Dott. Raoul Borioni

U.O. Chirurgia Vascolare, Aurelia Hospital, Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2023-2024

Vol. 68, n° 2, Aprile - Giugno 2024

ECM: La gestione del paziente con ulcera cutanea. Integrazione Ospedale-Territorio-Domicilio

30 gennaio 2024

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Ulcere arteriose degli arti inferiori: interventi di rivascolarizzazione

R. Borioni

Nel caso delle ulcere degli arti inferiori a genesi arteriosa, l’arteriopatia ostruttiva si localizza prevalentemente a livello sottoinguinale, interessando il tratto femoro-tibiale. Piuttosto frequentemente, soprattutto nei pazienti diabetici, le steno-ostruzioni arteriose interessano l’origine dei vasi tibiali, che si riabitano distalmente da circolo collaterale, con o senza malattia associata dell’arteria femorale superficiale. Le arteriopatie prossimali (tratto aorto-iliaco ed iliaco-femorale) risultano generalmente meno coinvolte nella genesi di lesioni trofiche, ma la loro eventuale associazione deve essere attentamente considerata nel “planning” della rivascolarizzazione, l’efficacia della quale è dipendente dalla completezza della stessa. In questi termini, l’angio-TC rappresenta l’esame diagnostico preoperatorio di prima scelta per la valutazione anatomica delle lesioni arteriose (entità, estensione e morfologia) e per la verifica dell’integrità del tratto arterioso a monte (inflow) ed a valle (outflow) dell’ostruzione.


La rivascolarizzazione

Il principio fondamentale di qualsiasi procedura di rivascolarizzazione, rivolta alla guarigione di una lesione ulcerativa ischemica, è quello di restaurare un flusso arterioso diretto a livello del circolo tibiale, tributario del territorio in questione. A tale proposito, la teoria degli angiosomi (Fig. 1), proposta ed utilizzata inizialmente in ambito di chirurgia plastica, risulta oggi un ausilio fondamentale nella pianificazione degli interventi di rivascolarizzazione1-4, consentendo di identificare l’arteria tibiale tributaria del territorio cutaneo in cui è presente la lesione ulcerativa.


Fig. 1. Angiosomi ed arterie tibiali tributarie.

 Per quanto riguarda il timing della rivascolarizzazione, la regola base è di eseguire quest’ultima il prima possibile, al fine di scongiurare una diffusione dell’infezione ai piani profondi, con conseguente coinvolgimento delle strutture ossee.

Fermo restando l’obiettivo dichiarato di ottenere un flusso diretto nell’area della lesione, l’indicazione alla tecnica più idonea alla rivascolarizzazione dipende molto dalla sede e dalla estensione dell’arteriopatia, dal calibro delle arterie target, dal grado di calcificazione della parete arteriosa e, non da ultimo, dall’estensione della perdita di sostanza. In linea di massima, lesioni arteriose lunghe e calcifiche, sono meno adatte ad un trattamento endovascolare, che dovrebbe essere riservato al trattamento delle lesioni più brevi, anche se multiple, ed ai pazienti con rischio operatorio elevato, per età e comorbidità. È evidente comunque che un atteggiamento eclettico nella scelta del tipo di rivascolarizzazione, chirurgica od endovascolare, in rapporto alle condizioni locali e generali del singolo caso, sarà la garanzia migliore per il buon esito finale5, 6.


Rivascolarizzazione endovascolare

La rivascolarizzazione endovascolare consiste nel ripristino del lume vasale a livello dell’arteria femorale superficiale e dei rami tibiali, mediante tecniche di ricanalizzazione endoluminale, che prevedono il passaggio di una guida endovascolare, sulla quale vengono successivamente utilizzati palloni da dilatazione e/o stent con rilascio di farmaco antiproliferativo (DEB - Drug Eluting Balloon, DES – Drug Eluting Stent). In alcuni casi, per ridurre il calcio a livello lesionale, si impiegano aterotomi direzionali od orbitali, analoghi a quelli coronarici. 


Rivascolarizzazione chirurgica

La rivascolarizzazione chirurgica consiste essenzialmente nel bypass femoro-crurale, per il quale l’arteria target è situata in sede sottopoplitea (poplitea distale, vasi tibiali). La rivascolarizzazione viene eseguita preferenzialmente utilizzando la vena safena autologa, con diametro maggiore di 2.5 mm, oppure le vene dell’arto superiore, in relazione a risultati di gran lunga superiori rispetto ai bypass sintetici, che generalmente vengono utilizzati con l’impiego di procedure aggiuntive (collare di Miller, patch di Taylor, cuffia “St. Mary boot”, patch di Neville, fistola artero-venosa, bypass compositi), solamente quando non sia disponibile un graft venoso. In grandi linee, la safena prelevata dallo stesso arto ed invertita nella sua polarità, con anastomosi prossimale a livello dell’arteria femorale comune ed anastomosi distale a livello dei vasi sottopoplitei (Fig. 2). Nella variante tecnica del bypass “in situ”, la safena viene lasciata nel suo letto anatomico, per essere devalvulata ed anastomizzata in maniera usuale al distretto arterioso.

 

Fig. 2. Ostruzione del tratto femoro-popliteo, con riabitazione l’arteria peroniera, trattata con bypass in vena safena autologa invertita.


Risultati della rivascolarizzazione

Anche se in letteratura è presente una notevole variabilità di risultati, in termini di guarigione delle lesioni trofiche e di salvataggio dell’arto, in relazione alla tecnica utilizzata ed allo stadio di malattia, generalmente il 60% dei pazienti trae un significativo beneficio a lungo termine dalla rivascolarizzazione chirurgica e/o endovascolare, con tassi di sopravvivenza libera da amputazione a 7 anni non inferiori al 60%6-11. In tempi moderni, in rapporto al miglioramento dei presidi endovascolari e ad una sostanziale equivalenza tra i vari materiali, i risultati del trattamento endovascolare dipendono in gran parte dalla sede e dalla lunghezza dell’ostruzione arteriosa. Al contrario, i risultati della chirurgia rimangono fortemente dipendenti dal tipo di graft utilizzato, essendo alto il tasso di fallimento, nel caso di bypass protesici o compositi, rispetto all’impiego della safena. Rimane fondamentale il concetto che, indipendentemente dal tipo di rivascolarizzazione, il risultato clinico finale è figlio della stretta collaborazione all’interno del team multidisciplinare (chirurgo, angiologo, radiologo interventista, infettivologo), all’interno del quale il personale infermieristico riveste un ruolo imprescindibile, per la cura e la guarigione delle lesioni trofiche.


Prof. Raoul Borioni, U.O.C. Chirurgia Vascolare, Aurelia Hospital, Roma

Per la corrispondenza: raoulborioni@alice.it

BIBLIOGRAFIA

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