Anno Accademico 2023-2024

Vol. 68, n° 2, Aprile - Giugno 2024

Conferenza: De profundis per la Evidence Based Medicine, in attesa di una (possibile?) risurrezione

06 febbraio 2024

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De profundis per la Evidence Based Medicine, in attesa di una (possibile?) risurrezione

G. Ceccarelli

La Medicina non dovrebbe essere una questione di autorità
e la domanda più importante che chiunque può fare
riguardo a qualsiasi affermazione è semplice: ‘Come fai a saperlo?’
Ben Goldacre1


Due “esperimenti controllati” vengono riportati nella Bibbia2, 3. Nel primo libro dei Re (18, 23-38) il profeta Elia invita i sacerdoti di Baal a scegliere uno di due giovenchi per il sacrificio; poi, lui, Elia, e i sacerdoti invocheranno ognuno il proprio Dio affinché invii dal cielo il fuoco che consumerà il sacrificio e si vedrà chi è il Signore da Colui che risponderà effettivamente alle invocazioni; nel libro di Daniele (Dan 1, 3-15) il Re vuole imporre al gruppo di giovani Israeliti che è alla sua corte un certo tipo di alimentazione; Daniele si oppone, per motivi rituali e religiosi, e invita il Re a permettere che gli Israeliti seguano i loro precetti: dopo un congruo periodo di tempo si vedrà quale delle due diete seguite -quella prescritta dal Re e quella voluta da JHWH- avrà dato risultati migliori.

A parte questi due antichi esempi, si suole citare come vero primo studio controllato4 quello effettuato da James Lind, medico sul vascello Salisbury della Royal Navy nel 1747, per verificare l’efficacia di alcuni trattamenti di solito impiegati nei marinai che presentavano i segni dello scorbuto, una condizione ad insorgenza molto comune nei lunghi viaggi di mare: ad alcune coppie di malati Lind somministrò nelle stesse condizioni uno dei seguenti “farmaci”: 1,1 lt di sidro; 25 ml di elisir di vetriolo (acido solforico diluito); 18 ml di aceto prima di ognuno dei tre pasti; mezza pinta di acqua marina; due arance e un limone e, infine, un miscuglio fatto con aglio, semi di senape, radice di ravanello essiccata e resina di mirra. L’esperimento sarebbe dovuto durare 14 giorni, ma dopo sei fu interrotto perché i due malati trattati con gli agrumi presentavano tali segni di guarigione da imporre anche agli altri la stessa terapia. Va detto che lo stesso Lind non fu particolarmente impressionato dai propri risultati, riferendoli solo in poche righe del libro che dedicò poi allo scorbuto, talché per molto tempo anche in seguito la malattia continuò a imperversare tra i marinai, fino a che l’idea di rifornire le navi di agrumi e in particolare di limoni non si diffuse, eliminando, in pratica, il grave inconvenientea. Malgrado questi esempi, fino quasi alla metà del XX secolo la mentalità del medico era molto lontana dal pensare che i metodi matematici, e la statistica in particolare, potessero avere una qualche importanza e applicazione nella pratica medicab; è vero che, ad esempio, la statistica aveva avuto una parte importante nella comprensione del modo di diffondersi della famosa epidemia di colera a Londra nel 18545, ma ancora nel 1937 un editoriale del Lancet6 presentando un articolo del prof. Bradford Hill, statistico alla London School of Hygiene, iniziava con la frase: “Statistics are curious things”. Proprio Bradford Hill avrebbe avuto una parte non trascurabile nel famoso studio apparso nel 19487 che documentò la possibilità di sconfiggere la tubercolosi polmonare con la streptomicina e che viene di solito considerato il primo trial controllato e randomizzato (CRT) che avrebbe cambiato in maniera non trascurabile la Medicina moderna. Tuttavia, va notato, come è stato in seguito rivendicato, che già nel 1944 era stata pubblicata, e dallo stesso Medical Research Council che pochi anni dopo avrebbe organizzato il trial sulla streptomicina, un analogo studio, controllato e randomizzato, sulla efficacia del “Patulinc nel raffreddore comune8, 9; questa indagine è poi caduta nel dimenticatoio, con ogni probabilità perché -al contrario di quella sulla tubercolosi- ebbe un esito assolutamente negativo, il che già porta a considerare come spesso le indagini ad esito negativo (rispetto alle attese per cui sono attuate) “scompaiano” dal nostro orizzonte, malgrado il fatto, ovvio, che esse, invece, esistono e hanno un loro significato.

La famosa indagine su streptomicina e tubercolosi8 può essere considerata come quella che ha iniziato veramente una nuova era nello studio non solo della valutazione dei farmaci, ma più in generale nella valutazione “scientifica” delle pratiche che si adottano in Medicina.

Un altro poderoso elemento che operò nel mutare l’approccio alla Medicina fu quello di quei pochi che osarono (e forse ancora osano) chiedersi perché, su quale base si adottassero alcune strategie terapeutiche. Un esempio fu quello di Samuel Albert Levine, che10 si pose il problema se fosse corretto imporre il riposo a letto protratto per circa 40 giorni dopo un infarto miocardico; a quel tempo si faceva così perché “si era fatto sempre così” sulla base di un concetto, il riposo dell’organo danneggiato, che in alcuni altri casi si era rivelato corretto. Mobilizzato rapidamente l’infartuato, i danni del riposo protratto si ridussero e cominciò quella riduzione progressiva della mortalità cardiovascolare di cui godiamo ancora oggi, ovviamente anche per molti altri mutamenti. Sulla scia di Levine, David Sackett nel suo ultimo anno da studente in Medicina si pose il problema se11, al solito, il riposo prolungato a letto fosse giustificato nei casi di quello che al tempo si indicava come ittero catarrale e che quasi sempre poi coincise con una epatite A. Sackett prima di mobilizzare i malati che gli erano affidati, cercò in letteratura e trovò due lavori “controllati”12, 13, a firma tra gli altri di Tom Chalmers, che indicavano come il riposo a letto non modificasse positivamente il corso naturale della malattia. Cominciò così quello che Sackett indicò come un “approccio critico” alla Medicina, e che poi, tra la fine degli anni ’80 e i primissimi anni ’90 divenne, per opera di un allievo di Sackett, Gordon Guyatt14, la “Evidence Based Medicine”, la Medicina basata sulle prove. Questo approccio critico si basava, soprattutto all’inizio, nel porsi precisi quesiti medici cui seguiva la ricerca di quanto, a proposito di essi, al momento era noto; nell’apprezzamento critico di tali conoscenze e della loro applicabilità nel caso in esame; la fase finale era quella in cui l’intero processo era valutato nei confronti sia dei suoi risultati sia di eventuali modifiche future.

In questo modo di procedere, ovviamente la massima importanza sta nella disamina di quello che è lo “stato dell’arte” in quello specifico campo. A tale riguardo, dei vari dati di cui si dispone (dall’opinione di coloro che si suppone siano esperti del settore, alle descrizioni di singoli casi passati, agli studi “osservazionali” -non controllati, agli studi controllati ma non randomizzati, fino a questi ultimi e alle “reviews” o alle meta-analisi che li sintetizzano), secondo i cultori della EBM il massimo peso deve essere assegnato proprio agli studi che riassumono, secondo protocolli molto precisi, gli studi randomizzati disponibili: quindi alle reviews e soprattutto alle meta-analisi, in particolare se tali studi e tali riassunti sono andati incontro ad un processo di “peer review”, cioè di revisione operata, in cecità, da esperti indipendenti.

Con il passar del tempo, però, apparve sempre più chiaro che si doveva avere una visione più integrata della letteratura,  da un lato non trascurando troppo quel che derivava anche da ricerche non controllate, ma estese15; e dall’altro scoprendo sempre di più che anche le review e le meta-analisi non sono del tutto esenti da difetti (o “bias”) che le tecniche adottate possono sì ridurre, ma mai eliminare completamente16; le strategie alla base della loro compilazione, infatti, hanno spesso un elemento soggettivo che fa sì che da esse si possano, volendo, ricavare conclusioni diverse e anche opposte17, 18.

Questo modo di procedere si è diffuso molto velocemente, e sono diventate disponibili molte pubblicazioni “indipendenti”d da cui ricavare con buone percentuali di successo quanto, su un certo problema, è noto e concordato. Tutto ciò si è condensato in quelle che ormai sono ovunque note come “linee guida”19 che raccolgono e rappresentano lo “stato dell’arte” di un dato problema medico e devono servire da orientamento nel singolo caso, anche se la “potenza” di tale orientamento -cioè la forza e l’estensione con cui una determinata “linea guida” si impone nel comportamento del medico al letto del malato- è sovente oggetto di contestazione successiva.

Non è certo qui il caso di passare in rassegna i grandi successi che un tal modo di procedere ha permesso di ottenere; ne citerò solo due, scelti un po’ “at random”, tanto per restare in argomento. Dal 1950 fino a gran parte degli anni ’80 venne consigliato di far dormire il neonato lattante in posizione prona (“face down” come si diceva seguendo l’opinione di un famoso anche se discusso pediatra statunitensee); successivamente, cominciarono ad apparire degli studi controllati che, riassunti ad esempio in una pubblicazione del National Institute of Child Health and Human Development (NICHD)20, portarono, sulla base di prove, a consigliare vivamente il sonno dei bambini in posizione supina (“face up”). L’altro esempio è quello dell’impiego di una terapia ormonale nelle donne in post menopausa (fino al 2004 negli USA circa il 40% di tali soggetti riceveva ormoni sulla base di ampie analisi di tipo osservazionale21) fino a che il grande studio randomizzato condotto sotto l’egida della Women's Health Initiative22 sconsigliò tale uso, riservato in seguito solo ad alcuni casi specifici.

Un altro esempio, di tipo diverso, è quello della valutazione, mediante una “sham surgeryf  di un intervento come la vertebroplastica e la cifoplastica che negli USA è divenuto “una industria da one-billion-dollar-a-year23; in un articolo recente del genere “pro o contro” su Reumatismo2425 autori italiani concludono tra l’altro che “si tratta di procedure ampiamente impiegate per alleviare il dolore e aumentare la mobilità nei pazienti con fratture da osteoporosi, ma la loro efficacia non è stata provata in maniera sostanziale mediante trials controllati e randomizzati; per di più, effetti collaterali gravi come emboli polmonari o intracardiaci stanno lì a contraddire l’idea generale che si tratti di una procedura sicura”. Insomma, il “pensiero critico” applicato alla medicina con la EBM sembra indubbiamente aver contribuito in una maniera certamente non casuale ad alcuni tra i più importanti successi ottenuti negli ultimi decenni.

A questo punto è con una certa sorpresa che nel 2020 compare un libro26, i cui argomenti vengono riassunti e ribaditi due anni dopo in un articolo del BMJ27, in cui la EBM viene semplicemente definita “una illusione”.

In realtà, che non tutto fosse perfettamente a posto in qualcuno dei vari punti che costituiscono, come si è detto, la EBM, era apparso già prima della codificazione della stessa EBM; quando già nel 1978, ad esempio, era apparso un articolo sul NEJM28 nel quale si portava l’attenzione sul fatto che la spesso ridotta dimensione del campione esaminato nelle CRT poteva esporre a importanti errori sistematici nella valutazione dei loro risultati. Quell’articolo aveva portato come conseguenza l’avvio di trials molto numerosi, che avevano proprio lo scopo di evitare quel tipo di bias; cito solo, dieci anni dopo l’articolo ora ricordato, il famoso studio ISIS-229 o gli altrettanto famosi -tra l’‘86 e il ’90- lavori del gruppo italiano per lo studio sulla sopravvivenza nell’infarto del miocardio (GISSI e GISSI-2), tutti studi su popolazioni superiori ai 10mila casi. Questi lavori molto ampi sono però, come è facile comprendere, estremamente complessi nella loro elaborazione, nella loro esecuzione e nella loro valutazione; per ovviare a tali enormi difficoltà, non facilmente superabili in ambito non solo ospedaliero ma anche universitario, sono da allora sorti numerosi gruppi privati, sparsi un po’ dovunque ma ovviamente più numerosi e noti negli USA, che collaborano con gli enti ora menzionati in tutte le fasi di questi che ormai sono noti e diffusi come megatrials. Il supporto finanziario di tali megatrials (e non solo dei megatrials, ma dei CRT in genere) ricade spesso, o meglio quasi sempre, sull’Industria, come è facile capire; secondo alcuni autori30 oltre l’80% delle CRT è “industry sponsored”, il che non stupisce se si pensa alla “potenza di fuoco” finanziaria dell’Industria interessata agli stessi trials clinici, potenza di fuoco che è passata dai 390 miliardi di dollari del 2002 ai 1482 miliardi di dollari del 202231 con un incremento, nel periodo considerato, di quasi il 400%.

Un altro fatto molto importante che si è inserito nel problema, apparentemente lontano, dell’EBM è quello della cosiddetta legge Bayh Dohle votata dal congresso USA alla fine del 198032; si tratta, molto in breve, di una legge che ha permesso a chi ottiene fondi dallo Stato e ne ha derivato dei brevetti, di divenire proprietari di tali brevetti; in precedenza, lo Stato aveva un “diritto di prelazione” sui risultati ottenuti con i suoi fondi. Di conseguenza, un universitario o una Università o una piccola industria ottiene fondi dallo Stato e con essi arriva ad un farmaco o una procedura o una apparecchiatura medica; lo/la brevetta e su di esso inizia una sperimentazione pilota; a questo punto possono darsi due sviluppi: a) la sperimentazione pilota non dà risultati promettenti e di conseguenza lo Stato ha elargito dei soldi e tutto è finito lì; oppure b) la sperimentazione pilota dà risultati promettenti e a questo punto di solito la grande ditta X propone di «sviluppare» le potenzialità del brevetto, con il che in pratica «assolda» l’inventore. La conseguenza, come ha scritto Marcia Angell33, che è stata per molti anni “Editor” del New England Journal Medicine, una delle più importanti se non la più importante rivista medica, lo Stato ha ridotto un po’ i suoi fondi per le Università, ma le Università hanno la possibilità di guadagnare molto di più trasferendo alle industrie i risultati ottenuti, il che però aumenta il conflitto di interessi tra Università e Industria. Soprattutto si crea non una diffusione delle conoscenze come tali, ma una «cultura del segreto» che riduce la diffusione delle conoscenze scientifiche e la possibilità di esplorare nuovi orizzonti e in particolare si tende inevitabilmente a manipolare i risultati ottenuti per arrivare a risultati pratici, lasciando perdere lo studio dei dati per sé stessi. In definitiva, i costi della ricerca sono molto spesso a carico dello Stato; solo se i risultati lasciano almeno sperare in un profitto, interviene la grande Industria e l’impegno dell’Industria è direttamente proporzionale alle possibilità di «successo», ma soprattutto l’Industria «entra» inevitabilmente nell’Università e la logica del profitto si sostituisce alla logica della ricerca «per sé stessa». Una piccola ma significativa conferma di questo ragionamento si ebbe quando, qualche anno dopo, lo stesso Senatore Dohle divenne26 testimonial” nella grande campagna a favore della cura della disfunzione erettile promossa da una grande Industria.

Tutto questo avveniva proprio nel mentre sulle idee certamente innovative e creatrici di pionieri come Chalmers, Sackett e Guyatt si veniva sviluppando la Evidence Based Medicine (EBM), in cui, come si ricorderà, uno dei grandi pilastri è l’ottenimento di prove scientificamente valide per la pratica della Medicina, cioè quel che si trova nella letteratura più accreditata da contemperare con l’esperienza del medico e le attese e i valori del malato.

Il problema fu che nel mondo “ideale” immaginato dai pionieri si venne mano mano intrufolando l’interesse industriale. Ora è evidente che - come si è già visto all’inizio con il vecchio caso del “Patulin”, i risultati della ricerca non solo possono avere un differente impatto a seconda del loro esito -positivo o negativo- ma esiste da un lato una gran massa di dati che pur esistendo, non vengono pubblicati (dati brevettuali, dati riservati allo sponsor dell’indagine, dati ricavati dai singoli pazienti) e, dall’altro, anche nelle pubblicazioni “ufficiali” e anche su quelle, e non sono certamente tutte, apparse su riviste che adottano il sistema della peer review possono apparire conclusioni che, a valutare tutti i dati effettivamente noti, sarebbero o potrebbero essere diverse da quelle esposte. Questa situazione, nota da tempo ma venuta alla luce per alcuni casi clamorosi arrivati fino alla Corte di Giustizia (su alcuni dei quali torneremo tra poco) ha portato alla costituzione di gruppi che hanno lo scopo di ri-valutare dati già pubblicati sulla base di tutto quel che si sa: si tratta dei cosiddetti “gruppi RIAT”34 (“Restoring Invisible and Abandoned Trials”). Non si tratta quindi solo di mettere in evidenza e segnalare (come si dovrebbe sempre fare in corso di una revisione “peer”) i tanti possibili bias tecnici nei quali si può, anche innocentemente, incorrere nella stesura di un testo da pubblicare (per comodità li riassumo incompletamente nella Tab. 1), quanto di valutare, al fine di trarre conclusioni scientificamente valide, “TUTTI” i dati a disposizione, anche quelli nella parte “sott’acqua” dello schema iceberg cui si accennava sopra. Approfondirò questo punto tra poco, ma prima vorrei porre l’attenzione su un tema sollevato di recente37: quello dell’impiego nei trials controllati, di ciò che è stato indicato come un “fauxcebo”, cioè un placebo che può non essere realmente tale. In una review38 operata da un gruppo di solito molto accreditato, come un gruppo Cochrane, su un vaccino HPVg e che si riferiva alla efficacia e ai side effects del vaccino, questi ultimi erano considerati non significativamente diversi da quelli indotti da un placebo che però si poteva prestare a essere un “fauxcebo”. Queste conclusioni sono state a loro volta contestate39-41 da altri gruppi, anch’essi molto attenti a questi temi, ma sono state utili per aver riportato l’attenzione al vecchio tema del placebo42.

 

Tab. 1. Esempi di “bias” tecnici in cui si può incorrere.

 

Tornando ora al problema dei bias nelle pubblicazioni è abbastanza evidente, anche dal caso appena citato, che essi dovrebbero e potrebbero essere evitati con un controllo preventivo molto approfondito, controllo che va (andrebbe) esercitato da quelle che potremmo indicare come “le istituzioni”, cioè i soggetti terzi che per la loro natura dovrebbero assicurare il maggior grado di correttezza e di corrispondenza tra i dati emersi dalle ricerche e ciò che appare nelle pubblicazioni. Come scriveva tanti anni fa il filosofo della scienza Karl Popper43le istituzioni sono come fortezze: devono essere ben costruite e adeguatamente difese”.

Tra “le istituzioni” vanno ovviamente considerati per primi coloro che appaiono come gli autori della pubblicazione, ma qui si deve far fronte al problema dei cosiddetti “ghost-writers”. Uno dei primissimi casi in cui si fu di fronte, allora senza saperlo, ad un caso di “ghost-writer” fu quello che rischiò -siamo nel 1961- di estendere agli USA il disastro della talidomide. In quell’anno infatti apparve su una rivista di specialità USA un articolo44 a firma di un dottor R. Nulsen in cui si leggeva che “talidomide è un farmaco sleep inducer sicuro per le donne in gravidanza…”. L’articolo, in realtà, come si scoprì in seguito45, era stato scritto da un tal Richard Pogge che al tempo era il direttore medico della ditta produttrice negli USA della talidomide, ditta che stava cercando di ottenerne colà l’autorizzazione alla commercializzazione, autorizzazione già ottenuta in molti Paesi europei. Questa autorizzazione non fu mai concessa negli USA per la perspicacia e l’ostinazione di uno dei pochissimi medici -la dottoressa Frances Oldham Kelsey- di cui disponeva allora l’FDAh per la valutazione di quanto veniva asserito dalle Industrie sui propri farmaci. La Kelsey si oppose strenuamente alle pressioni che su di lei vennero esercitate e basandosi sull’evidenza che le prove sulla sicurezza del farmaco erano carenti, impedì che la talidomide facesse negli USA i terribili danni che provocò come si sa in molti altri Paesii. Ma quanto, come una sorta di pioniere, aveva fatto il dottor Nulsen, cioè apporre la sua firma a un lavoro scritto da altri, senza assicurarsi che ciò che veniva pubblicato a suo nome fosse assolutamente o almeno scientificamente corretto, divenne poi una pratica molto diffusa. Nel 2001, cioè 40 anni dopo l’episodio di Nulsen, operavano negli USA bel 182 gruppi che si occupavano46 di “medical communications”, una dizione che in generale si riferisce48 alla “pianificazione, creazione e/o comunque supervisione (“management”) di “advisory boards”, “abstracts and posters”, lavori clinici (“clinical papers”), “speakers' bureau programs”, simposi satellite, programmi internazionali, websites, e a una vasta gamma di materiali stampati e elettronici”. In un altro articolo49 ormai non più recentissimo si faceva presente che “l’Industria farmaceutica si trova spesso coinvolta in pratiche dubbie e poco etiche, comprendenti ‘ghost and guest authorship’ (‘paternità surrogate’, lavori «affittati») e pressioni sugli Autori per eliminare i dati negativi”. Questa constatazione si trova ad essere autorevolmente condivisa da due medici che, per il loro lavoro, si sono trovati a essere coinvolti nel lavoro editoriale di due tra le più importanti riviste mediche al mondo: il BMJ e il NEJM. Il primo che per molti anni è stato Editor-in-chief del BMJ ha scritto50 che “le riviste mediche sono divenute una estensione del marketing delle industrie farmaceutiche”; la seconda, che ho già citato in precedenza, ha ribadito51 che “semplicemente, non è più possibile fidarsi molto dei lavori che sono pubblicati o delle opinioni dei cosiddetti «opinion leaders» tra i medici. Non sono certo lieta di essere arrivata a pensare così, ma ci sono arrivata dopo essere stata per vent’anni un Editor del NEJM”.  Il che, va detto, non significa che tutti, o gran parte, dei lavori pubblicati anche nelle riviste scientifiche più prestigiose siano inaffidabili, come pure è stato autorevolmente affermato52  j; significa però che saper distinguere tra il buono e il cattivo è molto difficile26.

Oltre agli autori, un altro elemento di possibile controllo sulle pubblicazioni è indirettamente costituito dalle Agenzie governative che si occupano della regolazione e del controllo delle ricerche (FDA, EMAk e simili); tali Agenzie infatti monitorano il regolare svolgimento dei trials e fanno le loro osservazioni, potendo quindi rilevarvi dei punti critici; tuttavia è difficile che questi rilievi, operati durante l’esecuzione dei trials, trovino risonanza nelle pubblicazioni successive. Uno studio al riguardo53 condotto nel 2015 ha evidenziato che i vari possibili rilievi messi in evidenza dalle ispezioni FDA possono, con frequenza variabile, non trovare espressione nelle successive pubblicazioni anche su riviste peer reviewed. La Tab. 2 riporta alcuni dei possibili “accorgimenti” che possono essere adottati a livello di pubblicazione degli studi per massimizzarne o minimizzarne l’impatto dei risultati senza che questo necessariamente comporti una frode, ma come si vedrà tra breve, potendo in realtà -per esempio evitando di pubblicare alcuni dati disponibilil- modificare anche in maniera rilevante ciò che la ricerca comunica.

 

Tab. 2. Esempi di “bias” connessi alla pubblicazione dei dati.

 

È chiaro che questa situazione, nota da molti anni, ha creato delle reazioni da parte di parecchi gruppi accademici. Alcune di tali reazioni hanno avuto una base idealistica: ad esempio Donald W. Light, professore di Comparative Health Policy alla Rowan University negli Usa e Antonio Maturo, professore associato di Sociologia della Salute nell’Università di Bologna hanno pubblicato54 nel 2015 un libro dal titolo “Good Pharma” apparso negli USA ovviamente in inglese, in cui, preso atto che spesso oggi la ricerca medica segue quello che definiscono “il modello farmaceutico” (nel quale si cerca di massimizzare il numero dei nuovi prodotti brevettabili e dei profitti derivabili; di eliminare i prodotti non brevettabili; di concentrare la ricerca su modeste variazioni di quanto esistente; in cui i processi vengono ordinati alla segretezza per evitare vantaggi ad altri; si sviluppano farmaci destinati a patologie che garantiscono un notevole ritorno economico; si programmano studi su gruppi selezionati di soggetti al fine di massimizzare i vantaggi e minimizzare gli svantaggi; gli studi sono fondamentalmente marketing oriented e “vi si misura ogni cosa per trovare qualcosa”; e infine i medici e i pazienti coinvolti vengono rimunerati e si tende ad arruolare il maggior numero di «casi», senza far troppo caso ai rischi) auspicano l’avvento su larga scala di ricerche che si ispirino a quello che indicano come “il modello farmacologico” secondo il quale l’obbiettivo è arrivare a benefici clinici soddisfacenti senza considerare la convenienza economica; si valutano i composti potenzialmente utili, veramente nuovi, indipendentemente dalla loro brevettabilità; i processi sono trasparenti e condivisi; ogni risultato è reso pubblico; ci si indirizza a patologie gravi o per le quali non esistono trattamenti adeguati; gli studi sono condotti su popolazioni di pazienti che assumeranno il farmaco nella loro situazione reale di vita; gli studi tengono conto di ciò che è noto, valutando end points solidi e validati; i pazienti arruolati non percepiscono compenso e i medici convolti possono al massimo ottenere un parco rimborso. Come esempi di quest’ultimo tipo di ricerca medica gli autori indicano, tra l’altro, quella condotta nel corso degli anni dall’Istituto Mario Negri in Italia che, come si sa e come abbiamo già in parte ricordato, ha prodotto lavori fondamentali come quelli noti con gli acronimi ISIS-229, GISSI55 e GISSI-256. Se un appunto si può fare a questa impostazione, in linea di principio molto corretta, è quello che le pubblicazioni che si ispirano al “modello farmacologico” sono senz’altro molto meno numerose di quelle improntate al “modello farmaceutico” e che l’auspicio di una inversione di tendenza nel futuro rischia purtroppo di rimanere tale.

Un altro tipo di reazione dell’accademia, o almeno di alcuni suoi gruppi, è quello che ha condotto a svolgere un’azione molto pervasiva per far sì che tutti i dati che l’Industria presenta alle agenzie di regolazione siano pubblici e messi a disposizione per eventuali controlli. Questa “pressione” ha per esempio indotto nel 2010 dopo molti anni l’EMA a emanare una “policy57 per cui, sia pure a certe condizioni, tutti i dati sono disponibili e una procedura liberalizzante abbastanza analoga è, sempre a certe condizioni un po’ più restrittive, valida anche per l’FDAm.

Possiamo ora tornare, dopo questa lunga parentesi, agli studi RIAT34 cioè a quelle indagini che si occupano di valutare di nuovo (e spesso non rivalutare in senso positivo) pubblicazioni che hanno avuto al loro apparire un notevole impatto clinico e epidemiologico, ma che hanno suscitato, anche con conseguenze legali, alcuni pesanti dubbi. 

Il caso più noto e famoso è quello che ha interessato il lavoro che M.B. Keller e un folto gruppo di collaboratori del Dipartimento di Psichiatria e Comportamento Umano della Brown University di Providence pubblicarono nel 200158 e il lavoro di Wagner et al.59, pubblicato nel 2004, ma il metodo è stato applicato a parecchi trials60 con lo scopo di valutare la reale indipendenza degli autori (sia di coloro che hanno firmato il lavoro base sia di quelli che hanno ri-analizzato le pubblicazioni) e di vedere se la nuova analisi ha portato a conclusioni diverse da quelle originali. I due studi5859 si riferiscono al trattamento controllato in doppia cecità con psicofarmaci (paroxetina / imipramina o citalopram / placebo) della depressione unipolare degli adolescenti. Lo studio di Keller et al.  conclude che “Paroxetine is generally well tolerated and effective for major depression in adolescents”; quello di Wagner afferma che “treatment with citalopram reduced depressive symptoms to a significantly greater extent than placebo treatment and was well tolerated”. A seguito di alcuni eventi contrari, tra cui alcuni casi di suicidio, prodottisi nella fase post-marketing (entrambi i trials furono molto fortemente sostenuti e diffusi dalle Industrie che li avevano sponsorizzati) da un lato venne promossa una serie di azioni legali e dall’altro venne avviata una revisione dei due studi. La lunga e molto complessa vicenda è riassunta nel testo di Jureidini J e McHenri LB27 e, per quanto riguarda il lavoro di Keller et al. (noto anche come “studio 329”) nella pubblicazione di Le Noury J, Nardo JM, Healy D et al. del 201561 che riporta queste conclusioni: “Neither paroxetine nor high dose imipramine showed efficacy for major depression in adolescents, and there was an increase in harms with both drugs. Access to primary data from trials has important implications for both clinical practice and research, including that published conclusions about efficacy and safety should not be read as authoritative. The reanalysis of Study 329 illustrates the necessity of making primary trial data and protocols available to increase the rigour of the evidence basen.

Da un punto di vista generale, va notato che i procedimenti legali che vennero intentati intorno alle conclusioni dei lavori e alle conseguenze che ne derivarono, si concluse nel primo caso (Keller et al.) con la ditta produttrice della paroxetina che accettò di pagare una provvisionale di 3 miliardi di dollari, mentre la ditta coinvolta nel lavoro della Wagner se la cavò con una multa di soli 180 milioni di dollari. I due lavori non vennero mai “retracted” e le Università di appartenenza degli autori (Keller ammise di non aver scritto il testo e che si era limitato ad approvare un testo che gli era pervenuto da una ghost-writer) non emisero nessun provvedimento nei loro confronti. Casi analoghi sono, tra gli altri, quelli che videro coinvolti un lavoro di Lisse et al.62 sul rofecoxib (in conseguenza del quale la ditta produttrice si accollò un danno pari a 4,85 miliardi di dollari); quello di Home et al.63 sul rosiglitazone che in seguito ad una più corretta ri-valutazione64, 65 ne portò al ritiro dal mercato; e si potrebbe continuare.

Va detto però che anche gli studi RIAT, riesaminati complessivamente60 hanno mostrato solo in una loro parte, e non molto estesa, di essere stati condotti da ricercatori assolutamente indipendentio, evidenziando comunque parecchie divergenze significative nella interpretazione dei risultati ottenuti.

Un’ulteriore reazione accademica e di gruppi medici alla situazione generale dei trials clinici “Industry sponsored” e utilizzati dal marketing farmaceutico è quella che si è avuta in Francia in relazione ai rapporti dell’Industria con la Haute Authorité de Santé, l’agenzia che in quel Paese regola le regole per l’immissione e il mantenimento dei farmaci sul mercato ed è tra le più accreditate fonti per l’emanazione delle linee guida per il loro corretto impiego. Un ampio studio di Dalgalarrondo e Hauray66 ha di recente riassunto le vicende (sono più d’una) che hanno coinvolto da un lato aziende produttrici di farmaci ampiamente prescritti per la malattia di Alzheimer e per il diabete e, dall’altro, importanti clinici presenti nei comitati incaricati dallo Stato della stesura proprio delle linee guida; in questi casi sono intervenuti per opporsi alle pratiche ritenute scorrette, anche gruppi -tipo Farmindep66-, appositamente formatisi, di medici operanti nella pratica.

Per non prolungarmi eccessivamente, tralascerò altri problemi che gravano sulla EBM (il cosiddetto “p-hacking” che si riferisce allo spesso diverso significato52 che da un lato gli statistici e dall’altro i medici attribuiscono al fatidico valore di “p<0.05” che fa bella mostra di sé nelle pubblicazionip e alla ricerca spesso affannosa che si fa a volte per raggiungerlo almeno su qualcuno degli end points magari non specificati in partenza; la assoluta scarsità di ricerche controllate e randomizzate “a n=1” dove un unico soggetto funge da controllo per  sé stesso67, 68; o le critiche, alle quali almeno in parte ho già accennato, sui criteri che sono alla base delle rassegne sistematiche e delle meta-analisi: per esempio il fatto che in esse di solito non si includono i dati che stanno “sotto  la linea dell’acqua” nell’esempio dell’iceberg più volte  richiamato69, 70).

Arrivando o almeno avvicinandomi alla conclusione del nostro tema, ricordo ancora che nella idea iniziale di Sackett71 la EBM è un modo di integrare fra loro le prove scientifiche di efficacia, il giudizio clinico e come il malato intende la propria malattia. Nella sua evoluzione nei successivi 30-35 anni, tuttavia, la EBM72 è venuta sempre più sottolineando e applicando gli aspetti connessi alla protocollizzazione, quelli relativi all’applicazione delle cosiddette linee guida e di conseguenza all’importanza degli algoritmi connessi alla Medicina. Poco spazio, e sempre minore, viene lasciato al giudizio-esperienza clinica e a quelli che sono i “valori” dei malati. La Medicina sta diventando sempre di più un “management of templates” (una applicazione, un modo di applicare dei modelli). E con questo sta eliminando a poco a poco la clinica, il modello clinico. Inoltre, l’adozione non criticamente razionalizzata e individualizzata delle Clinical Guidelines (che oltre tutto cambiano molto rapidamente e sono a volte numerose) sta facendo tornare a una sorta di “autoritarismo” in Medicina73 (ricordate ancora la frase messa in exergo? “La Medicina non dovrebbe essere una questione di autorità…”1).

La fusione del “modello clinico”, del modello “basato sulle prove” e magari anche con quella che è da qualche anno indicata come “medicina narrativa”74 o con la “Slow medicine75 non è facile, anche perché si sono venute cristallizzando, sempre seguendo il modello statunitense, due posizioni76: secondo la prima le “cure” (non solo quelle farmacologiche) devono avere un documentato valore e tutto ciò che non può provare con chiarezza quasi cartesiana di indurre nei pazienti dei vantaggi dal punto di vista della mortalità e della qualità della vita, deve essere abbandonato. I dati sui quali si basano alcune pratiche in uso, se non costituiti da trials controllati e randomizzati condotti secondo rigide modalità e attenti controlli, “vanno semplicemente non considerati”; il che porta in parecchi casi a non utilizzare modalità di cura che inducono benefici magari modesti, non “significativi” dal punto di vista “scientifico” ma con qualche probabilità utili dal punto di vista clinico, magari in un piccolo gruppo di soggetti particolari da qualche punto di vista; secondo l’altra posizione ciò che si fa “da molto tempo” mantiene un valore pratico anche se non “scientificamente validato”; i sostenitori di tale punto di vista si oppongono quasi sempre alle prove che svalutano le antiche pratiche affermando per lo più che si tratta di pubblicazioni a loro volta criticabili da vari punti di vista. In questa situazione sempre più spesso, sempre sotto l’influenza del mondo anglosassone e dei suoi modi di pensare, il problema del “che fare?” viene sempre più di sovente spostato sul paziente, cui, si afferma, “spetta la decisione finale”; senza considerare che, a parte pochi casi, il povero paziente non ha proprio la possibilità di quel che Luigi Einaudi chiamava la necessità di “conoscere per deliberare”77 e senza considerare tutti i problemi di organizzazione, di costo e anche etici, connessi ai trials controllati e randomizzati. La assolutezza di qualche sostenitore a spada tratta della EBM è tale da aver suscitato la ironia molto british di due autori che, avendo rilevato l’assenza di studi controllati versus placebo che dimostrino in maniera incontrovertibile l’efficacia del paracadute nelle cadute da un aeroplano in volo, ne hanno sollecitato l’esecuzione, ovviamente ad opera degli stessi sostenitori78. Resta il fatto che, mentre come si sa, i risultati ottenuti in un trial controllato sono correttamente applicabili solo a popolazioni di cui il campione esaminato sia rappresentativo, non è affatto facile disporre79 di tali studi per popolazioni come quelle in età pediatrica80 o senile, anche se grandi successi sono stati ottenuti proprio in queste due popolazioni di soggetti81, 82. Inoltre, i soggetti inclusi in un trial controllato raramente sono rappresentativi dei malati, spesso con polipatologie, che si incontrano nella pratica comune o, come oggi si dice, nel mondo reale (“real world”) e quindi si può dubitare che i risultati che se ne ricavano costituiscano una “real world evidence83.

Termino accennando ad alcuni punti che mi appaiono di particolare interesse sia per il passato che per il futuro.

Innanzi tutto, negli ultimi anni, sotto la spinta di eventi eccezionali ed anomali (la pandemia da CoVid19; l’HIV/AIDS, la lotta ai tumori tra gli altri) le Agenzia regolatorie sono state soggette a numerose pressioni per accorciare i tempi per l’approvazione dei farmaci84, 85; queste pressioni hanno a volte ottenuto dei risultati. Ne cito due (evitando di ricordare, per la condizione veramente specialissima a livello globale in cui ci era venuti a trovare, le approvazioni dei vaccini anti CoVID19): un farmaco per la terapia del tumore del polmone non a piccole cellule, l’osimertinib, è stato approvato in meno di mille giorni; un altro farmaco, l’elexacaftor, per la terapia, in associazione. della fibrosi cistica lo è stato dopo poco più di mille giorni, tempi relativamente molto brevi. Va notato che l’osimertinib appartiene a una classe di antitumorali cui appartengono altre sostanze note e approvate da alcuni anni; per fare un confronto, il rapporto di costo tra il gefitinib, il progenitore del gruppo, ormai divenuto un farmaco generico per la scadenza del brevetto, e l’osimertinib è di circa 60 volte maggiore86, il che pone il problema se i nuovi farmaci (nel settore degli antitumorali si è ormai pervenuti a ripetere in definitiva il fenomeno dei derivati mee-too ben noto in altri settori, con nuovi derivati che arrivano in considerevole numero a disposizione degli oncologi tanto che il 40% di tutti  i nuovi farmaci approvati da EMA nel 2018 e 2019 erano farmaci antitumorali87) offrano, rispetto ai precedenti, vantaggi clinici tali da giustificarne la diffusione e il costo. Alcune molto autorevoli voci critiche si sono già levate al riguardo da parecchi anni88-92 e di recente sono state confermate93, 94.

La seconda osservazione, con la quale termina questa lunga esposizione, è quella che porta a considerare come nel XXI secolo, rispetto al secolo precedente che portò al trionfo della farmacologia sia di base che applicata, si osserva un cambio di paradigma, citando il filosofo della scienza Thomas Kuhn95: nel XX secolo  si sono ottenuti farmaci (dalle statine agli ace-inibitori agli inibitori della pompa protonica, tanto per citarne alcuni) per i quali il bersaglio per il farmaco e l’interazione farmaco-bersaglio sono fondamentalmente gli stessi per, in pratica, tutti i pazienti. Un CRT ben condotto, fornisce di conseguenza indicazioni abbastanza correttamente estensibili alle diverse subpopolazioni considerabili in studi osservazionali. Ora la situazione sta cambiando e un esempio ce ne è offerto proprio dall’elexacaftor, il farmaco cui si è sopra fatto cenno per la fibrosi cistica (Fc). Gli enormi progressi compiuti negli ultimi 30-40 anni nella patogenesi di questa malattia hanno portato a vedere che in un singolo malato di Fc può essere in gioco una diversa mutazione (o un cluster di mutazioni) del gene che regola il CFTR e le mutazioni note sono moltissime. Di conseguenza la estrapolazione di quanto si osserva in un dato gruppo di malati affetti da Fc ad altri gruppi appare poco o nulla corretta, con tutte le conseguenze che ne derivano a livello di pazienti da includere in un CRT.

In conclusione, tutte le critiche e i dubbi che gravano sui trials alla base della EBM e sulla stessa EBM sono ormai noti fondamentalmente da anni e almeno dall’inizio del XXI secolo. L’uscita nel 2020 di un libro che nel titolo parla della EBM come di una illusione26, ribadito due anni dopo da un articolo analogo27, fa pensare che i rimedi finora proposti per una situazione che - partita per assicurare la “scientificità” o almeno una maggiore “scientificità” della Medicina- ha nel corso del relativamente poco tempo trascorso, mostrato molte criticità- non abbiano raggiunto lo scopo. Dobbiamo allora intonare un De profundis per la EBM?

Forse no. Bisogna però (Tab. 3) che si formi79, 87, con l’aiuto delle nuove tecnologie (maggiore e migliore utilizzo di “big data”; nuovi e creativi protocolli di indagine; nuovi, precisi, validati, utili e più individualizzati “end points”; maggiore fusione tra dati ottenuti da CRT e “real world practice”; utilizzo di “end points” digitali fruibili anche fuori degli ambienti ospedalieri, nella vita normale; legislazione speciale per gruppi particolari, specie pediatrici; impiego umano della Intelligenza Artificiale; e così via) e integrando i principi della EBM classica con quelli di Medicine più attente alla persona del malato (che deve allontanarsi sempre più dall’essere o divenire un “clienteq” di “aziende” ospedaliere) come la “Medicina narrativa” e la “slow medicine”, quella che potremmo definire la Medicina integrata del futuro.

L’autore deve confessare che, naturalmente anche per la sua avanzatissima età, vede tale Medicina come una resurrezione in una sorta di sogno; ma forse possiamo dire con Shakespeare: “Gli amanti ed i pazzi hanno un cervello così fervido, una fantasia talmente fertile, da concepire più di quanto la fredda ragione possa comprenderer.” O, al contrario la EBM è stata “un polline che non fiorisce mai ma profuma l'arias?

 

Tab. 3. The next generation EBM.


Prof. Giovanni Ceccarelli, Pediatra, Libero Docente in Pediatria

Per la corrispondenza: gianni.ceccarelli@alice.it


a. La celebre circumnavigazione del globo che vide Ferdinando Magellano (1520) protagonista si era conclusa con più dell’80% dell’equipaggio morto a causa dello scorbuto.
b. Un anziano collega, poi divenuto un ottimo medico, mi ricordava di recente la sua antica difficoltà di fronte all’esame di fisica che incombeva sugli studenti del primo anno (da sostenere al tempo, in Sapienza, con il temutissimo prof. Ageno, che sarebbe divenuto un grande biofisico ma che allora “si divertiva” a bocciare anche dieci volte di seguito gli sprovvedutissimi futuri Esculapio); il collega attribuiva gran parte della difficoltà al fatto che, malgrado i raggi X di Roentgen e l’auscultazione di Laénnec,  “allora non si capiva molto” che cosa la fisica avesse in comune con la medicina (l’avvenire lo avrebbe poi mostrato molto bene).
c. Il “Patulin” era un prodotto metabolico ottenuta da una muffa a sua volta prodotta da penicillium patulum.
d. Tra queste, alcune molto note sono “Medical Letter”, le “Cochrane reviews”, la rivista “Prescrire” etc.
e. Il dottor Spock, un libro del quale: “Baby and child care”, tradotto in molte lingue, ebbe uno straordinario successo.
f. “Sham surgery” è analogo di “placebo surgery” intendendosi con tale termine un intervento chirurgico in cui si omette il punto che si ritiene terapeuticamente necessario.
g. Vaccino contro il papilloma virus.
h. FDA= Food and Drug Administration USA.
i. La dottoressa Kelsey fu poi premiata dal Presidente J.F. Kennedy per tale suo comportamento con un’onorificenza al valor civile e morì nel 2015 a 101 anni47. Ci furono parecchi casi di focomelia da talidomide anche negli Usa perché la ditta aveva comunque distribuito parecchie confezioni del farmaco “a scopo di ricerca”.
j. John P. A. Ioannidis, l’autore del lavoro citato in bibliografia al numero 52 (dal titolo certamente scioccante: “Why most published reseach findings are false”) è un medico ed epidemiologo greco- statunitense, professore presso la Stanford University, che si è occupato di numerosi campi, quali l'evidence based medicine, l'epidemiologia, la ricerca clinica, la statistica e la genomica. Risulta uno degli scienziati più citati ed influenti, con oltre 400.000 citazioni e un indice H (“High cited researchers”) pari a 224. Dieci anni dopo il titolo di Ioannidis, Richard Horton, Editor del Lancet, così si espresse (Lancet 11 aprile 2015): “A lot of what is published is incorrect… something has gone fundamentally wrong with one of our greatest human creations…. much of the scientific literature, perhaps half, may simply be untrue..
k. EMA= European Medicine Agency
l. Per ciò che si intende come “dati disponibili” bisogna riferirsi all’immagine dell’iceberg cui si è fatto prima riferimento.
m. ClinicalTrials.gov viene fondato nel 1999 con lo scopo di fornire al pubblico tutte le informazioni aggiornate sui clinical trials”, “espandendo” l’accesso dei pazienti, o di loro rappresentanti, agli studi su terapie promettenti.
n. “Né la paroxetina né alte dosi di imipramina sono apparse efficaci nella depressione maggiore degli adolescenti.  Si evidenza un aumento degli accidenti pericoloso con tutti e due i farmaci. La possibilità di disporre di tutti i dati connessi al trial ha implicazioni importanti sia dal punto di vista della pratica clinica sia da quello della ricerca pura, compreso il fatto che le conclusioni cui si arriva nelle pubblicazioni non dovrebbero essere lette come affidabili. La ri-valutazione dello studio 329 mostra la necessità di avere a disposizione i dati primari e i protocolli dei trials per aumentare l’esattezza delle prove disponibili”.
o. Ovviamente andrebbe precisato cosa si intende per “ricercatore indipendente”.
p. Tony Weidberg, professore di fisica delle particelle a Oxford, in un incontro del 2015 (Lancet, 11 aprile) fece presente che l’assicella del p < 0.05 posta in medicina è veramente molto bassa, e fece notare che nel suo campo di ricerca la barra è posta a un valore di “p” pari a 3 × 10–7, cioè 1 su 3·5 milioni (se il risultato non è “vero” questa è la probabilità che il dato sia così estremo come quello osservato).
q. Sulla distinzione, certo non banale, tra “cliente”, “malato”, “paziente” e “persona assistita” si veda: U. Curi: “Le parole della cura, Medicina e filosofia”. Raffaello Cortina ed., 2017, specie alle pagine 70-73. Anche: Ceccarelli G.:” Paziente, malato, cliente, assistito.. “, Decidere in Medicina, 2023, XXIII (6), 3-5.
r. W. Shakespeare: Sogno di una notte di mezza estate (1596), atto V, scena I: “Lovers and mad people have such lively and rich minds that they perceive more than cold intellect could understand
s. Luigi Pintor: “La signora Kirchgessner”, Bollati Boringhieri, 1998.

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