Prof.ssa Anna Dalle Ore

Ph.D. Bioetica, Servizio di Etica Clinica “G. Rastelli”, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS, Roma

Articolo pubblicato in:

Anno Accademico 2023-2024

Vol. 68, n° 2, Aprile - Giugno 2024

Simposio: Metodologia di studio e trattamento dei pazienti pediatrici con disordini della differenziazione sessuale (DSD): l'esperienza OPBG

13 febbraio 2024

Copertina Atti Secondo Trimestre 2024 per sito.jpg

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L’Ambulatorio Coordinato sui disordini della differenziazione sessuale (DSD) ed il contributo dell’Etica

C. Bizzarri, A. Dalle Ore


Il paziente con Disorders of Sex Development (DSD)1: le evidenze cliniche

Ciascun confusamente un bene apprende 
nel qual si queti l'animo, e disira; 
per che di giugner lui ciascun contende.

Dante


Una onesta preoccupazione circa il contributo dell’Antropologia in un contesto clinico parte dall’esigenza d’inserirsi in un’area dominata dalle evidenze scientifiche in modo significativamente ed autorevolmente rappresentato. Fugando il fraintendimento dell’Antropologia, come dell’Etica, nella quasi totalità dei casi reclusa all’angolo del sentimento soggettivo come se fosse a noi precluso l’olimpo della Logica e del rigore scientifico: la scienza fa progressi e …vediamo se c’è spazio per l’umana compassione!

No: se non c’è umana compassione non c’è progresso e se non c’è progresso non c’è umana compassione!

È, a tal proposito, molto interessante un richiamo al passato, non troppo passato, per affrontare onorevolmente il futuro: nel 1962 la rivista Life riporta la notizia che in un Ospedale di Seattle (USA) era stata nominata una Commissione consultiva ospedaliera interdisciplinare (cfr. casalinga, banchiere, avvocato, ministro del culto, funzionario statale, sindacalista, chirurgo) per selezionare i pazienti da sottoporre alla dialisi renale. Tale commissione aveva esplicitamente dichiarato i criteri che utilizzava per decidere chi doveva essere trattato o no, criteri che non erano solo clinici, ma anche tecnici, sociali ed economici come, ad esempio, il numero di persone economicamente dipendenti da un paziente che aveva bisogno della dialisi1.

Per la prima volta, nella storia della Medicina, l’Ars Medica voca a sé altre competenze nella ricerca di chiarezza e determinatezza a beneficio di Cura, della Migliore Cura possibile! Da Seattle in poi non abbiamo mai terminato di interrogarci perché l’etica prima di essere una questione di ‘azioni da compiere’ è una capacità di guardare alla realtà, una realtà sempre più complessa ed in dinamico divenire in cui si rende sempre più urgente una chiarificazione sui diversi aspetti sottesi alle scelte che appartengono al mondo della salute; e l’Antropologia, in tal senso, è lo strumento adeguato perché riesce ad abbracciare i diversi protagonisti umani che insieme operano in vista del ‘bene cura’.

Quando una Persona si rivolge ad un clinico perché affetta da una ‘qualsiasi’ condizione ‘anomala’ rispetto alla umana natura fisiologica il suo desiderio è quello di essere curato e, quando è possibile, guarito; il Clinico, dal canto suo, offre diverse possibilità che nascono dalla Ricerca e dall’esperienza personale proprio in ordine alle esigenze del proprio assistito, insieme decidono ed insieme intraprendono la strada della Cura. Ciò detto, che pare molto romantico ma è al contrario frutto di attenta osservazione, si fonda, non per la totalità ma certo per buona parte sul dato statistico. È di fondamentale importanza che l’espressione numerica di un successo clinico sia il più possibile rispondente all’esigenza reale; di ciò quotidianamente ne facciamo esperienza: “io sono affetto da…che con l’intervento su…che con la somministrazione di…ha una percentuale di successo del…viceversa con l’intervento di…può andare incontro ad un errore del…” e questo esempio di conversazione può valere nella quasi totalità del variegato mondo delle più diverse specialità cliniche per la maggior parte delle persone che necessitano di un intervento medico. Capite bene quanto sia di fondante importanza l’espressione numerica che ci dà la Statistica. A ciò una doverosa precisazione: quando il paziente si rivolge al medico ciò che vuole sapere è una verità su di sé e questo non può essere dato dalla Statistica.

Questi dati, sempre spiegati con un linguaggio consono alla comprensione di un non-clinico sono sempre ‘accompagnati’ da un’espressione numerica, la percentuale di successo, che, in un ‘qualche modo’, sono l’elemento oggettivo che ci farà propendere per una o l’altra decisione.

L’Etica, nell’area della salute, richiama preliminarmente alla mia-nostra onestà intellettuale, condizione primaria per costruire una relazione autentica tra le diverse professionalità coinvolte nello studio di un caso.


Chi è DSD?


La centralità del Paziente

Who is that can tell me who I am?
Shakespeare

 

La delicatezza del tema, dubbio sulla identità di genere maschile o femminile, ed i soggetti coinvolti, neonati o bambini piccoli-piccolissimi, domandano, alla nostra attenzione un atteggiamento di pudico rispetto.

Il Clinico, in questi ultimi anni, grazie alla ricerca sempre presente nella storia della cura, ma oggi proprio grazie alle potenzialità della tecnica, grande protagonista, dispone di diversi strumenti per poter decidere quale possa essere la ‘cura migliore’.

Nella ricerca e nel perseguimento del Bene non esiste il giusto o lo sbagliato, il lecito o l’illecito; abbiamo a disposizione solo un ‘certo’ numero di strumenti tra cui scegliere quello più ‘corretto’: meno rischi, maggiore probabilità di successo, minori costi; quello più ‘idoneo’ per perseguire il bene che vogliamo con tutte le nostre forze affermare.

La tecnica, da sempre, ha rappresentato, segnato i piccoli passi ed i grandi progressi dell’Ars Medica ma la tecnica altro non è che un particolare strumento nelle mani ed al servizio di uno scienziato.

La scelta di perseguire un bene attraverso uno o più strumenti attiene sempre alla coscienza ed alla scienza del Clinico che è chiamato a farsi carico, a rispondere, circa una opportunità che può, a suo avviso, risultare la ‘migliore scelta possibile’ per perseguire il bene della persona a lui affidata.

Fino a circa trent’anni fa, il modello relazionale che caratterizzava il rapporto medico-paziente era il Modello Paternalistico dove il Medico, detentore del sapere, prendeva una decisione ed operava delle scelte senza alcuna preoccupazione di coinvolgimento da parte del Paziente, totalmente e assolutamente oggetto di cura. Nel tempo, rapidissimamente negli ultimi trent’anni, il Paziente è diventato interprete, ora protagonista, del suo processo di Cura; insieme medico e paziente compiono il viaggio della cura. Nella nostra particolare esperienza il medico insieme alla famiglia. La decisione volge alla ricerca del beneficio di un piccolo non ancora in grado di ‘verbalizzare’ la propria condizione; sì: è improprio affermare che il piccolo non esprime la propria volontà, autodeterminazione, libertà o inclinazioni perché questi sono tutti elementi oggetto di attenta osservazione psicologica o familiare educata alla comprensione di una comunicazione non verbale che manifesta, attraverso segni, il rapporto del piccolo con la realtà e con sé stesso.

Solo, faticosamente, imparare a stare davanti all’altro, medico o paziente o mamma, fa emergere prepotentemente una rinnovata passione per l’istante che ci sia dato; qualsiasi sia il compito che siamo chiamati a svolgere, più le circostanze sono stringenti più noi ci ‘industriamo’ per trovare una risposta che non ci faccia ‘perdere’ tempo: perché il nostro obiettivo è vivere il tempo!

Il sentimento e l’emozione, peculiari capacità proprie solo dell’uomo, aiutano nell’introdurci alla profonda esperienza della sofferenza in cui vivono le famiglie con un figlio DSD, ma l’urgenza a cui siamo chiamati a rispondere necessita di un giudizio che può solo appellarsi alla ragione aperta a tutte le circostanze, piacevoli o meno, in cui impattiamo.

Cosa significa ‘centralità del paziente’? Le aree della ricerca e dell’assistenza che hanno come specifica la cura per il bambino, tendenzialmente, enfatizzano il proprio operato ponendo, anteponendo, la centralità del bambino o, meglio, della famiglia come origine del proprio operato. Un’attenta osservazione, però, fa emergere che esiste un pensiero, un’intenzione che originano l’operato ed è proprio lì che nasce la reale centralità del paziente: non strutturo un operato o propongo una ricerca che assuma in dato, ormai evidente, bambino/famiglia ma, contrariamente, è il dato bambino/famiglia che originano un ben codificato operato o l’intuizione per una ricerca. Questa è la centralità.

Questa è l’esperienza che abbiamo incontrato nell’ambulatorio Coordinato DSD del Bambino Gesù e del Gruppo Italiano DSD: non un progetto nato da ‘alleanze strategiche’ ma la curiosità, la passione e l’esperienza dell’impotenza che ha fatto incontrare dei professionisti che insieme hanno iniziato a condividere proprio il dato-Famiglia intercettato nella propria realtà assistenziale, generando la condivisione e la ricerca di un metodo condiviso finalisticamente orientato ad una risposta ragionevole al quesito che i genitori e la natura pongono nell’incontro con un bambino DSD.

L’interrogativo morale da cosa debbo fare? a quale persona devo essere? da un’etica centrata sulla norma e sul dovere ad un’etica delle Virtù basata sul soggetto e sul suo progetto esistenziale.

Il quesito su cui preme riflettere non è l’affermazione o la negazione di un sistema binario, maschio/femmina, in cui siamo stati educati ma, dentro il sistema binario, riconoscere ed affermare l’unicità e la particolarità di una espressione biologica che ci spinge alla ricerca del proprio svelamento. Sì: se noi partissimo dalla persuasione che la natura umana è biologicamente ed ontologicamente ‘slegata’ dal vincolo della propria espressione-manifestazione come maschio o femmina; non avrebbe significato alcuno l’affannosa ricerca nel bilanciamento degli indicatori proprio di ogni specialistica che compone la peculiarità di questo ambulatorio coordinato.


Fondamento Antropologico sull’Identità di Genere

“… non pensare, ma osserva!”
Ludwing Wittgenstein

 

Perché partire dal dato culturale? Semplicemente perché siamo persone, professionisti nell’area della cura o genitori che si trovano ad accogliere un bambino DSD; leggiamo gli stessi libri, guardiamo le stesse trasmissioni televisive e abitiamo lo stesso quartiere! Ciò che ci contraddistingue è la differente formazione-informazione professionale unitamente al valore esperienziale che connota ogni scelta, anche quelle nell’ambito assistenziale-relazionale. Il termine cultura indica l’elaborazione di un giudizio rispetto ad un reale che è rappresentato dalle circostanze che determinano, scandiscono, il nostro quotidiano; non tutto ciò che ci accade è determinato dalla nostra volontà; ma i nostri atti finalisticamente orientati ad un fine per il quale adoperiamo determinati mezzi mossi da uno scopo dipendono dal libero esercizio della volontà, a differenza di ciò che accade indipendentemente dall’impiego della volontà. Se nasce un bambino affetto da una condizione di indeterminatezza nella certa attribuzione di genere, non dipende dalla volontà dei genitori: è accaduto, ciò ha origini diverse e molteplici ma certamente non determinate dalla deliberata volontà genitoriale; il clinico, le diverse competenze mediche che si interrogano sulla manifestazione del bambino DSD, hanno, dal canto loro, l’oggettivo contributo della scienza di appartenenza e la certezza che non è arbitrariamente o convenzionalmente fattibile attribuire un genere in forza di una più semplice funzionalità-fattibilità che vocherebbe, appunto, la personale volontà ma è necessario uno studio che contempli la ricerca di un ‘bene’ che possa permettere una crescita-sviluppo armonico del bambino anche in una circostanza complessa quale può essere quella che manifestano i piccoli DSD. 

È evidente, ce lo documenta amplia e consolidata letteratura scientifica, che esiste la realtà di una natura umana che, dipendendo da diversi fattori, non manifesta alla nascita una identità di natura maschile o femminile; non possiamo negare o categorizzare la nascita di questi bambini a prescindere da un contesto culturale e sociale che viviamo, abitato da movimenti sociali che ‘premono’ proprio sul dato naturale che vede la natura umana appartenere a due distinti generi quello maschile e quello femminile.

Potremmo, sinteticamente, affermare che vi sono sostanzialmente due approcci culturali: il primo è legato alla ‘dicotomia’ maschio/femmina come espressione naturale della natura umana che fa convergere i ‘segni’ che possono non essere pienamente manifesti verso l’una o verso l’altra, potremmo definire questa posizione come ontologica cioè che verte principalmente sulla ricerca dell’espressione dell’essere umano che si manifesta attraverso caratteri ed attitudini che saranno differenti a seconda della identità che lo contraddistingue non come essere umano ma come manifestazione maschile o femminile; il secondo ricerca una ‘emancipazione’ dalla dicotomia maschio/femmina a partire da una osservazione sulla cultura, sui valori e sul contesto sociale/relazionale che tende a mitigare la distinzione di genere abbracciando l’area legata all’esercizio delle funzioni/pulsioni sessuali, potremmo nominarla come posizione funzionalista.

Esistono due piani che, auspichiamo, unire: il piano concettuale e quello fattuale; quante volte ci siamo trovati dinnanzi alla domanda: “…ma tu sei convinta dell’esistenza di una natura maschile/femminile o auspichi il superamento di questo binomio?” Certo: la domanda è lecita e la risposta doverosa; anche se, in realtà, ci ri-getta nuovamente nella posizione concettuale in virtù della quale farò propendere analisi e considerazioni in virtù di un pre-giudizio che afferma il mio atteggiamento facendomi propendere per una soluzione a vantaggio del pensiero ontologico o a vantaggio della concezione funzionalista.

Partire dal dato antropologico significa: osservare il reale in cui emerge l’esigenza di identificare il neo-nato come un maschio o come una femmina; è vero che posso, personalmente, optare per le più diverse varianti che il contesto culturale odierno ci offre nella codifica della identità di genere ma debbo, onestamente, riconoscere che il genitore a cui nasce un piccolo DSD la prima cosa che domanda è: “è un bambino o una bambina?” Il clinico, percependo lo strutturale limite insito nella specialistica di appartenenza, voca a sé la competenza di altri clinici che lo aiutino ad armonizzare il neonato seguendo il criterio, ove non ci sia chiara evidenza, almeno la ‘prevalenza dei segni’ che mi indichino se la natura della creatura è maschile o femminile. Il genitore non si domanda se vuole permanere nella dicotomia maschio/femmina o superare il binomio; analogamente non se lo domanda il clinico ma, insieme, iniziano ad indagare gli elementi che faranno emergere l’identità del bambino.

È di fondamentale importanza partire dal dato biologico, non diciamo naturale perché potrebbe ingenerare pregiudizio, domando: “se fosse un bambino DSD una naturale variante biologica della Specie Umana come si giustifica un intenso piano di ricerca volta alla ricerca di un equilibrio in senso maschile o femminile?” Sì, indubbiamente, possiamo permanere concettualmente nella posizione che più ci persuade rispetto ai modelli culturali e relazionale che ci appagano ma, comunque, sentiamo l’urgenza di rispondere alla domanda del genitore: “…mio figlio è un maschio o una femmina?” o ancora “…poi da grande sceglierà quel che vorrà fare (inteso come esercizio della sessualità) ma ora come lo chiamo, come lo vesto, come lo iscrivo all’anagrafe e come lo porto in piscina…”.

Una osservazione antropologica parte proprio dalla registrazione del dato così come accade, e in questo caso, come nella realtà assistenziale sanitaria si presenta: da un lato i genitori, dall’altro i clinici e, centrale per entrambi, il piccolo.


Il Principio di Responsabilità

Sono forse io il custode di mio fratello?
Caino

 

Viviamo ed operiamo in un mondo in cui l’uomo fa molta fatica a riconoscere il Principio di Realtà come principio primo, siamo ‘soffocati’ da una spasmodica ricerca sulla Qualità di Vita che in ‘qualche modo’ ci distrae dalla Vita accentrando in nostro interesse sulla Qualità. Anche nella Clinica facciamo esperienza di questa tendenza culturale e sociale: la frammentazione nella ricerca dell’alta specializzazione, la centralità focalizzata sulla complessa tecnologia, il conflittuale rapporto con l’economia ed uno spazio residuale destinato ad un umano considerato secondo le categorie di sentimento ed empatia.

L’uomo, quell’ineludibile unità corporeo spirituale colta in un unico atto esistenziale, l’uomo malato e l’uomo vocato alla cura della salute, l’uno dinnanzi all’altro, questa è la nostra quotidianità, questo è il nostro vissuto, questo è ciò che testimoniamo davanti ai nostri pazienti: “nella pratica quotidiana in una relazione interpersonale, contraddistinta dalla fiducia di una persona segnata dalla sofferenza e dalla malattia, la quale ricorre alla scienza e alla coscienza di un operatore sanitario che va incontro per assisterla e curarla, adottando in tal modo un sincero atteggiamento di com-passione, nel senso etimologico del termine”3.

Nell’atto medico, in un mondo in cui si cerca la risposta alla cagionevolezza della Natura Umana nella scienza e nella tecnica, c’è spazio solo per la deontologia senza l’ulteriore esigenza di altri riferimenti, ed i procedimenti terapeutici vengono scelti secondo un criterio di efficacia il cui limite è dato dalla legge; il malato diviene un oggetto della Medicina e, nella maggioranza dei casi, la cura risponde a leggi dettate dal mercato economico (il protagonista, oggi, più forte nell’area della cura).

Ciò che si ravvisa come emergenza è il fattore educativo che può generare una nuova modalità di rapporto medico-paziente che in qualche modo ‘tenga insieme’ tutti i fattori che si co-implicano dinnanzi alla richiesta di salute. Noi siamo stati educati alle evidenze; in questi ultimi anni il grande protagonista è stata la Medicina dell’Evidenza che ci pone la necessità, l’urgenza, di rispondere ad un umano sempre più fragile e sempre più “ignorante”.

Lo stra-potere della comunicazione svincolato da una lettura integrale del dato, non arricchisce, ma al contrario confonde e impoverisce. Accogliere una famiglia che vive l’esperienza di un figlio DSD ci impone, metodologicamente, una lettura del ‘dato clinico’ che, nella parcellizzazione delle diverse specialistiche, sia unificato; non statisticamente significato ma analiticamente giustificato. La domanda che pone il genitore è in relazione ad una conferma-attribuzione di identità al proprio generato: mio foglio è maschio o femmina? L’equipe è tutta protesa alla ricerca di una risposta; possiamo domandarci se sia o non sia una domanda adeguata, possiamo persuadere la famiglia alla ricerca di una ‘terza via’, possiamo ricercare un accordo ‘sociale’ che accondiscenda all’habitus sociale di provenienza, possiamo teorizzare o astrarre rispetto al contesto reale in cui operiamo, possiamo tanto, possiamo tutto ma la domanda del genitore è: mio figlio è maschio o femmina? Intanto partiamo dall’evidenza che non possiamo sottrarci a questa domanda, analogamente a come non possiamo negare l’esistenza personale di questo bambino così unico. È proprio dal riconoscimento di questo complesso bambino reale che inizia in nostro percorso di conoscenza e di relazione.                    

Diviene urgente in questo contesto una educazione all’umano che, attraverso le proprie convinzioni personali, fornisca un metodo, degli argomenti ed un costrutto con cui il Clinico possa ‘costruire dei percorsi’ che verificherà nell’impatto con il piccolo DSD.

La Bioetica proprio nel suo statuto epidemiologico altro non fa che partire dalla denuncia aperta della sua ‘mancanza’ (io non sono un dottore in Medicina, non sono un dottore in Psicologia e non sono un legale) e dal suo desiderio di rapportarsi a ‘saperi’ di altra natura (clinico, giurista, statistico, psicologo ed economista) per ricercare un ‘modo’ condiviso per istradarsi al Bonum faciendum, male vitandum. Il riconoscimento della ‘dipendenza’ da un altro porta, inevitabilmente, ad una osservazione attenta del reale perché: “io so di non avere la risposta al tuo desiderio di ‘guarigione’ ma insieme ad altre competenze lo possiamo cercare”.

La fragilità è il ‘punto di partenza’ è la sfida da cui poter ricostruire una cultura nuova, un giudizio nuovo; la passione per l’umano genera un moto mai pago di sé stesso. Spesso, ed a sproposito, sentiamo citare il paradosso socratico “so di non sapere”; quanta verità manifesta questo pensiero: io vivo la consapevolezza di non avere la risposta al desiderio di ‘guarigione’ per il tuo bambino; ma vivo la certezza che se c’è questo desiderio, ‘da qualche parte’, esiste una risposta adeguata: noi la cerchiamo insieme. Questo atteggiamento, dello spirito e dell’intelletto, pone il Ricercatore in una corretta via di ricerca ‘libero’ da una esclusiva affermazione della sua ‘porzione’ di conoscenza; questa ricerca non risponde a Principi ma spinge a relazioni, perché è solo in una relazione che si può ‘donare’ ed ‘avere’.


La Relazione

L’esperienza maturata nell’operato che caratterizza un ambulatorio coordinato per piccoli DSD ha permesso di verificare: la relazione tra le diverse professionalità che concorrono allo studio di un piccolo, la relazione fiduciaria che contraddistingue il rapporto tra il clinico ed il genitore e la relazione tra il genitore ed il piccolo nato DSD.

Diverse professionalità si incontrano per capire, individuare i segni che possano indicare l’identità di una persona: endocrinologo, genetista, chirurgo, radiologo, psicologo e bioeticista; discipline che hanno ambiti e strumenti differenti debbono imparare una reciprocità l’uno dall’altro, non è solo la ricerca di una metodologia condivisa ma realmente della condivisione di un fine. La virtù che andrò a ricercare è l’Autorevolezza: come unità tra la competenza clinica nella propria area di appartenenza, la chiarezza nel fine da perseguire e nell’utilizzo di mezzi conformi al fine.

La relazione medico/paziente è mediata dal genitore ed accade in un processo di comunicazione: la finalità etica e morale di avere certezza che la Persona è consapevole della sua assunzione di responsabilità in questo grande gesto di libertà; analogamente il Clinico proponente che eticamente si rende garante, non solo della correttezza formale della proposta di cura, ma anche della continuità nel rapporto medico-paziente che esprime una profondità ed unicità che ben possiamo sintetizzare come Rapporto di Fiducia.

Ciò che desta particolare attenzione, specie sotto il profilo antropologico, è la relazione familiare alla nascita di un bambino DSD; quest’area afferisce principalmente alla psicologia clinica non solo come studio del nucleo familiare ma anche nella mediazione tra la famiglia e l’equipe di specialisti coinvolti nello studio del dato clinico.

La Psicologia non è una scienza ‘neutra’; al contrario possiede la tecnica e la familiarità per la gestione di un ‘dato psicologico’ sempre in rapporto ad una personale convinzione circa la porzione di realtà da indagare. Nell’esercizio del proprio operato non è indifferente la posizione che si assume circa la chiarezza dello statuto ontologico del proprio oggetto di indagine; l’atteggiamento dello psicologo si può distinguere in: il vizio di circostanza o l’educazione alla libertà.

Il vizio di circostanza nasce dalla persuasione che dipendiamo da accadimenti che non sempre determiniamo ma possiamo, in qualche modo, ‘manovrare’ per il raggiungimento di un appagamento sociale e relazionale che assumiamo come paradigma esistenziale persuasi da una condivisione sociale sempre in ‘cambiamento’. Un esempio può essere rappresentato dall’adesione ad un movimento legato al libero esercizio della sessualità, slegato dall’affermazione di una identità ma intimamente giustificato da un ‘presunto’ mutamento del costume sociale; è molto curioso notare come anche in Paesi che prevedono la registrazione anagrafica di un terzo genere, i genitori perseguono la ricerca del genere di appartenenza del proprio piccolo: la registrazione anagrafica è un Diritto; riconoscere l’identità di genere del proprio generato è l’inizio di una relazione.

Il secondo atteggiamento è caratterizzato dall’educazione alla libertà come possibilità che, attraverso circostanze indipendenti dalla nostra volontà e decisamente avverse, possiamo riconoscere il generato come unica ed irripetibile manifestazione della sua persona. Non esiste la neutralità nella relazione genitoriale; il figlio domanda un riconoscimento, e di conseguenza un allevamento, maschile o femminile. La famiglia deve vigilare, insieme al clinico-psicologo, affinché si possa intervenire efficacemente nella misura in cui si possano manifestare evidentemente segni che indichino che c’è stato un errore nel riconoscimento del genere manifestato alla nascita.

Noi non possiamo attribuire un genere; possiamo solo cercare i ‘segni’ che ci indichino una maggiore chiarezza nel genere di appartenenza: se la soluzione si riducesse all’attribuzione di un genere potremmo sinteticamente ed efficacemente fondarci sul dato farmacologico-chirurgico che ci possa garantire il maggiore successo in relazione alle preferenze genitoriali; ma così non è né nella prassi né nella teoria.

La mamma osserva il suo generato, inizia a costruire una relazione con il suo generato, presenta al contesto sociale il suo generato riconoscendo che è ‘altro da sé’, inizia un percorso di accudimento ed accompagnamento e, pur in tutte le sue incertezze, si manifesta nella sua esistenza richiamandoci costantemente non ad un figlio ‘immaginato’ ma ad un figlio ‘reale’.

La libertà è ciò che maggiormente ci lega al principio di realtà: io sono libero nella misura in cui prendo consapevolezza della mia dipendenza da un ‘altro’ e nella relazione con l’’altro’ entro in rapporto con la realtà; per colui che opera nell’area della Pediatria ciò è palesemente evidente.


Criteri Etici

Si ‘stressa’ molto, ed il più delle volte impropriamente, l’impossibilità di operare del campo della Bioetica senza un accordo sul valore a cui ci riferiamo; se questa tesi può essere vera in ambito ‘accademico’ perde completamente la sua fondatezza davanti alla particolarità rappresentata dall’Etica Clinica perché la discussione deve confluire su una decisione, o più correttamente: debbo fornire gli strumenti, suscitare le domande e dirimere le intenzioni confluendo su una decisione che è, e sarà, del clinico ma con l’apporto disciplinare dell’Etica.

La Nostra preoccupazione è puntualizzare gli elementi che possano sostenere il Medico decisore nella ‘costruzione’ di una Alleanza Terapeutica con il proprio Assistito alla luce di considerazioni di natura Etica che possiamo sinteticamente puntualizzare:

  • operiamo in una realtà sanitaria pediatrica ciò implica una relazione medico/paziente ‘allargata’ al genitore/tutore;
  • il Principio di Autonomia nella considerazione della sua fondante validità pone, al suo esercizio, due limiti ‘strutturali’ oggettivi: il nostro paziente è un Minore e la sua Autonomia è, come per altre funzioni/capacità, ancora ‘in formazione’;
  • diviene, per il nostro Paziente, centrale la valutazione sulla Beneficialità che attiene, per competenza, al Clinico (Endocrinologo, Chirurgo, Psicologo…) sempre responsabile del ‘bene medico’ e nella condivisione dello stesso con i diversi specialisti coinvolti nel percorso di cura;
  • oggi siamo nell’era della Medicina Personalizzata, o Medicina di Precisione, l’efficacia di un percorso è dettato dal metodo rigoroso nella raccolta dei ‘dati’ e, di riflesso, nella condivisione che, data la rarità della condizione, deve prevedere l’inclusione di diversi Centri.

Identità, Verità e Metodologia i tre cardini attorno a cui possiamo raccontare l’esperienza Clinica nell’ambito dell’Ambulatorio Coordinato dei DSD, non come approccio ideologico ma proprio reale dato in rapporto con i genitori-contesto relazionale, che costituisce, nell’ambito dell’assistenza sanitaria, un ‘quasi’ unicum nel suo genere.

La volontà del genitore è prepotentemente influenzata dal contesto socio-culturale di provenienza: tanto è l’accudimento e il sostegno relazionale quando accade un evento avverso legato ad una condizione patologica, quanto è l’isolamento e la preclusione di relazione quando si vive l’esperienza della nascita di un piccolo DSD.

La tentazione è al nascondimento nella ricerca di una parvenza di normalità, la nascita di un piccolo è un evento pubblico e comunitario: si espone un fiocco di nascita nella propria dimora, si adempie all’iscrizione all’anagrafe e si espone il neonato alla conoscenza familiare ed amicale; il dramma di non poter compiere questi gesti abituali della nostra tradizione detta le ‘basi’ di una relazione che già dal suo incominciamento è problematica: il fiocco è rosa o azzurro? Che nome dare al nostro bambino? Come può essere gestito il ‘cambio del pannolino’ senza destare morbosa curiosità verso i suoi genitali ambigui? Come partecipare alle attività di un Asilo Nido senza denunciare il suo dato clinico? …e la registrazione anagrafica alla nascita?

La soluzione circoscritta all’indicazione di attribuire un nome neutro, Andrea, e di raccomandare un coinvolgimento relazionale volto alla lettura dei ‘segni’ che manifestino con evidenza l’identità di genere è efficace quanto, antropologicamente, in-incidente perché volta ad indicazioni di ordine ‘fattuale’ non sostanziale. Il bambino sarà libero di esprimersi e crescere solo in un contesto sociale in relazione e la relazione può solo partire dal riconoscimento della sua identità, sì come ricerca, ma proprio a partire dalla sua particolare manifestazione di identità che è già presente alla nascita.

Attraverso il rapporto con il Gruppo DSD ho imparato un approccio alla Identità di Genere assolutamente libera da ideologica precomprensione mossi dalla curiosità d’indagare la Natura Umana:

  • equipe multidisciplinare tutti di area pediatrica: Medico Endocrinologo, Chirurgo, Psicologo, Medico Legale, Eticista e un rappresentante di Associazione (con molta attenzione andrà selezionato al fine di fornire un reale supporto nel declinare aspetti sociali e relazionali che inevitabilmente hanno un ‘grosso peso’ nella globale valutazione circa la QdV);
  • incontro periodico (1 volta al mese ma questo incontro varia a seconda del numero dei Pazienti) che contestualmente condivide con i colleghi la strategia di indagine e terapeutica;
  • incontri-contatti-appuntamenti (almeno 1 volta all’anno) per la condivisione dell’esperienza tra singoli Centri.

Partiamo dal Dato Clinico e da questo ordiniamo un agito che abbracci la totalità del nostro bambino.

L’Ambulatorio Coordinato per la presa in carico del paziente DSD eccelle nella valorizzazione di un ‘percorso di cura condiviso’ che include l’apporto della Bioetica come occasione di riflessione su ciò che caratterizza le scelte volte a:

  • perseguire la Beneficialità per il paziente
  • evitate/contenere la futilità degli interventi
  • promuovere la Gradualità (diagnostica e) terapeutica

Noi non attribuiamo un genere, possiamo solo cercare i ‘segni’ che ci indichino una maggiore chiarezza nel genere di appartenenza: se la soluzione si riducesse all’attribuzione di un genere potremmo sinteticamente ed efficacemente fondarci sul dato farmacologico-chirurgico che ci possa garantire il maggiore successo in relazione alle preferenze genitoriali; ma così non è né nella prassi né nella teoria.

“…mio figlio è un maschio o una femmina?” o ancora “…poi da grande sceglierà quel che vorrà fare (inteso come esercizio della sessualità) ma ora come lo chiamo, come lo vesto, come lo iscrivo all’anagrafe e come lo porto in piscina…”.

Il quesito su cui ci preme riflettere non è l’affermazione, o la negazione, di un sistema binario, maschio/femmina, ma, dentro il sistema binario, riconoscere ed affermare l’unicità e la particolarità di una espressione biologica che ci spinge alla ricerca del proprio svelamento.


Prof.ssa Carla Bizzarri, Responsabile UOS Endocrinologia Pediatrica, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS - Roma

Per la corrispondenza: carla.bizzarri@opbg.net

 

Prof.ssa Anna Dalle Ore, Funzione Bioetica, Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, IRCCS - Roma

Per la corrispondenza: anna.dalleore@opbg.net

BIBLIOGRAFIA

  1. Pegoraro R, Picozzi M, Spagnolo AG. La consulenza di etica clinica in Italia. Lineamenti e prospettive. Padova: Piccin-Nuova Libreria, 2016.
  2. Lee A, Houk C, Ahmed F, Hughes I. International Consensus Conference (Consensus Statement on Management of Intersex Disorders. Pediatrics 2006; 118; e488.
  3. Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari. Nuova carta degli Operatori Sanitari. Città del Vaticano: Libreria Editrice Vaticana, 2016.