Anno Accademico 2023-2024

Vol. 68, n° 2, Aprile - Giugno 2024

ECM: La gestione del paziente con ulcera cutanea. Integrazione Ospedale-Territorio-Domicilio

30 gennaio 2024

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Tecniche di detersione

M. Cavallini


Detergere: traduzione [dal latino detergĕre, composto da de- e tergĕre «asciugare, pulire»] (coniug. come tergere). – Pulire la superficie di un corpo asportandone impurità, ristagno delle secrezioni, ecc.

Pertanto tra detersione e debridement la sola differenza consiste nel fatto che la seconda procedura, in alcuni casi, può essere cruenta e comportare un sanguinamento, rimuovere tessuti stabili ma sofferenti o infetti ed eseguire drenaggi. Per questo parleremo di detersione escludendo questo possibile aspetto più invasivo del debridement. Credo, a questo punto, sia opportuna una breve introduzione al problema e al contesto in cui si opera e, soprattutto, a cosa andiamo a trattare.

Da un punto di vista biologico bisogna spostare l’attenzione sui lavori e le discussioni tra premi Nobel di oltre un secolo fa. Louis Pasteur, infatti, sosteneva l’ipotesi che sia il batterio a generare la malattia e quindi la necessità del suo trattamento per la guarigione. Questa posizione, che di fatto ha prevalso negli anni successivi nella pratica medica, ha poi portato, oltre agli evidenti benefici, anche ad un uso indiscriminato di prodotti disinfettanti e di antibiotici. La posizione di Antoine Pierre Jacques Béchamp e di Robert Koch affermava, invece, che il microbo non è niente e che la recettività e le comorbidità del paziente sono tutto. Per i sostenitori di questa seconda teoria i batteri fungerebbero sostanzialmente da spazzini e sarebbe, pertanto, fondamentale rafforzare la salute dell’individuo e dei tessuti sofferenti per controllare la virulenza batterica. Questa seconda teoria indica anche come sia l’ambiente nel quale proliferano i batteri a modificarne forma e caratteristiche e prevede, quindi, la possibilità di un adattamento e mutazione dei batteri stessi al terreno (pleomorfismo). Ma per completare il complesso quadro biologico che dobbiamo considerare dobbiamo recuperare le osservazioni di circa duemila anni fa da parte dei medici della Roma Augustea. Uno di questi fu Aulo Cornelio Celso, vissuto nella prima metà del I secolo d.C. e originario forse della Gallia. Nel secondo volume del suo De Medicina Celso individua e descrive “notae vero inflammationis sunt quattuor: rubor et tumor cum calor et dolor” dei quattro sintomi e segni della reazione infiammatoria: arrossamento, edema, calore e dolore. Quella che oggi definiamo come host reaction che ha la finalità di combattere i germi ma che non risulta così selettiva da distinguere il self dal non-self. Da qui la necessità di rimuovere meccanicamente batteri, prodotti della virulenza batterica, tessuti instabili e prodotti della reazione infiammatoria dell’ospite (metalloproteasi, ialuronidasi, pH alcalino, radicali ossidanti, citochine proinfiammatorie, detriti cellulari, fibrina e tessuto sofferente instabile, ecc.) tutti responsabili di creare un ambiente negativo in grado di bloccare l’attivazione della fase riparativa. E questo concetto veniva poi evidenziato in pratica da Galeno di Pergamo (131-201 d.C.) che, in quanto medico dei gladiatori, aveva notato come, nel caso delle ferite infette, la fuoruscita del pus si accompagnasse ad un rapido miglioramento delle condizioni locali e generali del paziente e, quindi, alla guarigione. Il pus lo aveva definito quindi “bonum et laudabile” e, coerentemente con la sua teoria umorale, che lo identificava come materia peccans da eliminare: “ubi pus ibi evacua1, 2.

Oggi, grazie alla disponibilità delle terapie antibiotiche, il nostro obiettivo si sposta sul controllo locale della reazione infiammatoria e, più in generale, sulle comorbidità e criticità del paziente. E questo è vero sia per le lesioni acute ed infette che per quelle croniche con sviluppo di biofilm (già ipotizzato da Béchamp con la sua teoria del pleomorfismo batterico). Di fatto non esistono lesioni cutanee sterili e l’azione della medicazione e delle terapie sistemiche è rivolta all’abbassamento e controllo della carica batterica in uno stadio non più in grado di evocare una host reaction, così, facilitando la conversione dei macrofagi dal loro fenotipo M1 (pro-infiammatorio) a quello M2 (anti-infiammatorio) di coordinamento della fase di riparazione. Detersione, debridement, drenaggio, oltre alla terapia antibiotica sistemica e all’impiego di disinfettanti ad uso locale rappresentano, pertanto, la base ineludibile della prima fase di gestione delle lesioni cutanee che si trovano in fase infiammatoria acuta o cronica.

La detersione può essere realizzata in una differente serie di modi e la scelta è in relazione al quadro clinico della lesione ed in funzione di aspetti quali il tempo, il costo, le comorbidità locali e sistemiche (dolore, vascolarizzazione, ecc.), il contesto logistico (domicilio, ambulatorio, ricovero, il materiale a disposizione, ecc.) e, non ultimo, la competenza dell’operatore. I metodi sono differenti e, frequentemente, vengono utilizzati in associazione. Più in particolare le differenti tecniche di detersione vengono classificate in relazione al loro meccanismo d’azione: autolitico, chimico, biologico, meccanico e chirurgico conservativo non cruento.

 


Fig. 1. Medicazione occlusiva di idrocolloide con evidente macerazione della cute perilesionale dalla persistenza di una secrezione abbondante che dall’altro svolge un’azione di debridement autolitico.

Debridement autolitico

Si tratta di un metodo fisiologico e senza dolore. Consiste nella lisi del tessuto sofferente mantenendo un ambiente umido che ne favorisce la disgregazione insieme agli enzimi proteolitici e fibrinolitici normalmente presenti e liberati dalle cellule dell’infiammazione. Non trova indicazione nei pazienti immunocompromessi o come trattamento in caso di ulcere francamente infette, profonde e con recessi non ben drenati. Questa soluzione prevede l’impiego di medicazioni occlusive impermeabili (idrocolloidi o schiume di poliuretano adesive) in grado di mantenere l’umidità costante per un periodo di almeno 2-3 giorni (Fig.1).

Questa procedura, principalmente utilizzata in una fase già avanzata di bonifica ed in presenza di tessuto di granulazione, facilita il formarsi di una raccolta di secrezione sul fondo dell’ulcera, spesso maleodorante e densa, che potrebbe fare pensare all’infezione. Questa condizione, in realtà, favorisce la permanenza di neutrofili e macrofagi sul fondo dell’ulcera, dei fattori di crescita che hanno un ruolo fondamentale per il processo riparativo, favorisce la diluizione della carica batterica e la proliferazione avendo l’essudato un pH acido ed evita la secchezza e la sofferenza dei tessuti più vitali. È fondamentale in questa fase un controllo attento dello stato della lesione e dei tessuti perilesionali che possono facilmente virare, con il proliferare in questi di una contaminazione batterica critica, verso un’infezione conclamata anche loco regionale (erisipela, flemmone). In questi casi il trattamento locale deve essere modificato. L’impiego di medicazioni occlusive con associato un materiale assorbente (schiume di poliuretano adesive, idrocolloide con sottostante medicazione di alginato di calcio) sono preferite in caso di un essudato/trasudato più abbondante. Questi materiali assorbenti svolgono anche un’azione di ritenzione di batteri presenti sul fondo dell’ulcera. In caso di una minore presenza di secrezione e nelle lesioni con fondo secco viene preferito l’impiego degli idrocolloidi in associazione con medicazioni idratanti (idrogeli) e con gli enzimi proteolitici che favoriscono la degradazione dei tessuti amorfi e proteici di sostegno o delle escare cutanee nere e secche3, 4. La mancata risposta della lesione a questo trattamento nelle successive 2 settimane deve sollecitare verso altre tecniche di gestione della lesione5, 6.


Fig. 2. Medicazione bioattiva con collagenasi ed acido ialuronico.


Debridement chimico

Tessuto necrotico o sofferente o amorfo sul fondo dell’ulcera, può essere trattato con enzimi proteolitici (Fig. 2). L’enzima proteolitico disponibile in commercio è la collagenasi di derivazione dal Clostridium e la modalità di azione consiste nella degradazione delle fibre di collagene che mantengono adeso al fondo dell’ulcera il tessuto sofferente/necrotico che può essere, così, più facilmente rimosso4. Altre medicazioni a base di acidi come il metansolfonico e l’ipocloroso oltre ad avere un effetto battericida hanno anche un effetto disgregante nei confronti del biofilm batterico agendo come le sostanze surfattanti.


Debridement biologico

Non disponibile in Italia, consiste nell’applicazione sul fondo dell’ulcera di larve sterili di Lucilia sericata che svolgono una funzione di bonifica dei tessuti meno vitali e più sofferenti. Questa attività biologica è sostenuta dalla liberazione locale di enzimi proteolitici, tra cui la collagenasi, che favoriscono la degradazione dei tessuti più sofferenti e/o necrotici e attraverso l’ingestione diretta dei microrganismi da parte delle larve. La posologia è di circa 10-15/cm2 lasciate per 24-72 ore e applicate 2 volte a settimana. Una serie di recenti revisioni della letteratura e metanalisi ha concluso che il debridement biologico non è associato ad un’efficacia migliore rispetto ad altre metodiche di debridement convenzionali7-9.

Tra le controindicazioni all’uso di questa metodica, i tessuti scarsamente vascolarizzati o con esposizione di vasi e strutture ossee infette o con infezioni profonde che richiedano un trattamento più tempestivo e di sicuro effetto. Da evitare il contatto con la cute perilesionale o con tessuti più vascolarizzati, pena il rischio di emorragie tessutali soprattutto in presenza di terapie con farmaci antiaggreganti o anticoagulanti10.

Una medicazione secondaria di copertura è necessaria mediante film di poliuretano o con schiume adesive nel caso di un eccesso di essudato. È possibile l’utilizzazione di una Biobag®, dove le larve sono contenute in un sacchetto di alcool polivinilico.


Debridement meccanico

Sono procedure che impiegano una forza fisica per rimuovere detriti e tessuti sofferenti dal fondo dell’ulcera. Tra le principali la tecnica bagnato-asciutto, l’idromassaggio, l’irrigazione, il lavaggio pulsatile e gli ultrasuoni.

 


Fig. 3. La medicazione con tamponi di cotone risulta impregnata di un essudato verdastro che viene rimosso togliendo le garze con la medicazione successiva.

Bagnato-asciutto

Si tratta di una tecnica che può risultare dolorosa e dannosa per i tessuti vitali sottostanti, principalmente indicata in caso di un essudato abbondante5, 6, ma non risulta efficace per la rimozione del biofilm11.

La procedura prevede una medicazione primaria con più strati di garze di cotone a contatto con il fondo della lesione (Fig. 3). Una volta che l’essudato è stato assorbito dalle garze e seccato all’interno, si rimuove la medicazione, senza bagnarla, insieme a detriti e tessuti necrotici che sono adesi a questa. Il fondo dell’ulcera viene quindi irrigato e la procedura ripetuta ogni 2-3 giorni.


Idromassaggio

Rappresenta una delle più antiche procedure di idroterapia largamente utilizzata principalmente nel debridement dei pazienti ustionati e rimane una opzione di trattamento. Si tratta di vasche per l’immersione del corpo (Hubbard), o di contenitori più piccoli per il trattamento di lesioni delle estremità, nel cui interno l’acqua viene fatta circolare a vortice o gorgogliare mediante aereatori a pressione. Nel caso delle estremità la durata del trattamento è di 10-20 minuti ad una temperatura di 34-36°C. È stato documentato un miglioramento statisticamente significativo nella riparazione delle lesioni da pressioni con l’idromassaggio rispetto alla medicazione convenzionale12.  Principale aspetto contrario è la possibilità di infezioni nosocomiali multiresistenti (Pseudomonas aeruginosa) che possono contaminare i filtri e le apparecchiature e nonostante un attento controllo e protocolli di disinfezione specifici13. In ogni caso sono scarsi e aneddotici i documenti relativi all’efficacia di questo trattamento come meccanismo di debribement per cui può trovare indicazione limitatamente a lesioni non profonde e non francamente infette.


Irrigazione

Rappresenta un momento importante nella gestione dell’ulcera. Nelle prime medicazioni, dopo aver effettuato un tampone della lesione per esame colturale ed eventuale antibiogramma, è possibile irrigare detergendo/disinfettando la lesione con soluzioni cristalloidi (ringer lattato, soluzione fisiologica (Comfeel Isorins, Irriclens, Sofarclean, Vulnopur) a temperatura ambiente e/o con soluzioni ossidanti (alogeni come soluzioni di ipoclorito di sodio allo 0,05%, di iodopovidone, di boro, ecc, o acqua ossigenata a 10 volumi) o con Biguanidi (Clorexidina), o soluzioni di metalli pesanti quali i sali d’argento dell’acido nitrico al 0,1-0,5%, o con soluzioni di ammonio quaternario (benzalconio), o con detergenti tensioattivi (soluzione di poliesanide/betaina) (Tab. 1 e 2).

 


Tab. 1. Dopo l’azione meccanica disgregante il biofilm: l’irrigazione.

 


Tab. 2. Effetti di alcuni prodotti utilizzati per la disinfezione.

 

Le terapie detergenti o antimicrobiche locali hanno differenti finalità:

    1. trattamento dell’infezione e del biofilm e prevenzione della cronicizzazione attraverso la riduzione della carica batterica;
    2. preparazione dell’ulcera a trattamenti di chiusura (medicazioni avanzate interattive semi- o occlusive, medicazioni bioattive fino all’innesto di fibroblasti, di cute ingegnerizzata, di trapianto di cute, ecc.);
    3. migliorare la qualità di vita riducendo l’essudato, il dolore locale da infiammazione ed i cattivi odori.

Sempre nel tentativo di ridurre la carica batterica, soprattutto nei casi con alta essudazione da infezione da piogeni a da batteri multiresistenti (Corinnebatterio, Pseudomonas, Klebsiella, ecc.), quindi in casi molto selezionati, è possibile utilizzare anche soluzioni antibiotiche locali (amikacina, gentamicina, colimicina). Nelle fasi successive, una volta che il quadro infettivo locale appaia sotto controllo, l’essudazione dell’ulcera è ridotta e la terapia antibiotica per via sistemica in corso o conclusa per consentire un nuovo esame colturale, riteniamo non più necessario l’impiego di questi prodotti soprattutto per la loro potenziale tossicità nei confronti delle cellule della riparazione14, 15. Nella nostra prassi clinica diamo preferenza all’impiego di soluzioni con ipoclorito di sodio a bassa concentrazione e al perossido di ossigeno che può svolgere un’azione meccanica ed emostatica e attraverso la liberazione di molecole di ossigeno individua eventuali recessi o tramiti fistolosi non individualizzabili con l’esplorazione chirurgica (Fig. 4).

 

Fig. 4. I drenaggi ad anello chiuso (piercing) consentono di mantenere aperti i tramiti fistolosi dei flemmoni che si realizzano con l’infezione profonda dell’avampiede. Con una siringa inserita a lato del tubicino è possibile effettuare lavaggi delle cavità ascessuali con sostanze disinfettanti o antibiotici e ridurre con la sola azione meccanica la carica batterica del focolaio settico. L’uso di questa soluzione chirurgica mini-invasiva evita l’impiego di estese incisioni chirurgiche che possono condizionare la riabilitazione ed espongono alla recidiva delle lesioni.

 

 In condizioni sperimentali in vitro il perossido di idrogeno (H2O2), inoltre, sembra stimolare un aumento di fattore di crescita vascolare (VEGF) prodotto dai macrofagi16. Nella fase in cui l’ulcera non presenti più importanti aree di infezione e di sofferenza tessutale ed il tessuto di granulazione comincia a progredire, ci sembra sufficiente una detersione con la sola soluzione fisiologica o con Ringer lattato17.


Lavaggio pulsato

Si tratta di una metodica di detersione meccanica che utilizza un getto pulsato o continuo di acqua alla pressione di un bar (pressione atmosferica = circa 1 bar = circa 1 Kg per cm2), sufficiente a rimuovere tessuti sofferenti, detriti, fibrina, slough risparmiando i tessuti più vitali5, 6.

Il principio su cui si basa questo tipo intervento è l’effetto Venturi. In conseguenza dell’iniezione ad alta velocità di un getto di soluzione salina attraverso una finestra operativa del manipolo si crea un vuoto localizzato che trattiene e rimuove il tessuto coperto dalla finestra, aspirandone i frammenti. Questo sistema dà la possibilità, oltre che di selezionare la potenza del getto di soluzione salina, anche di regolare la potenza modulando l’inclinazione del gruppo pistola sulla superficie della lesione da sbrigliare. Ad una maggiore inclinazione della finestra operativa del gruppo pistola monouso corrisponde una minore aggressività dell’escissione. Il debridement idrochirurgico permette: un’azione combinata di debridement e lavaggio della lesione, consente di ridurre i tempi di procedura con una fase unica che combina escissione, pulizia ed aspirazione del tessuto da rimuovere. Inoltre, consente all’operatore di effettuare un’azione selettiva con risparmio di tessuto vitale, attraverso la selezione della potenza del getto di soluzione salina. Una procedura che, se ben eseguita, minimizza i traumi per il tessuto e attraverso l’azione di aspirazione evita che i microrganismi presenti sulla superficie delle lesioni vengano spinti in profondità nei tessuti18, 19. Come liquido di lavaggio possono essere utilizzate soluzioni antisettiche ossidanti o con poliesanide. Durante l’applicazione c’è un potenziale rischio di disseminazione dei microrganismi per cui è necessario utilizzare ambienti senza altri pazienti e coperture (maschere, occhiali, guanti, ecc.) per l’operatore. Alcune osservazioni hanno documentato la validità di questa tecnica più selettiva soprattutto rispetto all’idromassaggio20.


Ultrasuoni

È una tecnologia che utilizza la pressione delle onde acustiche ultrasonore per rimuovere detriti e tessuti sofferenti. Viene associata ad una irrigazione con soluzione fisiologica per associare all’effetto meccanico anche quello termico. Viene ipotizzato un effetto favorevole sulla sintesi del collagene, sulla stimolazione dei fibroblasti e macrofagi, l’angiogenesi e la fibrinolisi21. La revisione della letteratura, comunque, indica un’insufficiente evidenza sull’efficacia nel debridement delle ulcere22.


Debridement chirurgico conservativo

Ad oggi, rappresenta la metodica migliore per la gestione del biofilm22.

La forma conservativa prevede l’uso di strumenti quali pinze, forbici, cucchiaio di Volkmann,  bisturi, spugne e spazzole e la rimozione dei tessuti sofferenti e dello slough più denso ed adeso senza coinvolgere i tessuti vitali perilesionali e senza sanguinamento. Un’evenienza, quest’ultima, che può sempre occorrere sebbene non voluta, per cui è necessario considerare sempre le capacità coagulative del paziente, le terapie in corso e la possibilità di ricorrere a procedure emostatiche (compressiva, punti di sutura, nitrato d’argento, cauterizzazione, ecc.). L’associazione di questa tecnica con altre tecniche già descritte riduce i tempi per un’adeguata bonifica del fondo della lesione e facilmente si possono reperire i materiali necessari. Essendo una procedura più invasiva delle precedenti, deve essere considerato l’effetto dannoso del trauma meccanico soprattutto sui tessuti perilesionali, soprattutto in caso di una ridotta vascolarizzazione, e la possibilità di una temporanea batteriemia. Questo limite può rappresentare un rischio significativo in pazienti defedati o immunosoppressi anche se in corso di una terapia antibiotica sistemica23.

Per le ulcere che stentano a riparare, il fondo può essere ricoperto da un tessuto di granulazione piatto e distrofico. In questi casi deve essere considerata la possibilità:
a. della persistenza di infezione sottoforma di biofilm;
b. della presenza di residui di strutture aponeurotiche, tendinee o di corpi estranei inglobati nel tessuto di riparazione, da ricercare chirurgicamente e da rimuovere;
c. della persistenza del meccanismo originariamente responsabile della lesione e non adeguatamente corretto o rimosso;
d. di un’insufficiente vascolarizzazione tessutale.


Fig. 5. Il debridement chirurgico è frequentemente associato a dolore procedurale per cui può essere utile l’utilizzo di gel con lidocaina da applicare sul fondo dell’ulcera almeno un’ora prima della medicazione.

Una detersione chirurgica più invasiva consente una più rapida e completa rimozione dei tessuti sofferenti, meno vitali, dei focolai infettivi ed è frequentemente associata ad un sanguinamento locale e per questo viene considerato un metodo in grado di convertire più rapidamente, dal punto di vista della capacità riparativa, una lesione cronica in una forma pseudoacuta24. In questi casi, soprattutto per le lesioni più profonde e dolorose, è necessario l’impiego di anestetici locali (lidocaina per contatto o per infiltrazione (Fig. 5) e di incisioni chirurgiche e drenaggi.

Qualsiasi procedura più invasiva, in ogni caso, deve essere preceduta da una valutazione dello stato di vascolarizzazione dei tessuti perilesionali poiché il traumatismo associato all’atto chirurgico può far precipitare dei tessuti non ben vascolarizzati in una sofferenza facilmente complicata da una superinfezione batterica e da nuovo tessuto sofferente/necrotico. In questi casi l’atto chirurgico sarebbe responsabile di un aggravamento e, per questo, deve essere rimandato ad una fase nella quale sia stata adeguatamente corretta la vascolarizzazione perilesionale.

In questi ultimi anni la terapia con pressione negativa (TPN) ha guadagnato uno spazio terapeutico indiscutibile che consente vantaggi e ottimi risultati nella gestione della fase di detersione e supporto alla fase riparativa25, 26.

La TPN, dopo la necessaria bonifica dei tessuti infetti/necrotici più stabili, consente un migliore controllo della pulizia della ferita (rimozione di piccoli detriti di tessuto con l’aspirazione) e la continua rimozione dell'essudato o di biofilm mobilizzato dal fondo della lesione. In questo senso è stata documentata una significativa riduzione della carica batterica nelle lesioni trattate con terapia negativa27.

La terapia del vuoto, quindi, migliora il controllo della carica batterica in ​​diversi modi: come medicazione occlusiva, previene la contaminazione batterica esterna, promuove l'aumento del flusso sanguigno alla ferita migliorando l’edema tessutale, facilita la rimozione di detriti cellulare e dei tessuti meno stabili, migliora il carico biologico negativo ed evita il ristagno di essudato e del biofilm mobilizzato con il debridement chirurgico (Fig. 6)

I vantaggi più importanti di questa terapia, in sintesi, includono una riduzione dell'area della ferita secondaria alla pressione negativa, l'induzione della formazione di nuovo tessuto di granulazione, un migliore controllo della pulizia della ferita (rimozione di piccoli detriti di tessuto con l’aspirazione) e il controllo della carica batterica attraverso la continua rimozione dell'essudato o di biofilm mobilizzato dal fondo della lesione. Un vantaggio, in termini di gestione e comfort del paziente, è il sigillo igienico che impedisce la contaminazione della ferita e dell'area circostante, il fastidio di perdite continue nella medicazione e la possibilità di continuare la terapia a domicilio con minime limitazioni di movimento. Un prerequisito essenziale per il successo della terapia del vuoto è un fondo della lesione adeguatamente bonificato da tessuti necrotici o sofferenti. Di conseguenza, se necessario, deve essere eseguito prima un adeguato debridement del fondo della lesione.

La TPN, quindi, viene usata per il trattamento clinico di diversi tipi di ferite e lesioni cutanee, fra cui traumi ortopedici, traumi dei tessuti molli, innesti cutanei, ulcere da pressione, ulcere vascolari, ulcere del piede diabetico, ustioni ed infezioni chirurgiche e per la gestione di altre gravi ferite post-chirurgiche, allo scopo di favorire e accelerare la riparazione delle lesioni cutanee.

 

Fig. 6. Applicazione della TPN con apparecchio monouso per: A) un’ulcera di gamba non essudante e di dimensioni ridotte; B) rimozione della protezione distale del lato adesivo; C) applicazione della medicazione sulla gamba a coprire la lesione; D) rimozione della protezione prossimale; E) completamento dell’applicazione della medicazione; F) rimozione dei supporti rigidi adesivi sulla superficie della medicazione; G) accensione della pompa per la TPN con la freccia che indica la depressione sulla superficie della medicazione in corrispondenza della lesione cutanea.

 

La TPN può essere presa in considerazione quando la lesione:

  • non progredisce verso la guarigione nei tempi previsti, per esempio, quando la contrazione dei margini della ferita avviene con troppa lentezza con le cure standard;
  • produce una quantità eccessiva di essudato/trasudato, difficile da trattare;
  • è localizzata in un punto disagevole oppure ha una dimensione tale da rendere problematica un’adeguata sigillatura con le medicazioni tradizionali;
  • richiede una riduzione delle dimensioni prima di procedere ad una chiusura chirurgica diretta o con innesto cutaneo libero.

L’uso della TPN è anche indicato nei casi in cui il paziente richieda una medicazione o un trattamento saldamente posizionato sulla lesione e che non richieda cambi frequenti come, per esempio, nei casi di lesioni nel paziente pediatrico In questi casi, cambi ravvicinati della medicazione possono risultare traumatici ovvero le medicazioni possono non rimanere stabili al loro posto25, 26. Inoltre, in presenza di innesti cutanei a rete, la TNP svolge un effetto di splinting (sostegno rigido) che favorisce l’aderenza del trapianto sul fondo della lesione.


Scelta del metodo di debridement

Tra i criteri che devono regolare la scelta della tecnica di detersione:

    1. la condizione clinica del paziente e le aspettative del trattamento;
    2. la valutazione della lesione cutanea e l’urgenza del trattamento;
    3. la logistica (domicilio, ambulatorio, ricovero) e il materiale a disposizione;
    4. le professionalità e competenze coinvolte nella gestione del paziente;
    5. il dolore spontaneo, procedurale e la qualità di vita.


Il Paziente

Pazienti terminali o con aspettativa ridotta a pochi mesi di vita o pazienti anziani allettati con gravi deficit cognitivi e motori devono essere trattati conservativamente nell’ottica di mantenere lo stato dell’ulcera in una condizione non infetta e garantire la migliore qualità di vita possibile evitando il dolore e cattivi odori da germi gram negativi/anaerobi.

Per i pazienti neutropenici o immunosoppressi, ove non siano presenti chiare situazioni di infezione tessutale, è preferibile un trattamento chimico enzimatico che riduce il rischio di batteriemie da manipolazioni chirurgiche.

Nel paziente diabetico con piede infetto neuroischemico è indicato il trattamento chirurgico del focolaio infettivo attraverso interventi chirurgici mini-invasivi per migliorare il controllo locale dell’infezione e valutare clinicamente la risposta tessutale. In caso di un non adeguato miglioramento dei tessuti per un deficit critico della circolazione arteriosa dell’estremità si dovrà ricorrere immediatamente, e se fattibile, alla correzione invasiva delle ostruzioni arteriose per via endovascolare o chirurgica.


La lesione cutanea

Per le ulcere superficiali non infette la detersione autolitica e/o enzimatica rappresenta il trattamento di scelta. In presenza di uno stato infettivo evidente o in lesioni che si sono cronicizzate e stentano a guarire, è richiesto una detersione meccanica/chirurgica. La bonifica chirurgica rappresenta un momento fondamentale nella gestione e trattamento del biofilm27, 28. In caso di dolore locale riferito dal paziente possono essere indicate bonifiche meno invasive a favore dell’autolisi e del trattamento enzimatico.

Le soluzioni chirurgiche più invasive, non procrastinabili, sono però possibili solo dopo un’adeguata anestesia locale per infiltrazione. Il biofilm è presente nell’80% delle ulcere ed un corretto debridement chirurgico è, nella maggior parte dei casi, necessario per la sua eradicazione con una frequenza giornaliera o a giorni alterni per evitare la formazione di nuovo biofilm maturo. Un esempio classico di biofilm è rappresentato dalla placca dentaria per il cui controllo effettuiamo più volte al giorno uno spazzolamento meccanico dei denti ed il ricorso a colluttori stabilizzatori ed eradicanti la placca. Analogamente la cura dell’ulcera trova il suo punto critico nella gestione domiciliare dove non sempre questa azione meccanica di detersione viene fatta adeguatamente.


La competenza

La detersione è di competenza infermieristica specializzata o meno e di ogni caregiver istruito alla bisogna. Il debridement chirurgico invasivo e cruento deve essere eseguito da personale medico specializzato con competenza ed esperienza nella gestione di questi pazienti. A causa della sintomatologia dolorosa legata sia allo stato infiammatorio che alla necessità di una corretta e completa bonifica chirurgica è spesso richiesto l’uso di anestetici locali per infiltrazione tessutale: lidocaida o mepivacaina. L’uso di creme e gel a base di lidocaina (Emla®, Ortodermina®, ecc.) applicati un’ora prima del debridement possono aiutare nel trattamento delle lesioni meno dolorose ed estese (vedi Fig. 5). Nelle lesioni più estese può essere necessario il ricorso alla sala operatoria. L’anamnesi cardiovascolare, farmacologica ed il rischio per la procedura invasiva e l’anestesia locale devono essere discussi con il paziente a fronte dell’esigenza di un trattamento chirurgico non procrastinabile. In ogni caso, il consenso informato e la registrazione delle procedure non possono essere disattesi.


Prof. Marco Cavallini, Professore di Chirurgia, “Sapienza” Università di Roma

Per la corrispondenza: marco.cavallini@uniroma1.it

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