L’arteriopatia degli arti inferiori (LEAD) colpisce nel mondo circa 200 milioni di persone dopo i 50 anni con un aumento esponenziale che raggiunge il 20% della popolazione di 80 anni.
Questi dati sono verosimilmente sottostimati per la frequente asintomaticità e/o la mancata rilevazione di indici strumentali che evidenzino il deficit perfusionale distale (ABI, esami US)1.
Infatti il carattere evolutivo di questa malattia ci dimostra che il 7% dei pazienti asintomatici diventa sintomatico e il 21% dei pazienti con sintomi iniziali di claudicatio evolve verso l’ischemia critica che, dopo circa 6 anni, conduce ad amputazione maggiore (4% - 27%)2.
Il rapporto fra sintomatici/asintomatici è compreso tra 1:3 e 1:5, ma il numero totale di arteriopatici è in crescita, con un aumento del 23% nell'ultimo decennio, per l'aumento della popolazione totale, dell'invecchiamento globale e dell'aumento dell'incidenza del diabete in tutto il mondo.
L’arteriopatia degli arti inferiori infatti, essendo una delle manifestazioni cliniche della malattia aterosclerotica, riconosce gli stessi fattori di rischio che si associano all’infarto del miocardio, all’Ictus e alla morte cardiovascolare; aumenta pertanto notevolmente con l'età, il fumo, l’ipertensione, la dislipidemia e il diabete, anche se la forza di associazione tra ciascun fattore di rischio e localizzazione di malattia è variabile.
Non va quindi dimenticato che, quando un territorio vascolare è affetto da aterosclerosi, non solo l'organo corrispondente è in pericolo, ma è aumentato anche il rischio totale di qualsiasi evento cardiovascolare1.
Nel 25% dei casi l’evoluzione peggiorativa dell’arteriopatia può portare a interventi chirurgici ricorrenti e/o amputazioni con una incidenza annuale di quelle maggiori tra 120 - 500 per milione, equamente distribuite sopra e sotto il ginocchio.
La mortalità direttamente correlata al LEAD è aumentata tra il 1990 e il 2010 in Europa, raggiungendo 3,5 per 100.000 individui nel 2010 in Europa occidentale, ma questi pazienti muoiono per lo più per complicazioni legate alla malattia coronarica e all'ictus.
Se per i pazienti con claudicatio, la rivascolarizzazione delle arterie periferiche può migliorare i sintomi e la qualità della vita, nei pazienti con ischemia critica acuta (ALI) e cronica (CLI) la rivascolarizzazione può alleviare il dolore ischemico, migliorare la guarigione delle ferite e prevenire/limitare l'amputazione.
Le indicazioni alla rivascolarizzazione sono quindi principalmente rivolte al miglioramento della perfusione quando la gestione medica e la terapia fisica hanno fallito, l’importanza della sorveglianza post-operatoria è finalizzata a valutare non solo gli esiti perfusionali immediati ma prevenire/limitare eventuali peggioramenti che possano portare ad amputazione. Il controllo non dovrà concentrarsi solo sul sito della rivascolarizzazione, ma deve comprendere tutto l’arto rivascolarizzato ed il controlaterale insieme a una valutazione cardiovascolare clinica generale.
Il clinico che esegue il follow up per esprimere una corretta prognosi deve conoscere non solo l’indicazione e la metodica utilizzate per la rivascolarizzazione, ma deve avere accesso anche ad informazioni tecniche relative al sito rivascolarizzato, ai materiali utilizzati, alla lunghezza del tratto trattato.
Ma nonostante i potenziali benefici della rivascolarizzazione periferica, oggi sempre più frequentemente legati a procedure endovascolari, non va dimenticato il rischio aggiuntivo di eventi avversi cardiovascolari maggiori (MACE) che vanno prevenuti con una estensione delle indagini specifiche a livello del distretto cardiaco e cerebroafferente3.
In uno studio osservazionale pubblicato nel 2020 su JACC si è evidenziato che, in un follow up di 2,7 anni, una popolazione di circa 400.00 pazienti sottoposti a rivascolarizzazione delle arterie periferiche ha un rischio di eventi ischemici cardiovascolari del 9,8% (IMA/ Ictus) e un rischio di amputazione maggiore/reinterventi del 41,9%.
Il rischio post-procedurale di eventi degli arti è più elevato entro il primo anno, con più di 1 paziente su 10 ricoverato in ospedale per un evento avverso maggiore degli arti (MALE), un aumento del rischio di infarto miocardico futuro o ictus di 1,34 volte e un aumento del rischio di 8,13 volte di successiva amputazione maggiore o rivascolarizzazione periferica4.
L’esame di follow up di primo livello deve prevedere, oltre all’esame clinico, la misurazione dell'indice caviglia-braccio (ABI) e l'ecoDoppler esteso (DUS), eventuali esami di secondo livello come angioTC o RM, sono indicati solo se ci sono dati clinici e/o ecografici che suggeriscano il fallimento del trapianto o la progressione della malattia.
Durante i primi 3 mesi, la stenosi / trombosi del bypass può essere dovuta a problemi tecnici, infatti quasi il 15% dei fallimenti dell'innesto si verificano durante il primo mese; quasi l'80% durante i primi 2 anni e non più del 5% in seguito.
È stato proposto un calo dell’ABI superiore a 0,15 per rilevare che la rivascolarizzazione non sia stata efficace, ma la sua sensibilità è scarsa e non dovrebbe essere utilizzato da solo per monitorare un arto rivascolarizzato, è pertanto consigliato associare sempre un esame ultrasonografico esteso. L’insieme delle due metodiche infatti permette di rilevare il fallimento del trapianto nel 66% dei casi nel follow up a 3 mesi5, 6.
Sebbene manchino solide prove scientifiche, vi è consenso sul fatto che il primo test debba essere eseguito entro 4-6 settimane dopo la dimissione, successivamente a 3, 6, 12 e 24 mesi dopo l'intervento chirurgico di bypass. In caso di reintervento per la stenosi o l'occlusione del trapianto, il programma di sorveglianza viene riavviato dall'inizio.
La sorveglianza clinica è permanente e di fondamentale importanza soprattutto per i pazienti con ischemia critica cronica agli arti (CLI) (ESVS 2019).
Le complicanze più comuni a medio termine dopo rivascolarizzazione per via endovascolare (EVT) sono la restenosi e l'occlusione del segmento vascolare trattato, che vanno da circa il 5% nella regione pelvica fino a oltre il 50% nelle arterie infrapoplitea, ma la ricorrenza dei sintomi può anche essere dovuta alla progressione della malattia sopra o sotto il tratto arterioso trattato.
La ESVS raccomanda la sorveglianza con esame ultrasonografico dopo EVT eseguito tra la dimissione e un mese; se i risultati sono normali, DUS è raccomandato alla ricomparsa dei sintomi.
Tuttavia, se la DUS iniziale è anormale, il reintervento o un follow-up più attento con DUS devono essere discussi caso per caso. Oltre i 12 mesi nei pazienti rivascolarizzati asintomatici non è mai stata dimostrata l’utilità di un controllo DUS annuale e non può essere raccomandato come sorveglianza di routine, tuttavia questi pazienti richiedono una sorveglianza cardiovascolare completa incentrata sulla gestione dei fattori di rischio, sull'esercizio fisico e sulla terapia medica su base annuale1.
Una meta-analisi di studi osservazionali per valutare l’efficacia comparativa tra la metodica chirurgica o endovascolare della rivascolarizzazione in pazienti con ischemia critica degli arti ha mostrato una riduzione statisticamente non significativa della mortalità per tutte le cause a 6 mesi e della sopravvivenza libera da amputazione a 1 anno in pazienti trattati con rivascolarizzazione endovascolare. Tuttavia, non vi era alcuna differenza nella mortalità complessiva, nell'amputazione o nella sopravvivenza libera da amputazione a 2 anni e oltre7.
Alla luce di quanto oggi sappiamo, si comprende come questa tipologia di pazienti sia particolarmente complessa e necessiti di una attenta valutazione da parte di specialisti finalizzati alla loro gestione; è necessario quindi un approccio multidisciplinare nel monitoraggio a lungo termine dei pazienti con LEAD rivascolarizzato, con particolare vigilanza per i sintomi degli arti nel primo anno post-procedura, ma con la consapevolezza del loro rischio cardiovascolare che dovrebbe indurre ad una terapia post dimissione sovrapponibile a quella utilizzata per i pazienti sottoposti a rivascolarizzazione miocardica.