella moda).
In realtà, sulle tecniche adoperate dai nuovi pittori (in cui come è ben noto entrava di tutto, dai giornali alle sedie impagliate) c’erano molti dubbi: in un pranzo dai Verdurin (lei una ricca borghese che anima in casa una sorta di caffè letterario, con la mania di combinare matrimoni e disfarli; lui, indicato dagli ospiti come “le patron”, ma in realtà assolutamente succube della moglie) sorge una discussione su uno di quei nuovi dipinti e il parere di uno degli ospiti è che “davvero non si riesce a dire se è fatto di colla, di sapone, di bronzo, di rubino, o di sole o di cacca” (“caca”: così nel francese di Proust); “ha l’aria di essere fatto di niente, impossibile scoprire il trucco, peggio che nella Ronda” di Rembrandt e l’ultimo riferimento solleva le più vibrate proteste della Verdurin, per la quale il capolavoro dell’olandese era “il più grande dell’universo”, sul quale, alla pari che sulla “Nona” di Beethoven e sulla “Vittoria di Samotracia”, non si poteva assolutamente bestemmiare.
Quando Swann propone al Narratore di presentarlo a Bergotte, il giovane si paragona, nella sua felicità per l’offerta e per il prossimo incontro (Bergotte è il suo idolo letterario) alla figura del giovane Re Magio che appare in un affresco di Bernardino Luini che è al Louvre ma era stato originariamente dipinto per un oscuro Oratorio a Greco Milanese, oggi un quartiere di Milano ma nel XVI secolo comune autonomo; egli si sente “come il meraviglioso giovane Re dai capelli biondi, dal naso un po’ curvo e concavo, col quale, così sembrava secondo molti, avere una grande rassomiglianza”; e ancora una volta è stupefacente come Proust appaia conoscere anche nei particolari più minuti, certo attraverso le sue lunghe frequentazioni del Louvre in giovinezza, anche dei dipinti decisamente poco noti.
Un altro esempio della enciclopedica conoscenza e della formidabile capacità di sintesi artistico narrativa di Marcel Proust mi pare si possa cogliere in un altro episodio. Siamo ne “La fuggitiva”, dove Albertine, l’antica ragazzina divenuta una donna, è andata a vivere con il Narratore nella casa di Parigi, divenendone “La prigioniera” per la gelosia di lui che provoca una serie di liti e riconciliazioni; lei ad un certo punto non sopporta più la situazione sempre più opprimente e ne fugge senza avvertire il suo ospite; lui ne ha uno choc terribile, non vuole ammettere il distacco e fa ogni sforzo per ritrovarla, senza riuscirvi; le scrive allora una lettera in cui accetta di riaccoglierla per come lei è, ma riceve dalla zia di lei un telegramma in cui se ne annuncia la morte per una caduta da cavallo. Tempo dopo, il Narratore è a Venezia, dove, quando non è a San Marco, studia nelle gallerie dell’Accademia i dipinti di Vittore Carpaccio, il pittore certamente più citato ne “La Recherche”. E viene colpito, ecco l’episodio cui accennavo, da “Il Patriarca di Grado che esorcizza un indemoniato”, un dipinto degli anni ’90 del 1400. E subito ne coglie alcuni aspetti: innanzi tutto “quel magnifico, fantastico, ammirevole cielo cremisi e viola nel quale si introducono come intarsiati i camini che per la forma svasata e la rossa corolla dei tulipani” fanno pensare alla Venezia di Whistler (tra Carpaccio e l’Americano vissuto da giovane in Russia e poi a Londra e a Parigi intercorrono quasi 400 anni); e poi i tanti personaggi nel dipinto quattrocentesco, “un formicolio di vita veneziana, col barbiere che affila il suo rasoio, il negro che porta la sua botte, i musulmani che discutono, i nobili veneziani in broccato, in damascato, con i loro tocchi di velluto…”; “e a un tratto riconobbi (è il Narratore che parla) il mantello che Albertine (ecco la incredibile attualità della memoria) aveva messo per venire con me in carrozza scoperta a Versailles, quella sera in cui ero ben lontano dal pensare che solo una quindicina di ore mi separavano dal momento in cui lei sarebbe partita”; “un crepuscolo (come in Whistler), quale Albertine avrebbe scritto nella sua ultima lettera, “doppiamente triste, perché arrivava la notte e noi stavamo per separarci”. E, conclude Marcel, “tutto ciò mi fece sentire come invaso da un momentaneo turbamento di desiderio e di malinconia”.
Gran parte della vita di Marcel Proust fu segnata, come si è detto, dalla malattia; dopo uno di questi periodi, che lo ha costretto a star chiuso nell’appartamento parigino (siamo sempre nei ricordi di giovinezza) i genitori gli promettono un viaggio nel nord dell’Italia; questo solo pensiero (“un viaggio!!”) mette in moto la sua fantasia, la scatena e dapprima il giovane si vede nel pieno di una tempesta, ma poi approda nella calma serena di un paesaggio toscano. E compare allora nel romanzo fra Giovanni da Fiesole, il Beato Angelico, “con le sue primavere piene di colori, così diverse da quelle di Combray, nelle quali la brina appare ancora sugli aghi dei pini”, quelle primavere angeliche nelle quali, al contrario, “fioriscono i gigli e gli anemoni nei campi di Fiesole e Firenze appare su uno sfondo dorato come quelli, proprio, di Beato Angelico”.
Una delle tante profonde riflessioni, a mio avviso, che Proust pone nel suo romanzo è quella che egli fa a proposito dell’ammirazione che Elstir (ormai lo conosciamo: il grande pittore del romanzo) nutre nei confronti di artisti del passato, come dice Chardin o Perronneau. Questa ammirazione non è capita proprio perché la pittura di Elstir è qualcosa di profondamento diverso da quella ora ricordata; come può, ammirando quei “classici” del ‘700, Elstir produrre quegli “orrori”? “Non si rendevano conto”, questi critici, “che Elstir dal canto suo, dal suo punto di vista e da quello delle sue ricerche, faceva lo stesso sforzo che al loro tempo avevano fatto uno Chardin o un Perronneau e di conseguenza, quando aveva fatto il suo lavoro, egli in quelli ammirava i loro tentativi di novità, in cui vedeva quasi una sorta di frammenti anticipatori della sua opera. Quei critici erano incapaci di aggiungere all’opera di Elstir la prospettiva del Tempo che avrebbe, ad averla, permesso loro di amare o almeno ammirare senza ansia sia quella che questa pittura”. Basta ripensare, per comprendere quanto questa riflessione sia importante ai tanti ricordi dei classici, da Velazquez a Poussin a Murillo solo per citarne alcuni, che si ritrovano sia all’inizio che alla fine della immensa opera di Pablo Picassof, “il grande, mirabile Picasso” nella definizione che ne dà Proust9.
Naturalmente, il periodo in cui Marcel Proust progetta, idea, il suo romanzo è proprio quello, nei primi venti anni del ‘900, in cui sorgono in pittura quelle che si sarebbero poi chiamate “le avanguardie”, dai Fauves (“le belve” o, forse meglio, “i selvaggi”) di Matisse, Derain e de Vlaminck, ai nostri futuristi da Boccioni a Balla, ai cubisti ai quali si è già fatto cenno fino all’astrattismo di Kandinskj e di Kupka e al Dada di Duchamp e Picabia. Le discussioni, anche molto accese, su queste nuovissime, e mai né immaginate né viste prima, forme di “arte” erano quindi abituali negli ambienti intellettuali del tipo di quelli descritti da Marcel nei suoi libri. Ne è un esempio quel che accede quando Swann si dà da fare per far acquistare dal Duca e dalla Duchessa di Guermantes un dipinto che nel romanzo viene attribuito a Elstir e che nella realtà si deve a Edouard Manet: si tratta di un semplice mazzo di asparagi e oltre tutto le sue dimensioni sono estremamente ridotte. Elstir nel romanzo ne chiede ben 300 franchig, il che determina il concitato rigetto del Duca Basin de Guermantes, un cugino, che vede il dipinto giunto ormai nella magnifica collezione di Oriane de Guermantes: “Io mi sarei rifiutato -esclama costui- di acconsentire alla richiesta di Elstir! Trecento franchi un mazzetto di asparagi!! Un luigi, ecco al più quel che vale, anche se fossero una primizia!... Sono veramente stupito che una testa fina, un cervello così brillante come è il vostro possa amare una cosa simile..”. Al che la Duchessa, alla quale non va certo bene che quel che è stato -bene o male- ammesso nei suoi saloni sia disprezzato, replica che “sono ben lontana dall’accettare tutto quello che fa Elstir, ci sono cose da prendere e cose da lasciare, ma in ogni cosa sua c’è del talento e va ammesso che i pezzi che ho acquistato sono di una rara bellezza”. Al che Basin ribatte che lui ammira molto di più una piccola cosa di Viberth, “una sciocchezza che sta nel palmo di una mano, ma che emana spirito e acuzie fino alla punta delle unghie, un vero piccolo poema di finezza e anche di profondità”.
Poi ci sono coloro, al contrario, che si entusiasmano del nuovo, e se non rinnegano il vecchio, lo relegano in un momento poi quasi ignorato della loro vita. Un esempio ne è la Marchesa Renée-Elodie de Cambremer, che esclama: “In nome del cielo, dopo un pittore come Monet, che è certamente un genio, non mi nominate nemmeno quel vecchio pontefice di Poussin, totalmente senza talento! Che volete, non me la sento proprio di indicare la sua come pittura! Monet, Degas, Manet: ecco i veri pittori. Ed è curioso: tempo fa preferivo Manet, e ora lo ammiro sempre, ma Monet!!! Le sue cattedrali, che meraviglia!!”. E il Narratore continua notando che la Marchesa metteva molto scrupolo e tutto il suo compiacimento nel confessare l’evoluzione dei suoi gusti, perché era chiaro che considerava l’evoluzione del suo giudizio critico importante proprio come quella dei diversi modi di dipingere nel tempo da parte di Monet. Poco più avanti Proust torna su questi aspetti di chi, come la Cambremer, vuole apparire sempre aggiornato nei suoi gusti (ma arrivando al massimo a concedere la presenza di un mugiko nei racconti di Tolstoj o quella di un contadino come nell’Angelus di Millet) al solo scopo -che è quello vero- di superare le proprie barriere sociali; “il trattamento spirituale al quale si sottometteva con lo studiare i capolavori della pittura restava senza effetto nei confronti dello snobismo congenito che l’affliggeva”.
In un’altra discussione tra il Narratore e Oriane de Guermantes, costei, dice Marcel, “pur essendo sempre una gran dama giocava spesso a fare proprio la gran dama”, gli rimprovera di non essere passato da Haarlem, dove come si sa è il grande museo con le opere di Frans Hals, nel suo viaggio in Olanda e con civetteria gli fa notare che Elstir le ha da poco fatto un ritratto che “non è certo rassomigliante, ma è curioso”; in esso Oriane compare, e lo dice, come una specie di vecchietta, alla maniera proprio delle “Reggenti dell’Ospedale”, il dipinto proprio di Hals. Un dipinto così straordinario, quello di Hals, dice la Duchessa, che “passandovi davanti seduti sull’imperiale di un tramway si chiederebbe di fermarsi per ammirarlo”. Al che Marcel, nelle vesti del Narratore, fa una considerazione su come in genere si formano dentro di noi le impressioni artistiche: il discorso della Duchessa sembrerebbe infatti “implicare che il nostro occhio non sia altro che un’apparecchio che registra delle istantanee” una osservazione che anticipa di 50 anni quella di Argan11 quando, parlando degli Impressionisti, nota che essi si occupano esclusivamente della “sensazione visiva” rifuggendo da altre componenti emotive e più cerebrali.
Ci sono almeno due citazioni di El Greco nel romanzo, in situazioni molto diverse: la prima è ne “La prigioniera” ed è a proposito della strana, complessa personalità del barone Charlus, al secolo Palamède de Guermantes. Proust lo avvicina al quadro in cui il grande cretese raffigura il cardinale Fernando Nino de Guevara: “...il barone teneva devotamente abbassate le sue ciglia annerite, che, in contrasto con le gote incipriate, lo facevano somigliare a un grande inquisitore dipinto dal Greco. Ma quel prete faceva paura, sembrava un prete scomunicato, giacché i compromessi cui lo avevano costretto la necessità di appagare i propri gusti e di tutelarne il segreto avevano condotto alla superficie del volto proprio quel che il barone si sforzava di nascondere: una vita dissoluta narrata dalla degradazione morale", una descrizione veramente inquietante, che spiega, mi pare, il giudizio certo non entusiasta che dell’opera di Proust dà colui che, come ho già indicato, è con grande probabilità la controfigura reale dello stesso Charlus, cioè Robert de Montesquiou. La seconda volta è verso la fine del romanzo, ne “Il tempo ritrovato”, quando il Narratore descrive al suo amico Saint-Loup un attacco aereo su Parigi (c’è la guerra e i “boches” si danno da fare): “...una squadriglia dopo l'altra, ogni aviatore scattava così dalla città, trasportato ormai in cielo, simile a una Valchiria. Frattanto lembi di terra, rasente le case, s'accendevano; e io dissi a Saint-Loup che, se si fosse trovato a Parigi il giorno prima, avrebbe potuto, pur contemplando l'apocalisse nel cielo, scorgere sulla terra, come nel Funerale del conte di Orgaz del Greco, dove quei due differenti piani sono paralleli, un vero e proprio vaudeville recitato da personaggi in camicia da notte...”i.
Verso la fine dell’immenso romanzoj, Monsieur Verdurin è morto (sua moglie avrà ancora molte opportunità sposando prima un Duca e poi addirittura il Principe di Guermantes, a sua volta rimasto vedovo) e tale circostanza consente a Proust di riflettere sul fatto che ogni generazione definisce i suoi propri principi estetici (e, potremmo aggiungere, anche quelli medici) e a volte torna sui propri passi per lodare e magari adulare ciò che aveva in un primo tempo condannato. Elstir, infatti, a questo punto, vede, con Verdurin, “svanire, scomparire gli occhi, la mente che avevano avuto una “visione” della sua pittura, la più corretta…; senza dubbio, erano poi sorti, venuti alla luce, dei giovani che amavano certamente la pittura, ma un’altra pittura; essi non avevano, come era accaduto per Swann e per lo stesso Verdurin, ricevuto le lezioni di gusto di Whistler, né quelle di verità di Monet, quelle lezioni che avevano permesso a quei due di giudicare con giustizia Elstir; e costui, dice Proust, dopo la morte di Verdurin con il quale aveva diviso tanti anni si sentiva più solo; fu per Elstir come se un poco della bellezza della sua opera si eclissasse, insieme alla coscienza di quanto di quella bellezza nell’universo restava”.
Se sostituiamo alcuni nomi e alcune parole è quello che posso dire di sentire anche io, con sapiente e consapevole nostalgia, in questo momento di commiato.
LE OPERE PITTORICHE CITATE (In ordine alfabetico degli Autori)
Bakst, Lèon | Le diner, 1902 (da Wikipedia) |
Beato Angelico | Incoronazione della vergine, 1442, Uffizi, Firenze |
Benozzo Gozzoli (v. Lasinio, Carlo) | |
Benozzo Gozzoli | Corteo del Magi, 1460, Palazzo Medici Ricciardi, Firenze |
Boldini, Giovanni | Ritratto del Conte di Montesquiou, 1897, Orsay, Parigi |
Botticelli | La primavera, 1480 c., Uffizi, Firenze |
Botticelli | Venere e le tre Grazie, 1486, Louvre, Parigi |
Botticelli | La Madonna del melograno, 1487, Uffizi, Firenze |
Carpaccio, Vittore | Il Patriarca di Grado esorcizza un indemoniato, 1494, Gallerie dell’Accademia, Venezia |
Chardin, Jean-Baptiste | La razza, 1728, Louvre, Parigi |
Degas, Edgar | Place de la Concorde, 1875, Ermitage, San Pietroburgo |
El Greco | Il Cardinale de Guevara, 1660 c., New York |
El Greco | I funerali del conte di Orgaz, 1586, Toledo |
Filipepi Alessandro (v. Botticelli) | |
Fra Giovanni da Fiesole (v. Beato Angelico) | |
Gris, Juan | Ritratto di Picasso, 1912 c., The Art Institute, Chicago |
Gursat, Georges | Studio per la fisionomia di Montesquiou. 1891 (da Wikipedia) |
Hals, Frans | Le reggenti dell’ospizio per vecchi, 1664, Museo Hals, Haarlem |
Hogarth, William | I coniugi Jeffreys e il figlio, 1730, Yale Centre, New Haven |
Lasinio, Carlo | Incisione (inizio XIX secolo) da Benozzo Gozzoli, camposanto di Pisa: Storie di Abramo |
Lecomte du Nouy, Pierre | Ritratto del prof. Adrien Proust, 1885 |
Leonardo da Vinci (v. Morghen, Raffaello) | |
Luini, Bernardino | Adorazione dei Magi, 1520, Louvre |
Manet, Edouard | Gli asparagi, 1880, Colonia |
Manet, Edouard | Un asparago, 1800, Orsay, Parigi |
Manet, Edouard | Argenteuil, 1874, Tournai |
Millet, Jean François | L’Angelus, 1859, Orsay, Parigi |
Modigliani, Amedeo | Ritratto di Lèon Bakst, National Gallery of Art, Washington |
Monet, Claude | La cattedrale di Rouen, 1894, Orsay, Parigi |
Moreau, Gustave | L’apparition, 1875, Orsay, Parigi |
Morghen, Raffaello | Incisione (fine XVIII secolo) da Leonardo da Vinci: il Cenacolo, Convento di Santa Maria delle Grazie, Milano |
Nadar | Fotografia del Dottor Adrien Proust |
Picasso, Pablo | Las meninas (da Velazquez), 1957 |
Picasso, Pablo | El bobo (da Murillo), 1959 |
Picasso, Pablo | Il ratto delle Sabine (da Poussin) |
Proust, Marcel | Due disegni |
Rembrandt | La ronda di notte, 1642, Rijksmuseum, L’Aia |
Sebastiano del Piombo | Martirio di s. Agata, 1520, Palazzo Pitti, Firenze |
Sem (v. Gursat, Georges) | |
Theocopulos Domenico (v. el Greco) | |
Tornachon, Gaspar-Felix (v. Nadar) | |
Turner, William | Eruzione del Vesuvio, 1820, Yale |
Vermeer Jan | Veduta di Delft, 1660, L’Aia |
Vibert, Jean | L’educazione di Azor (da Wikipedia) |
Whistler, James | Composizione in nero e oro; ritratto del Conte Robert de Montesquiou. 1891. Frick Collection, New York |
Whistler, James | L’Orage, crepuscule, 1880, Tate Gallery, Londra |
BIBLIOGRAFIA