Anno Accademico 2023-2024

Vol. 68, n° 2, Aprile - Giugno 2024

Conferenza: Tubercolosi 2024: patologia antica, criticità nuove

20 febbraio 2024

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Tubercolosi 2024: patologia antica, criticità nuove

F. Belli

A Franco Salvati
maestro, amico, consigliere:
ha incoraggiato e stimolato questa memoria,
con la passione e l’entusiasmo di sempre.
Grazie


Alla domanda, che è ad un tempo un dubbio e una riflessione, se sia anacronistico oggi parlare ancora di tubercolosi, possiamo rispondere citando l’affermazione congiunta, realistica e scoraggiante, di esperti dell’OMS e delle Nazioni Unite: “La tubercolosi continua a rappresentare un grave rischio per la salute pubblica in molti paesi; l’attuale incidenza della malattia supera quanto indicato nelle linee-guida proposte dalle stesse Organizzazioni Sanitarie Internazionali”1. Pertanto ci sembra non solo necessario, ma doveroso aggiornare una materia sociale e clinica, che rischia continuamente di passare in seconda linea, sorpassata da altre urgenze del momento, talora contingenti: doveroso è soprattutto comprendere perché i progetti globali di contenimento, se non di eradicazione completa dell’infezione tubercolare sono ben lontani dal centrare i targets prefissati, accumulando defaillance e ritardi.

Del resto i numeri, impietosi, parlano chiaro: 2 miliardi di persone, infettate da M.Tuberculosis (MT), sono portatrici della forma latente; il rapporto tra forma latente e attiva e contagiosa è 9:1; ogni anno muoiono per tubercolosi 1.4/1.6 milioni di persone, il 98% delle quali nel sud del mondo; ogni anno i nuovi casi sono 8/10 milioni, il 90% dei quali nel sud del mondo; l’incidenza totale varia da 3-5 casi/100.000 abitanti in Europa occidentale (Italia compresa) e nord-America, a 540-1100 nell’Africa sub-sahariana. L’associazione tubercolosi + HIV è attualmente l’8° causa di morte nel mondo2.

L’infezione tubercolare ancora oggi può interessare qualsiasi distretto dell’organismo; la forma preminente rimane quella polmonare, sia perché è di gran lunga la più frequente, sia perché è praticamente l’unica coinvolta nella diffusione del contagio. Il 5% dei soggetti infettati sviluppa la malattia entro un paio di anni, mentre il restante 95% comprende coloro che, in virtù di una risposta immunitaria valida, eliminano completamente il patogeno, o lo ospitano in vari stadi di replicazione ma quiescente e inoffensivo costruendo una barriera immunologicamente “armata” fra ospite e micobatterio: il granuloma specifico. Siamo nella situazione definita come tubercolosi latente, che può rimanere tale, con bacilli dormienti, per tutta la vita, oppure, in seguito alla rottura dell’equilibrio fra reattività immunologica dell’ospite e status infettante dei microrganismi, sfociare nella rivirulentazione e disseminazione di questi ultimi e comparsa di una nuova malattia attiva3.

Nel corso del ‘900, la malattia è andata incontro ad un progressivo, costante decremento, ad eccezione degli anni marcati dalle due guerre mondiali, tanto dell’incidenza che della mortalità: nei primi 4 decenni, grazie al miglioramento delle condizioni igieniche delle popolazioni, alla rete di prevenzione, assistenza e supporto assicurativo che fu organizzata e codificata da leggi in numerosi paesi, infine mediante ingegnose terapie quali il pneumotorace terapeutico, la collassoterapia (Forlanini, Morelli), da cui malati inguaribili traevano giovamento. La svolta epocale si è avuta dagli anni ’40 del secolo passato, con l’introduzione degli antibiotici specifici antitubercolari che hanno mutato radicalmente storia naturale della malattia, parametri epidemiologici, condizioni cliniche e prospettive di vita in corso di infezione e a patologia risolta4. Il trend in discesa dei dati epidemiologici si è accentuato fino agli anni ’70, tanto da far pensare a molti, anche tra coloro fino a quel momento prudenti, che l’eradicazione definitiva dell’infezione fosse vicina. Proprio in quel periodo, a cavallo fra gli anni ’70 e ’80 del secolo passato, si sono verificati due eventi, uno a livello nazionale, uno globale, che hanno modificato per sempre approccio, gestione e storia clinica della tubercolosi.

Con la legge 833/1978, istitutiva del S.S.N., in Italia5, veniva di fatto smantellato il sistema gestionale, preventivo, curativo e previdenziale, introdotto con le leggi 6276/1927 (CPA come enti giuridici, dispensari, preventori) e 2055/1927 (assicurazione obbligatoria e ruolo dell’INPS). Un sistema che aveva fatto scuola nel mondo passava le competenze alle nuove USL, cosa che avvenne in maniera discontinua e disomogenea, lasciando un vuoto, assai tardivamente colmato, specie nella raccolta dati, nell’epidemiologia e nella prevenzione. Non vogliamo tornare a commentare quelle decisioni e scelte di politica sanitaria, figlie sia di un prematuro ottimismo riguardante la lotta alla tubercolosi, che di mutati scenari sociali ed epidemiologici; tuttavia “nulla fu come prima”, il passaggio di consegne e competenze avvenne, come detto, in maniera diseguale, confuso e con gravi ritardi da regione a regione, soprattutto in quelle a statuto speciale; a titolo di esempio ricordiamo come in Sicilia nel 1985, dopo ben 7 anni dall’introduzione della L.833, i nuovi dispositivi erano ancora scarsamente operanti e la raccolta dei dati epidemiologici praticamente ferma; quando riprese, ci si accorse che la malattia aveva ripreso vigore, come nella provincia di Trapani6, anche a causa dell’incremento sanitariamente incontrollato dei flussi migratori dal nord Africa. Le USL e gli altri soggetti che avevano ereditato gran parte del personale, competenze e giurisdizione nella lotta alla tubercolosi cominciarono a funzionare (quasi) a pieno regime, in tutta Italia, solo a metà degli anni ’80, ma esperienze e pratica clinica andarono sostanzialmente perse.

Agli inizi degli anni ’80, globalmente, la curva in discesa della tubercolosi si arrestò: contribuirono al fenomeno diversi eventi, dal 1981 il diffondersi dell’epidemia HIV/AIDS, di cui la tubercolosi e le micobatteriosi furono dapprima complicanze primarie specie in nord-America, in seguito, col dilagare del virus in Africa, uno dei due poli dell’associazione morbosa HIV/tubercolosi che ancor oggi incide e uccide milioni di persone coinfettate. Anche in questo caso “nulla fu più come prima”: anche se la tubercolosi era sempre stata ritenuta una malattia e una piaga a forte connotazione sociale, questa situazione si accentuò e incise maggiormente nei paesi più poveri, non solo economicamente, ma con organizzazioni sanitarie fragili, configurandosi pertanto nel mondo diversi scenari epidemiologici, clinici, di accesso alle cure, approccio all’infezione e alle sue complicanze e ripercussioni; un quadro che negli ultimi 4 decenni si è accentuato, uno jato profondo fra nord e sud del mondo, tanto da parlare, forse con troppa enfasi, di una malattia dei paesi ricchi e di un’altra, ben più devastante, dei paesi poveri. Senza ombra di dubbio, è oggi la criticità maggiore nella gestione della tubercolosi7.

Da diverso tempo OMS e Nazioni Unite hanno lanciato programmi di limitazione, se non proprio eradicazione della malattia, tutti sostanzialmente falliti e lontani dagli obiettivi prefissati8. Gli ultimi sono stati organizzati dall’OMS nel 2015 e aggiornamenti successivi, dall’UNHLM nel 2014/89; entrambi prevedono obiettivi intermedi sottoposti a verifiche e un target finale per eradicare la malattia nel 2050. Già i controlli periodici hanno evidenziato una quasi completa defaillance nel raggiungimento dei punti intermedi; l’esame delle cause pone l’accento su 3 principali target biologico-clinici imprescindibili: la ricerca e l’impiego di nuovi antibiotici; la riduzione delle farmacoresistenze (R-I-M-XDR); la ricerca e l’impiego di nuovi vaccini. Sono altrettanti punti critici, ma, come vedremo, non i soli.

I report OMS dal 2021 in poi (post-COVID) presentano un quadro piuttosto fosco sull’andamento globale della tubercolosi, tra cui: stasi nel decremento annuale dell'incidenza della malattia; calo delle notifiche di tubercolosi; aumento dei decessi stimati a causa dell’infezione tubercolare10. Tutti gli obiettivi fissati nel plenum delle Nazioni Unite del 2018 sono fuori strada e lontani dall’essere raggiunti. La defaillance nel raggiungimento degli obiettivi di controllo della tubercolosi dal 2020/21 è attribuita anche alla pandemia di COVID-19, a causa delle risorse, delle energie, di tutto quanto è stato convogliato per arginare la nuova pandemia e sottratto ai progetti sanitari già in atto; tuttavia i programmi di eradicazione erano già fuori controllo ben prima dell'inizio della pandemia stessa, il che suggerisce che l’infezione da COVID-19 ha solo amplificato un quadro globale già fragile e deficitario. È prevedibile che il raggiungimento degli obiettivi di controllo globale della tubercolosi debba ancora essere rimandato, rimanendo utopistici i goal prefissati. Tuttavia, e questo va considerato positivamente, la pandemia di COVID-19 ha mostrato diverse potenziali innovazioni di accesso, diagnostica, prevenzione (vaccini!) e follow-up che possono essere sfruttate per migliorare l’erogazione di servizi per altre malattie infettive. È dunque inappropriato imputare (tutta?) la colpa alla pandemia di COVID-19 nel ritardo e nel mancato raggiungimento degli obiettivi fissati dall’OMS nel 2014 e dalle Nazioni Unite nel 2018 riguardo la lotta e l’eradicazione della tubercolosi. Dobbiamo riflettere su questi punti:
A. Obiettivi: sono pertinenti? Fattibili?
B. Interventi e strumenti indicati per la cura e la prevenzione della tubercolosi: sono applicati al giusto livello nei contesti in cui la malattia impone il suo tributo maggiore?
C. Misure per mitigare i determinanti e le concause sociali: sono adeguatamente considerati e messi in atto?
D. Panorama dei finanziamenti per la tubercolosi e gli approcci per colmarne le carenze: a che livello di congruità, tempestività e flessibilità vengono affrontati questi problemi cruciali e critici?

Nella Tab. 1 sono riportati in sintesi gli obiettivi e i mancati progressi dei programmi “End TB Strategy” OMS-2015 e UNHLM-202211.

 

 Tab. 1. Obiettivi e mancati progressi dei programmi “End TB Strategy” OMS-2015 e UNHLM-202211.


Dati statistici su cui riflettere

Degli innumerevoli dati statistici disponibili, alcuni meritano ulteriori riflessioni. Il declino dell’incidenza della malattia, con o senza HIV, si è arrestato già nel 2010, 10 anni prima del COVID: vi hanno contribuito la crisi economica iniziata nel 2008, con taglio dei fondi per programmi di eradicazione della tubercolosi, previsti ma non stanziati; la perdurante irrisolvibilità dei problemi legati alla “poverty” nel sud del mondo; l’accentuazione delle correnti migratorie e del numero di rifugiati in campi profughi ormai definitivi, ove imperversano le malattie infettive (poliomielite, morbillo, tubercolosi), conseguenze di un decennio di vecchie e nuove guerre, catastrofi naturali, crisi climatiche, idriche, alimentari12, 13.

Nel sud del mondo, specie nell’Africa sub-sahariana, la tubercolosi e le coinfezioni con HIV, malaria, parassitosi, incidono e falciano soggetti giovani, anche under 30: hanno questi un’aspettativa di vita tra le più basse al mondo, in paesi ove l’incidenza dell’infezione è >500 casi/100.000 abitanti.

Il 2020, primo anno di COVID, è stato drammatico anche riguardo le notifiche dei casi di tubercolosi in numerosi paesi del mondo: l’afflusso di dati all’OMS si è interrotto, ora in parte, ora completamente, in modo particolare dall’Africa e dal sud-est asiatico. La ripresa della raccolta e dell’invio di tutta l’informazione statistica riguardante la tubercolosi è poi avvenuta in maniera difforme nelle varie aree geografiche, con evidenti lacune che ancora si protraggono in Africa australe e medio-oriente, zone nelle quali si evince un quadro di perdurante, talora accresciuta gravità riguardo l’incidenza dell’infezione tubercolare; lo jato fra sud e nord del mondo sembra accentuarsi, nuovi focolai di guerra si accendono, milioni di migranti e profughi amplificano l’emergenza socio-demografica e sanitaria.

L’Italia è un paese a bassa endemia; da molti anni la prevalenza dei casi di tubercolosi è <10/100.000 abitanti, 4 o 5/100.000 abitanti, concentrati perlopiù nelle grandi aree urbane, valori in linea con i paesi dell’Europa centro-occidentale e del nord-America. Anche nel nostro paese le curve di decrescita di incidenza e mortalità si sono arrestate da un decennio; in netto calo sono le forme extrapolmonari, quelle dell’età infantile, l’associazione con l’infezione da HIV. Il rapporto fra malati autoctoni e nati all’estero è ogni anno intorno alla parità e nell’area padana si concentra la maggioranza di nuovi casi soprattutto fra gli italiani. In numeri assoluti e relativi l’infezione viene maggiormente diagnosticata, fra gli stranieri, tra coloro che provengono dall’est-Europa, dall’Africa occidentale, dall’area indo-pakistana, dal versante andino centro-occidentale.

Anche in Italia il fenomeno della farmaco-resistenza è di primaria importanza, soprattutto fra i non-nati nel nostro paese: la frequenza rispecchia la situazione internazionale, con percentuali di soggetti mono o poliresistenti fra il 25 e il 44% in coloro che provengono dall’est Europa e paesi asiatici ex-URSS, 10/15% dal sud-America, valori inferiori da altre zone del mondo14.

La ripartizione dei migranti, a qualunque titolo giungano in Europa, per paese d’origine si mantiene costante da circa 25 anni, con un incremento, com’è plausibile, di coloro che fuggono dalle zone ove si sono accesi recenti conflitti. Infine, la percentuale di casi dei nati all’estero, sul totale, nei diversi paesi europei è quanto mai diversificata: nel nord Europa, ove l’incidenza della tubercolosi fra gli autoctoni è fra le più basse al mondo, registriamo valori fra il 60 e l’80%; in Italia non ha mai superato il 55%, in linea con gli altri paesi mediterranei, a est l’infezione è ancora prevalente tra le genti del luogo15.


Problemi e criticità di ieri (anni 1970/80) e di oggi, a confronto

Dalle brevi note precedenti si comprende come la tubercolosi, oggi, rappresenti un evento patologico assai più diversificato rispetto al passato, interferendo col suo manifestarsi ed evolversi una serie di fattori non solo clinico-biologici, ma anche socio-economici, geografici, demografici, ambientali, nella realtà attuale persino mass-mediologi. Ognuno di questi determinanti può essere ritenuto una criticità, che incide con peso e ruoli differenti, ma tale da configurare, nell’insieme, un quadro complesso e dinamicamente mutevole. I prossimi paragrafi di questa memoria saranno pertanto dedicati all’esame di questi fattori critici, sottolineando come rispetto a 40/50 anni fa, periodo cui si faceva riferimento prima e in cui si raggiunse il massimo trend di decremento della malattia, la situazione globale sia radicalmente mutata, nuovi fattori interferenti sono comparsi, altri già noti hanno assunto impatti differenti. Nella Tab. 2 abbiamo elencato queste criticità, evidenziando quanto incidono e abbiano inciso, sull’evento tubercolare, oggi e negli anni conclusivi del secolo scorso, a confronto.

 

 Tab. 2. Tubercolosi: problemi e criticità di ieri (anni 1970/80) e di oggi, a confronto.


Ricerca. I batteri entrano nell’apparato respiratorio dell’ospite mediante goccioline inalate e sono fagocitati da macrofagi e cellule dendritiche. Quattro i possibili scenari:

  1. MT è immediatamente eliminato dal sistema immune polmonare;
  2. i batteri sono confinati in un granuloma formato da cellule dell’immunità adattiva (compresi i linfociti B e T) e l’infezione non progredisce verso una forma attiva. Segno distintivo del granuloma tubercolare è la concentrazione altamente organizzata di cellule immuni che si aggregano attorno ad un nucleo centrale necrotico; l’evoluzione fibrotica contribuisce a delimitare la zona lesionata in cui vengono confinati i batteri dai tessuti sani. Sebbene questa “diga” sia in grado di durare a lungo, in seguito MT possono uscire dal granuloma e disseminarsi (riattivazione), o può verificarsi una reinfezione con altri ceppi: in entrambi i casi si ha una tubercolosi attiva;
  3. la malattia subclinica è caratterizzata da sintomi intermittenti e riaccensioni periodiche, o
  4. evolve in malattia conclamata16.

Studi e ricerche in campo tisiologico hanno sempre avuto un’alternanza di cicli positivi con ricadute clinicamente utilizzabili e di stasi: all’impatto a fine ‘800 della scoperta del bacillo e dell’introduzione dei primi sanatori, seguì “solo” nel 1922 l’impiego del BCG, rimasto a tutt’oggi l’unico vaccino di una certa efficacia. Nel trentennio 1940/1970 vennero scoperti e impiegati, rivoluzionando la storia della malattia, i principali farmaci antitubercolari ancora oggi di prima scelta. Dopo un lungo periodo di impasse, la ricerca di base nel settore delle malattie da micobatteri ha ricevuto forte impulso dalle nuove conoscenze della genetica, dell’immunologia e della biochimica molecolare e mediante le più recenti tecnologie17: tutto questo ha permesso di sequenziare il genoma dei micobatteri e di meglio definire l’interazione batterio-ospite, anche riprendendo e aggiornando i concetti, mai superati, di recettività o resistenza nell’infezione tubercolare18. Ipotizzati sin dagli anni ‘40, fattori (mutazioni) su base genetica in grado di determinare maggiore suscettibilità o resistenza alla tubercolosi sono stati dimostrati dalla fine del secolo scorso e oggi se ne contano centinaia in diverse popolazioni, numerosi i primi, più rari i secondi19. Trattasi di SNPs, ripetizioni, delezioni o traslocazioni coinvolgenti geni perlopiù connessi a fattori dell’immunità innata (recettori, mediatori dell’infiammazione), spesso a impatto familiare e di popolazione20. Se ne ipotizzano un domani quali target per una terapia personalizzata o di precisione. Siamo in grado oggi di allestire mappe che permettono di correlare gruppi di mutazioni fenotipicamente omogenei di recettività verso i micobatteri con quadri clinici differenti sia morfologicamente che clinicamente. Altro importante settore della ricerca è quello delle resistenze ai farmaci: il sequenziamento del genoma ha permesso di individuare numerose sconosciute mutazioni che conferiscono questa proprietà al batterio, ma anche di “scovare” punti deboli che speriamo a breve di aggredire con nuove molecole, individuabili mediante software specifici e le risorse della I.A., come già positivamente sperimentato in altre emergenze microbiologiche21.

Rispetto a 20/30 anni fa la diagnostica in campo tubercolare è stata rivoluzionata nelle procedure, nelle metodiche, nei macchinari: ma per sostenere e implementare tutto questo ci vogliono nuovi fondi per la ricerca e le applicazioni cliniche, fondi pubblici e privati, che da almeno 6 anni (prima del COVID!) sono fermi e che, anche se previsti, non vengono interamente erogati e impiegati, come illustrato nella Tab. 1.


Malattie associate: tubercolosi +… Comorbidità e coinfezioni rappresentano criticità severe e complesse nella storia di ogni singolo caso di malattia tubercolare, impegnative da gestire e trattare: quadri clinici assai diversificati a seconda delle aree geografiche, dell’età, del genere, dello stato immunologico, di numerosi fattori sociali interferenti. Nel mondo occidentale ci troviamo ad affrontare più frequentemente situazioni di tubercolosi e malattie “not-communicables”(diabete, cardiopatie, patologie dismetaboliche, conseguenze da abuso di alcool e fumo), soprattutto in soggetti di età medio-alta, mentre nel sud del mondo malaria, elmintiasi e parassitosi, infezioni sessualmente trasmesse accompagnano quasi costantemente l’infezione tubercolare, colpendo entrambi i sessi e ogni età22.

Se è vero che nelle fasce tropicali e Africa sub-sahariana la coinfezione tubercolosi-malaria è frequentissima, tant’è che gli areali di diffusione dei due patogeni sono sovrapponibili, è altrettanto vero che altre parassitosi, definite e incluse fra le “infezioni neglette”, affliggono con altrettante criticità i malati di tubercolosi: parliamo di leishmaniosi, trypanosomiasi, elmintiasi, cui spesso si associa l’HIV, in quadri complessi, quasi ingestibili, in paesi tra i più poveri al mondo. In Africa e India, nei pochi centri cui non mancano adeguate risorse economiche, la sorveglianza della tubercolosi latente, il monitoraggio delle forme attive e la prevenzione e gestione delle coinfezioni si fa anche con un semplice pannello di test quali la conta Cd4+ e il dosaggio di alcune citochine infiammatorie: purtroppo una metodologia impensabile nel 90% dei restanti centri degli stessi paesi.

Un discorso a parte merita la coinfezione tubercolosi/HIV: ogni anno vi sono circa 1.150.000 nuovi casi di coinfezione HIV-1/tubercolosi e 400.000 morti da attribuire direttamente alla coinfezione; il 6,7% dei nuovi casi di tubercolosi del 2022 nel mondo si sono verificati in persone HIV+, ma la situazione è ben peggiore in Africa, con picchi >50% in quella australe. Il numero totale di casi di coinfezione nel mondo è senz’altro sottostimato e non aggiornato dopo il 202023. La coinfezione HIV-1/MT aumenta il rischio sia di tubercolosi attiva che di progressione della malattia virale. La proteina NEF di HIV-1 compromette il controllo da parte dell’ospite del micobatterio, inibendone la fagocitosi e la clearance del carico fagosomiale. L’infezione o la reinfezione tubercolare è favorita dalla deplezione Cd4+. In caso di coinfezione, specie con un’alta carica bacillare, fallisce l’azione delle cellule T attive e “recovery” e frequente è la comparsa di “tubercolosi-IRIS” (Immune Reconstitution Inflammatory Syndrome)24. In corso di tubercolosi attiva aumenta la replicazione del virus e la propagazione del pannello di segnali dell’immunità innata: sono iperstimolate e iperattivate le citochine pro-infiammatorie e tutta la risposta immunitaria è disregolata.

Oltre ad essere sottostimata e spesso diagnosticata in ritardo, specie in Africa australe e sud-est asiatico, la coinfezione presenta altri gravosi problemi di gestione clinica, quali resistenze agli antibiotici antitubercolari e/o agli antivirali, difficile accesso ai centri di cura, carico economico elevatissimo: le percentuali di pazienti correttamente trattati rimangono in assoluto tra le più basse. E le previsioni per il prossimo futuro sono fosche, con un trend in aumento in paesi dalle risorse finanziarie persistentemente deficitarie.

Infine, un accenno alla coinfezione tubercolosi/COVID-1925; un’incidenza abbastanza significativa è stata registrata in India, anche in età pediatrica, paese ove per motivi economici e organizzativi la vaccinazione raccomandata con BCG ai piccoli è stata quasi sospesa nel triennio 2020/22. Nel resto del mondo, Europa compresa, COVID ha manifestato quadri clinici severi in pazienti con tubercolosi attiva, soprattutto nel primo anno di pandemia quando si era ancora privi di vaccino, e particolarmente nelle persone anziane, rientrando comunque in una situazione generale di particolare gravità dell’infezione virale allorché colpiva soggetti fragili per le più diverse patologie croniche. Non ci sono evidenze robuste di un’accresciuta incidenza della tubercolosi in corso o nel post-COVID.


Fragilità Servizi Sanitari Nazionali, ritardi diagnostici. La diversificazione della malattia tubercolare nelle diverse aree geografiche, come viene approcciata, i percorsi diagnostici, le terapie praticate, l’offerta socio-sanitaria anche nella gestione delle sequele, sono tutti elementi influenzati dalle tipologie dei servizi sanitari locali, tra i più disparati e disomogenei anche in paesi limitrofi e, pertanto, di differenti livelli di efficienza. Paesi che negli ultimi decenni hanno iniziato programmi autonomi di lotta all’infezione tubercolare, investendo risorse umane, organizzative e scientifiche, hanno raggiunto buoni risultati: ne sono un esempio Etiopia e Cina, partendo della prevenzione e da campagne informative, proseguendo con il miglioramento dello status igienico, formando specialisti e addetti ai lavori in chiave moderna; tutto questo nonostante perduranti problemi economici (Etiopia), sociali e di cultura sanitaria (Cina). Ciò dimostra che sono sì importanti i programmi globali di eradicazione, ma le realtà locali non devono mai essere trascurate26.

Le conseguenze delle “fragilità” delle organizzazioni sanitarie locali possono essere esemplificate mediante numerosi dati: così, la gestione e il trattamento dei pazienti farmacoresistenti sono ancora lontani da standard ottimali proprio nei paesi critici; in India e Sud-Africa si stima che meno dell’80% dei pazienti RR/MDR-TB abbiano accesso ai test diagnostici, il 74% riceva una diagnosi attendibile, solo il 47% inizi una terapia congrua e il 22% completi il trattamento con successo. Globalmente nel mondo i dati sono ancora più preoccupanti: su oltre 550.000 pazienti MDR/TB documentati, la terapia con farmaci alternativi è praticata nel 25% dei casi, con successo nel 14%27.

Il ritardo diagnostico rimane un punto drammatico nella lotta alla tubercolosi: un’inchiesta condotta in vari paesi del sud del mondo ha segnalato diverse criticità, quali la lontananza dei centri di diagnosi e cura, il tempo da dedicare ad occupazioni fondamentali per (sopra)vivere, barriere culturali, problemi finanziari, scarsità di medici e specialisti, stigma della stessa tubercolosi e altre coinfezioni, impossibilità dei migranti e rifugiati di accedere stabilmente ai centri di cura, e molto altro ancora.

Ma anche nei paesi socio-economicamente progrediti cominciano ad affacciarsi problemi fino a qualche anno fa impensabili o trascurati, che la pandemia COVID ha messo a nudo: un punto critico, che cominciamo ad avvertire persino in Italia, è la carenza di specialisti quali tisio-pneumologi, infettivologi, microbiologi, anestesisti e fisioterapisti, indispensabili nell’approccio e nella gestione completa delle malattie infettive, tubercolosi in particolare. Ritardi o percorsi tortuosi nella diagnosi e nelle cure ne sono la primaria conseguenza28. Discorso analogo riguarda infermieri, tecnici della riabilitazione, care-givers. Sono queste criticità che, addizionate ai cronici problemi di inadeguatezza dei fondi erogati per la sanità, alle critiche o vere campagne di stampa e mass-media che colpiscono indiscriminatamente il mondo sanitario, le fake news in tema di prevenzione e vaccini, non facilitano l’operato di chi ogni giorno dedica alla lotta contro patologie impegnative quali la tubercolosi le proprie energie, cultura, impegno. Il rischio è che invece di portare i servizi sanitari dei cosiddetti LMICs (Low and Middle Income Countries) ad un livello il più possibile vicino al progredito occidente, avvenga il contrario: un’emergenza cui dovrebbero dedicarsi maggiormente OMS e dipartimenti sanitari ONU, criticità largamente omesse.


Ambiente, clima, inquinamento. Diversi studi hanno confermato il rapporto fra ambiente, cambiamenti climatici e inquinamento, da una parte e diffusione delle patologie respiratorie, dall’altra, comprese le infezioni stagionali virali, influenzali, parainfluenzali e da coronavirus, COVID-19 ma non solo. La relazione tra cambiamento climatico e tubercolosi è stata indagata ed è emersa nella letteratura solo di recente, ma rimane trascurata nei programmi di analisi globali. È importante riconoscere la tubercolosi come una malattia sensibile al clima, dato da tener presente nei progetti di eradicazione29. Modelli epidemiologici e predittivi dovranno meglio definire come i cambiamenti climatici possono influenzare i fattori di rischio per la tubercolosi (Global Tuberculosis Report 2021): HIV, altre patologie concomitanti o pregresse, denutrizione, sovraffollamento, povertà e inquinamento. Già 53 studi censiti nei database PubMed, Embase e Scopus, condotti per identificare l'associazione tra variabili climatiche e fattori di rischio per la tubercolosi, hanno dimostrato legami significativamente positivi; le associazioni più rilevanti dimostrate hanno riguardato proprio i fattori di rischio succitati: cambiamento climatico e patologie dismetaboliche, altre infezioni, denutrizione, sovraffollamento, povertà e inquinamento indoor e outdoor. Questi risultati preliminari suggeriscono che il cambiamento climatico influisce sulla suscettibilità degli individui alla malattia, aumentando la prevalenza dei fattori di rischio sottostanti, dunque una possibile azione indiretta. Più difficile è dimostrare un effetto diretto di manifestazioni climatiche estreme sulla risposta immunologica: sono state ipotizzate condizioni stressanti sull’immunità innata e in particolare sui macrofagi e altre cellule fagocitarie del polmone30.

Riportiamo alcuni esempi di come eventi climatici estremi abbiano influito, tra le conseguenze registrate, sulla circolazione dei micobatteri e la diffusione dell’infezione. È stato dimostrato che le sabbie del deserto, trasportate a distanza dopo una tempesta, possono diffondere micobatteri tubercolari e non: questi eventi sono stati evidenziati in Iraq e Kuwait, 2011 e in Cina, 2016: in questo secondo caso si sono registrati diversi casi di malattia attiva. El Niño Southern Oscillation (ENSO) influisce sulle variabili climatiche, promuovendo la trasmissione di malattie infettive in Perù e in altri paesi della regione, in particolare malattie respiratorie31. Si sta valutando se esista un'associazione tra ENSO e incidenza della tubercolosi: risultati preliminari dimostrano un’influenza positiva sulla diffusione dell’infezione polmonare, ma anche extra, attraverso un intervento diretto su piovosità, umidità, temperatura ma soprattutto venti e correnti aeree e dispersione aerea dei bacilli. Nei cicli periodici di prevalenza del Niño la presenza nell’ambiente dei micobatteri aumenterebbe in maniera consistente, così come i casi clinici successivamente accertati.

Meglio definita è la relazione tra patologie polmonari e inquinamento, soprattutto da particolato fine32. Studi epidemiologici hanno dimostrato una correlazione fra l’esposizione agli inquinanti ambientali e il rischio di contrarre la tubercolosi. Il sequenziamento dell'intero genoma (WGS) di MT permette anche di valutarne lo stato replicativo e il tasso di mutazione (MTMR) durante il ciclo infettante all'interno dell'ospite, analizzare gli effetti degli inquinanti ambientali in varie fasi dell’infezione, come ad esempio la riattivazione endogena della malattia e la comparsa di nuove mutazioni di MT, indotte da inquinanti ambientali, in grado di aumentare la virulenza del batterio.

Un effetto massimo e consistente per il PM10 (aumento MTMR: 81,87%) e PM2.5 (aumento MTMR: 73,91%) è stato osservato a 0-12 mesi. Per SO2 l'effetto massimo è stato osservato tra 0 e 8 mesi, con un aumento dell'MTMR del 128,06%; per NO2, l'effetto massimo è stato osservato tra 0 e 9 mesi, con MTMR in aumento del 124,02%. Al contrario, per O3 la concentrazione è stata inversamente associata all'MTMR e la riduzione di MTMR è stata del 6,18% con un ritardo di 0-9 mesi. Risultati simili sono stati osservati per i modelli multi-inquinanti. L’esposizione agli inquinanti ambientali contribuisce a un MTMR più rapido, indicando pertanto che MT mostra una maggiore attività riproduttiva e accelera la riattivazione endogena nell'ospite.

Rimane inequivocabile il dato che, in Europa occidentale e nord-America la maggioranza di nuovi casi di tubercolosi fra gli autoctoni si verifica nelle aree urbane e peri-urbane, tutte fortemente inquinate.


Mescolamento di genti e popolazioni: migrazioni, viaggi, guerre,... In ogni situazione caratterizzata da spostamento di masse più o meno ingenti di persone o popolazioni, quali migrazioni, viaggi per lavoro o turismo, fughe a seguito di conflitti, carestie, catastrofi naturali, crisi climatiche e idroalimentari, e quant’altro, pertanto da mescolamento di genti, ulteriormente favorito con la formazione e persistenza di campi profughi o viaggi in promiscuità, si assiste ad un’amplificazione nella circolazione e diffusione di microrganismi patogeni con conseguenze facilmente intuibili. Se aggiungiamo poi che gli eventi ora delineati si accompagnano a condizioni critiche ed emergenziali delle organizzazioni sanitarie e a defaillance nell’assistenza e nell’igiene di persone strutturalmente fragili, possiamo comprendere come il contagio da MT in numerose parti del mondo oggi persista o addirittura acquisti vigore con un trend che cozza con tutti i programmi internazionali e locali di eradicazione della malattia tubercolare.

Nonostante la pressante attualità di questi eventi, molti aspetti della complessa interazione fra patogeni da una parte, gruppi di popolazioni dall’altra, ci sfuggono, in particolare le dinamiche che coinvolgono più soggetti quali ospiti, spesso assai diversificati tra loro nella risposta immunitaria sottesa alla frequenza e alla tipologia di mutazioni geniche nei meccanismi effettori e regolatori dell’immunità; né dobbiamo trascurare la concomitanza e l’interferenza, quasi una costante, di altre patologie.

Il riaffacciarsi di infezioni che pensavamo di aver debellato per sempre (poliomielite) o la recrudescenza di altre (morbillo, tubercolosi, colera e gastroenteriti da acqua o alimenti inquinati) rappresentano criticità in situazioni estreme quali i campi profughi che da temporanei si trasformano in permanenti o definitivi, campi di raccolta che rammentano i lager di 80 anni fa, i viaggi in promiscuità che possono durare mesi o anni33. E, per coloro che etichettiamo frettolosamente “migranti”, ma che nascondono realtà umane molteplici, tutte ugualmente drammatiche, è proprio la fase due della loro odissea (partenza-viaggio-arrivo), il momento veramente critico da un punto di vista sanitario, ove in assenza di qualunque precauzione igienica l’ammassamento di gente, la promiscuità, la debolezza fisica, la fatica, lo stress psichico, favoriscono, inevitabilmente, un contagio. Ci chiediamo: nei luoghi di arrivo, nei porti, nei centri di accoglienza e smistamento, l’assistenza sanitaria e i controlli sono adeguati? Vi sono misure per terapie d’urgenza, interventi di prevenzione, di counseling, congrui alla gravosità del problema, e che interessino la maggioranza delle malattie infettive? Sono questioni che riguardano direttamente il nostro paese, in prima linea nel soccorso e nell’accoglienza dei migranti, nei confronti dei quali il controllo sanitario e il monitoraggio infettivologico rappresentano ad un tempo un’emergenza e una criticità assolute, che dovrebbero guidare e condizionare scelte di politica sanitaria e che senz’altro diverranno ancor più pressanti in futuro.

Alcuni dati statistici illustrano meglio quella che possiamo considerare una criticità nella criticità, ossia la diffusione di malattie infettive, e la tubercolosi, in particolare, fra i migranti dalla partenza alla destinazione d’arrivo34. Nei paesi dell’Europa centro-settentrionale, fra i più “appetiti” per le migliori offerte di lavoro (Germania su tutti) e dunque meta finale di accoglimento per chi viene dall’Asia, dall’Africa e dall’Europa dell’est, l’incidenza della tubercolosi è stata notata in aumento fra i migranti stessi già dal 2012, con un’impennata fra il 2014 e il 2015 (>7 casi/100.000 soggetti, il doppio rispetto agli autoctoni) e su tali valori si è attestata prima e dopo la pandemia da COVID. L’Italia e i paesi mediterranei, mete di approdo e di transito più che di permanenza definitiva, presentano valori complessivamente inferiori. Negli USA, sottoposti a imponenti flussi migratori dal sud e dal centro America, il rapporto percentuale fra nati negli states e nati altrove affetti da tubercolosi si è progressivamente spostato a favore dei secondi da inizio secolo, superando ormai il 50%. In ogni nazione il numero complessivo di casi di tubercolosi va esaminato in dettaglio: il rapporto fra malati autoctoni e stranieri è un indice affidabile, se teniamo a mente che è condizionato non solo da una serie di variabili clinico-biologiche, bensì anche da dinamiche socio-economiche quali efficienza dei SSN locali, PIL e risorse destinate alla sanità, numero di migranti accolti in una determinata unità di tempo, misure preventive e terapeutiche adottate verso la malattia tubercolare nel suo complesso. Non dobbiamo infine dimenticare forme di tubercolosi, come quelle extrapolmonari, di difficile riscontro in Italia e paesi limitrofi tra gli autoctoni, ma ancora diffuse nei paesi del sud del mondo e pertanto incidenti fra quelle popolazioni.

Interessante è il dato che, tra i viaggiatori occasionali, come i turisti, la tubercolosi contratta all’estero sia all’8° posto tra le malattie infettive che possono contagiare travelers perlopiù europei e americani, talora con quadri clinici subdoli e indefiniti, che presentano al ritorno problemi diagnostici non semplici e spesso riconosciuti con ritardo.

Ma, attualmente, in una situazione internazionale che anche per il prossimo futuro non manifesta indizi di ottimismo, spostamento e mescolamento di popolazioni sono la conseguenza di numerosi conflitti, che caratterizzano lo scenario di una “3° guerra mondiale a pezzi”, come è stata da molti definita. Le precedenti guerre mondiali del ‘900 hanno evidenziato sempre e ovunque un’impennata della tubercolosi (e non solo!); oggi la frammentazione del quadro conflittuale, con la fuga di genti e interi popoli, la creazione di campi profughi, il crollo delle organizzazioni sanitarie locali, insieme alla crisi economica, sociale e sanitaria della pandemia COVID, innesca focolai di criticità in cui il contagio di numerosi agenti patogeni incide in contesti già estremamente fragili. Negli ultimi decenni, recrudescenze consistenti di tubercolosi si sono registrate a seguito di conflitti interni o fra più stati nel corno d’Africa (Eritrea-Somalia-Etiopia-Kenya), in Sudan e sud-Sudan, Salvador, nella diaspora dei tibetani, nella regione caucasica (Georgia-Armenia-Nagorno Karabak-Kazakhistan), Indocina. Oggi le emergenze insistono ancora nei Balcani (residui bellici più migranti rotta balcanica), Guinea-Bissau, Somalia, Congo, Afghanistan, area Siro-Anatolica (guerra civile in Siria + terremoto in Turchia). Gli ultimi fronti, sotto gli occhi di tutti: guerra Russia-Ucraina e Israelo-Palestinese, con epicentro Gaza35. Tutte queste situazioni sono caratterizzate da crollo dei servizi sanitari locali (in Siria, Congo, Afghanistan non si vaccina più, tornano poliomielite e tetano, aumentano morbillo e tubercolosi), annullamento della prevenzione, storno di fondi verso gli armamenti, accesso sempre più arduo alle cure e ai farmaci primari. E i fronti di conflitto, sembra, debbano incrementare.


Le 3 grandi criticità clinico-biologiche inerenti la tubercolosi, secondo OMS


1. Armamentario farmacologico anti-tubercolare parzialmente obsoleto e scarsa attenzione della ricerca di base e clinica. Nella Tab. 3 abbiamo riportato, nel box in alto, i farmaci antitubercolari di prima scelta, dalla “storica” streptomicina agli altri ancora oggi d’uso elettivo, tutti scoperti nel ventennio 1947/67; nel box in basso i farmaci antitubercolari sono suddivisi in 5 gruppi, secondo le indicazioni OMS e comprendono anche quelli di seconda linea e/o impiegati nelle forme multiresistenti, tra cui i recenti bedaquilina e delamanid36.

Le date riportate evidenziano come nel trentennio conclusivo del XX secolo, e oltre, la ricerca di nuove molecole antitubercolari abbia subito un arresto quasi completo, cullati dall’illusoria convinzione che l’armamentario disponibile fosse sufficiente a debellare la malattia e per scelte di economia e politica sanitaria largamente diffuse. Ma negli anni 2000 abbiamo dovuto prendere atto di nuove realtà: la mancata eradicazione dell’infezione, anzi un aumento dei casi “a macchia di leopardo”, l’obsolescenza, se non il declino di efficacia di alcuni farmaci convenzionali, il progressivo incremento delle resistenze; tutto questo ha dato nuova, inevitabile spinta all’attuale fase nella ricerca farmacologica, che può avvalersi, rispetto al passato, di conoscenze fondamentali derivate dal sequenziamento completo del genoma batterico, l’individuazione di ulteriori bersagli molecolari aggredibili (sulla parete cellulare, sugli acidi nucleici, sul corredo enzimatico e vie metaboliche vitali), la focalizzazione dell’interazione MT-ospite37. Questo è inoltre il campo di applicazione delle nuove tecnologie informatiche: software dedicati, mechanism learning, intelligenza artificiale ci aiutano a trovare molecole efficaci e affidabili tra migliaia di candidati, con rapidità e sicurezza, requisiti che il lavoro umano non può garantire allo stesso livello. Questa strada ha già permesso di ottenere importanti risultati in altri campi della microbiologia clinica e di risolvere problemi di farmacoresistenza (Candida auris, ad esempio): siamo certi che aiuterà anche a risolvere il primo punto critico indicato dall’OMS. Nella Tab. 438 abbiamo riportato le nuove molecole, gli antibiotici e le associazioni nella tubercolosi in varie fasi di sperimentazione o da poco entrate nell’utilizzo clinico.

 


Tab. 3. Chemioterapia antitubercolare: farmaci di prima linea obsoleti e in uso; classificazione OMS comprensiva dei farmaci di seconda linea e/o per le forme I/R/MDR-TB.

 

Tab. 4. Nuove molecole, antibiotici e associazioni di recente introduzione nella  pratica clinica o in sperimentazione nella tubercolosi, al 202238.


2. Le resistenze farmacologiche. Nella Tab. 5 è riportata la classificazione delle resistenze ai farmaci di MT, secondo OMS 2013.

Il sequenziamento del genoma batterico ha permesso di approfondire la conoscenza delle basi molecolari e geniche delle resistenze ai farmaci, fenomeno ben noto e che ha sempre accompagnato la storia clinica della malattia, da quando, ormai quasi 80 anni fa, abbiamo iniziato ad impiegare gli antibiotici; oggi sappiamo che le mutazioni in geni fondamentali per lo sviluppo strutturale, il metabolismo e/o l’impiego energetico sono numerose, e conosciute solo in parte, e che dietro la resistenza ad un farmaco vi è di solito una polimutazionalità: più numerose sono le mutazioni riscontrabili in un ceppo, maggiori le probabilità che si traducano fenotipicamente in resistenza ai farmaci. Soprattutto siamo consapevoli quali possano essere gli errori nella condotta terapeutica, tali da contribuire alla circolazione e al contagio di ceppi mutati e dunque resistenti: terapie incongrue, interrotte, farmaci sottodosati, associazioni inadeguate, controlli batteriologici non eseguiti o eseguiti in tempi e modi scorretti. Ma la constatazione che sia le mono che le poliresistenze sono più frequentemente diagnosticate in soggetti fragili, con situazioni complesse di comorbidità o coinfezioni, spesso provenienti da paesi in “poverty” in cui arduo è l’accesso a cure e follow-up idonei, pone medici e pazienti di fronte alla realtà che il fenomeno delle resistenze nella genesi e nell’outcome è gravato da dinamiche tanto biologiche quanto economico-sociali interferenti. Basta guardare la mappa dei paesi affetti da tubercolosi complicata: la triade TB/MDR-TB/HIV (talora con ceppi di HIV resistenti agli antivirali) è concentrata prevalentemente nell’Africa australe, in Cina, in India e sud-est asiatico39.

I protocolli con farmaci alternativi o di seconda scelta sono in continua evoluzione, in quanto tengono conto delle ultime molecole utilizzabili che si affiancano o sostituiscono altre convenzionali e datate: i costi di una terapia con nuovi antibiotici sono di gran lunga superiori, spesso non sostenibili in paesi ove la tubercolosi e i casi resistenti incidono maggiormente; da qui, come abbiamo visto in precedenza, la bassa percentuale di pazienti adeguatamente trattati e controllati, il cospicuo numero di insuccessi terapeutici, l’elevata contagiosità e mortalità, la circolazione di ceppi resistenti, in altre parole la persistenza di un circolo chiuso e perverso ben lontano dai target di contenimento o eradicazione della malattia. La stretta connessione tra criticità clinico-biologiche ed economico-sociali, stante l’attuale situazione politica e sanitaria nel mondo, rischia di travalicare e travolgere anche paesi oggi ritenuti “benestanti” e porli in crisi di fronte a realtà finora lontane: COVID-19 e altre pandemie ci hanno insegnato poco40.

I numeri assoluti della situazione globale sono sicuramente sottostimati, per le carenze o i limiti diagnostici in numerose parti del mondo e la difficoltà di raccogliere dati attendibili in popolazioni in movimento o in zone di guerra; il trend è sicuramente in aumento dal 2009, i paesi a più alta frequenza sono la Russia, la Cina e l’est-Europa (fino al 25% e oltre di resistenze tra i malati, sia di primo accertamento che cronici); complessivamente iniziano un trattamento alternativo in queste aree non più del 54% degli adulti e del15% (!) dei bambini, gravato da costi che possono superare di centinaia di volte quelli di una terapia-base41.

Quasi il 100% dei soggetti resistenti vede coinvolte isoniazide e rifampicina, seguono con il 35/55% etambutolo e pirazinamide, ma tutti i farmaci, compresi gli ultimi introdotti, possono essere interessati: quest’ultimo dato lascia riflettere sulla tempestività del batterio ad acquisire mutazioni nel metabolismo di molecole nuove.

In Italia è interessante notare come, tra gli autoctoni, la maggioranza delle resistenze si registri in soggetti di età medio-alta perlopiù con altre patologie infettive e non, concomitanti, mentre tra i non nati in Italia, provenienti soprattutto dai paesi dell’Europa dell’est, sono colpite tutte le età senza distinzione fra soggetti con o senza comorbidità.

La prevenzione, specie a lungo termine, delle resistenze agli antibiotici antitubercolari poggia su tre caposaldi: l’ampliamento dell’armamentario terapeutico con la ricerca di nuovi farmaci, un utilizzo di questi e di quelli “storici” già in uso, congruo e aderente ai singoli casi, l’impiego e l’implementazione delle ultimissime tecnologie riguardo il sequenziamento dei genomi e l’individuazione di vecchie e nuove mutazioni, come ad esempio i macchinari di “Next Generation Sequencing”; scoglio per molti attualmente insormontabile: gli alti costi di gestione e utilizzo.

 

Tab. 5. Tipologie di tubercolosi farmaco-resistenti (WHO, 2013).


3. Nuovi vaccini. “Tutti i vaccini che funzionano bene (vaiolo, varicella, tetano, poliomielite, (COVID - aggiungiamo noi -) conferiscono protezione attraverso la stimolazione della produzione di anticorpi neutralizzanti. Viceversa, tutti quelli che funzionano poco o affatto (malaria, tubercolosi, lebbra, HCV, HIV), non sono efficaci perché non sono in grado di stimolare l’immunità cellulare T-dipendente”: R.M. Zinkernagel, premio Nobel per la Medicina nel 199642. Questa affermazione fotografa bene, fra gli elementi tra di loro interconnessi necessari per stoppare la trasmissione dell’infezione tubercolare, quale sia l’anello debole della catena: il vaccino. L’unico effettivamente disponibile, il BCG, ha da poco compiuto 100 anni, e li dimostra tutti, una progressiva obsolescenza che riguarda molti aspetti del suo impiego, zone d’ombra che il tempo ha acuito anziché diradare: dosi, richiami, durata della protezione, validità degli adiuvanti, interazione con i numerosi protagonisti dell’immunità cellulare antitubercolare, e altro ancora. Diversi negli anni sono stati i candidati alla sua sostituzione, pochi, forse nessuno, è arrivato ad una sperimentazione clinica con esito soddisfacente. Così siamo costretti a spostare ad ogni insuccesso la data di quando potremo avere un sostituto del BCG e a ridurre le probabilità al riguardo.

Da un punto di vista strettamente immunologico, per spiegare i motivi del fallimento, totale o parziale, del BCG, vi sono le interferenze provocate da micobatteri ambientali, che deviano le cellule dell’immunità dal target principale; la perdita progressiva nel tempo di cellule T-memory; le interferenze ben dimostrate da parte di altri patogeni: HIV, CMV, elminti. In ogni caso, la risposta al BCG è, più che in ogni altro vaccino, fortemente individuale43.

Molte nazioni lo utilizzano ancora come parte dei loro programmi di controllo e prevenzione della tubercolosi, specialmente per i bambini. L'efficacia protettiva del BCG per prevenire forme gravi, come la meningite, e la miliare diffusa, nei bambini è > all'80%, mentre la sua efficienza nel prevenire queste e altre localizzazioni negli adolescenti e negli adulti è decisamente scarsa, < 40-50%. Negli adulti è raccomandato, come prassi clinica consolidata, nei soggetti immunodepressi, specie se con malattie e infezioni croniche concomitanti, quali l’AIDS, in associazione con la chemioprofilassi con isoniazide. In molti paesi africani e asiatici il vaccino è distribuito a tutti i bambini < i tre anni. Negli USA il BCG è raccomandato in alcune situazioni specifiche: bambini con test cutaneo negativo, esposti e a contatto con tubercolotici non trattati o sottotrattati o con tubercolosi multiresistente; operatori sanitari che lavorano in ambienti in cui è stata riscontrata un'alta concentrazione di pazienti con infezione multiresistente e là dove il controllo della malattia non è risultato efficace o è fallito44.

Per i dettagli sui vaccini, preventivi e terapeutici, attualmente in sperimentazione (fase 1, 2a, 2b, 3), si rimanda alla precedente memoria pubblicata negli Atti dell’Accademia nel 201745: il che vuol dire che negli ultimi sei anni non si sono registrati ulteriori progressi e che il vaccino MVA85A rimane ancora il più promettente.

In definitiva, per sviluppare nuovi vaccini, più efficaci, dobbiamo porci l’obiettivo di stimolare tanto l’immunità adattativa e la memoria immunologica che si ottiene attraverso i suoi elementi effettori (mediatori, cellule), quanto i percorsi dell’immunità innata46, rispolverando su base moderna, genetica e molecolare, i sempreverdi concetti di recettività e resistenza. Dovremo allestire e disporre di più tipi di vaccini: vaccini preventivi “sensu stricto”; vaccini che impediscano la progressione delle infezioni latenti; vaccini terapeutici, che affianchino gli antibiotici antitubercolari; vaccini multipli. I nuovi preparati dovranno tener conto, e dunque differenziarsi, a seconda se i soggetti non siano mai venuti a contatto con MT o se al contrario abbiano già subito un’immunosensibilizzazione, per via naturale o con altri vaccini (BCG). Prima di abbandonarlo completamente, ricordiamoci che il BCG ha dimostrato una certa efficacia nella lebbra e validità come supporto immunostimolante/modulante in numerose terapie di malattie neoplastiche e degenerative, nelle quali continuerà ad essere impiegato ancora nel prossimo futuro.

In conclusione, se vogliamo sintetizzare lo stato dell’arte per nuovi vaccini antitubercolari, superando il BCG, dovremo ampliare i target cellulari, coinvolgere tanto l’immunità innata quanto quella adattativa, “inventare” altri adiuvanti, ripensare il ruolo dell’immunità umorale e dei mediatori: sarà sufficiente per avere successo?


Poverty. I dati epidemiologici, sociali ed economici dell’OMS sono riassunti da una frase lapidaria: “Across the globe, poverty and tuberculosis go hand to hand”; e la giornalista brasiliana Sofia Moutinho, accreditata presso il Dipartimento per le politiche sanitarie all’ONU, aggiunge: “La tubercolosi è prevenibile e curabile, anche se colpisce ancora un quarto della popolazione mondiale, nella maggioranza dei casi a causa della povertà”47. Incidenza e mortalità della malattia sono inversamente proporzionali alla ricchezza, alle risorse finanziarie e alla percentuale di PIL investito in salute, in ciascun paese o area geografica: questo da un punto di vista strettamente economico, ma abbiamo visto che il concetto di “poverty” va inteso più estensivamente e coinvolge ogni aspetto deficitario della vita sociale. Allo stesso tempo da parte dell’OMS e dei Dipartimenti Sanitari dell’ONU sono state messe a punto e raccomandate le linee guida per combattere ed eradicare la tubercolosi nell’ambito dei progetti per uno sviluppo sostenibile globale, che investa tutti gli aspetti economici, sociali, sanitari, occupazionali, alimentari, culturali della vita di ognuno di noi, per il nostro benessere, al raggiungimento del quale la lotta alle malattie infettive è uno degli step prioritari. Abbiamo dedicato all’argomento una precedente memoria in Accademia48, alla quale rimandiamo per completezza; riportiamo qui alcuni punti salienti.

In molti paesi del sud del mondo, specie Africa australe, la tubercolosi è affrontata e gestita, in negativo, come le cosidette “NTIDs, Neglected Tropical Infectious Diseases”: fondi insufficienti, stigma sociale, coinfezioni quasi costanti, iter diagnostico bloccato dalla carenza di specialisti e attrezzature adeguate, scarsa cultura dedicata, difficoltà nell’accesso alle cure e ai farmaci primari, costi esorbitanti per i chemioterapici da impiegare nelle forme M/X/DR-TB.

La stretta associazione fra tubercolosi e “poverty” è sottolineata da una serie di dati: oltre il 70% dei paesi in cui la malattia è preminente ha un PIL fra i più bassi del mondo; il 100% di questi paesi è afflitto anche da almeno 5 NTIDs; la trasmissione di MT e altri micobatteri ambientali è facilitata da acqua non potabile, scarsa igiene, promiscuità tra uomini e animali. Nella lotta alla tubercolosi è indispensabile affrontare quei determinanti primari o collaterali, già illustrati tra i problemi in sospeso, che riguardano aspetti clinico-sanitari e socio-economici; tra questi: l’offerta scolastica e il tasso di scolarizzazione; una diversa cultura dell’igiene della persona, della famiglia e della collettività; la percezione dei rischi verso le malattie infettive; la capacità produttiva e il tasso di occupazione; il rischio di comorbidità con HIV, malaria, NTIDs, epatiti, infezioni sessualmente trasmesse49. Una lotta decisa a queste affezioni non può prescindere da piani concreti e fattibili per lo sviluppo socio-economico dei paesi coinvolti: le strategie di riduzione della povertà spezzano il circolo vizioso fra questa e le malattie infettive, a patto che sia implementato l’accesso alle cure specifiche e siano estesi alle popolazioni programmi di educazione sanitaria.

In quel 70% di paesi cui accennavamo, la tubercolosi trova una interconnessione perversa, un circolo vizioso di cause ed effetti, con tutti quei fattori socio-economici, sanitari, ambientali, comportamentali e culturali, il cui ruolo e differente grado di compenetrazione nel tessuto sociale segnano la discriminante fra attuazione o mancanza di uno sviluppo sostenibile. Soluzioni sanitarie ad impatto immediato, o a lungo termine, ne sono state proposte in gran numero negli ultimi decenni, programmi perlopiù disattesi o riusciti solo parzialmente, come quello per la diffusione, l’accesso e la riduzione dei costi dei farmaci per le cure primarie. Oggi si è compreso che il concetto di “poverty” non può essere inteso solo su una base meramente economica: alla stragrande maggioranza delle popolazioni del mondo tanto altro manca, oltre le risorse monetarie, in campo alimentare, educazionale, sanitario, lavorativo e professionale, cura dell’infanzia e dei fragili. I problemi sanitari non si risolvono, e la lotta a malattie ataviche come la tubercolosi non può avere successo, se non si affronta uno sviluppo sostenibile globale che investa tutta la società. Così l’ONU ha stilato una serie di obiettivi che rispondono ad una domanda di salute e benessere globale, in un’ottica imprescindibile nella soluzione di tutti i problemi della società, anch’essa globale.

E, nei paesi “critici”, dove la malattia è più “critica” che altrove, le tre grandi emergenze di cui abbiamo parlato prima: nuovi farmaci (a basso costo), lotta alle resistenze, nuovi vaccini, diventano più pressanti e urgenti che altrove.


…e ancora, ulteriori, attuali criticità in tema di tubercolosi, in Italia,…ma non solo!50

Numerosi altri fattori possono condizionare la storia di ogni singolo caso di tubercolosi e di come ci approcciamo e gestiamo la malattia: incidono in maniera differente da paese a paese, interferendo e interferiti da tutte le complesse criticità di cui abbiamo finora illustrato gli aspetti salienti. In sintesi:
carenza di specialisti tisio-pneumologi, infettivologi, microbiologi, tecnici della riabilitazione, che l’epidemia di COVID-19 ha portato all’attenzione e ulteriormente amplificato;
- scarsa cultura tisiologica nelle nuove generazioni di medici e altre figure professionali, e in sanità in generale: lacuna che nasce da una preparazione non congrua e insufficiente negli studi universitari e nei corsi di laurea;
- progressiva riduzione d’interesse, fattore che coinvolge anche la ricerca, per la malattia e le sue conseguenze sociali da parte del mondo sanitario e politico, salvo sporadici ritorni di fiamma qualora si accertino focolai autoctoni o incremento dei flussi migratori visti come “pericolose fonti di contagio”;
- scarso interesse da parte dei mass-media e della stampa;
- bassa o assente percezione nella popolazione delle problematiche e dei rischi connessi alla malattia.


Conclusione

Nell’ultimo rapporto globale sulla tubercolosi, il Direttore Generale dell’OMS, T.A. Ghebreyesus, afferma: “Se la pandemia COVID-19 ci ha insegnato qualcosa, è che con la solidarietà, la determinazione, le innovazioni e l’uso bilanciato delle risorse, possiamo superare le più gravi minacce per la salute. Applichiamo questi insegnamenti anche alla tubercolosi. È ora di metter fine ad un killer che agisce da troppo tempo. Lavorando tutti insieme, possiamo “terminare” la tubercolosi”51. Tuttavia lo stesso rapporto è significativamente sintetizzato in apertura: “Notizie non così buone e mancata inversione di tendenza verso la fine della tubercolosi”.

La pandemia di COVID-19 ha accentuato le disuguaglianze nella salute di un “mondo globale”: i paesi ad alto reddito hanno rapidamente mobilitato risorse finanziarie, umane e tecnologiche, convogliandole allo sviluppo di test diagnostici, farmaci e nuovi vaccini a una velocità mai vista prima. Ciò ha contribuito al contenimento della pandemia: tuttavia, l’evidenza che la maggior parte di risorse e strumenti sia risultata non disponibile per ampie fasce di popoli e nazioni in contesti con risorse già limitate, è motivo di preoccupazione e deve indurci a riflettere sulla gestione di questa e di probabili/possibili epidemie future, nonché di qualunque patologia infettiva. Il peso della tubercolosi è maggiore in contesti con risorse limitate e all'interno di tali contesti i poveri sono ancor più emarginati e fragili. Se le disuguaglianze rilevate nella diagnostica, nel trattamento e negli strumenti preventivi (vaccini) di COVID-19 sono un riflesso di comportamenti e gestioni sanitarie, specie in infettivologia, allora dovremmo rassegnarci al fatto che la tubercolosi rimarrà tra noi per molto tempo a venire, certamente oltre le date, forse troppo superficialmente indicate, nell’ambito degli obiettivi dell’OMS. Ci auguriamo che la lezione della pandemia di COVID-19 non vada dispersa, ma possa insegnarci ad affrontare e gestire in modo innovativo le malattie infettive, a mobilizzare risorse adeguate, a superare le disuguaglianze nella lotta a queste patologie.

In conclusione, mentre i dati e le riflessioni presentate mostrano uno scenario deteriorato e gravato da numerose criticità, riteniamo che gli strumenti, le idee e la volontà di cambiare il futuro della tubercolosi nel mondo ci siano, quali elementi concreti, che dobbiamo e possiamo tradurre in azioni operative. Si è riflettuto criticamente a lungo sullo stato e la diversificazione epidemiologica della tubercolosi, sulle strategie e sugli interventi per affrontarla, oggi e ancor più nel prossimo futuro, sui progressi compiuti e sugli errori commessi, voluti o imprevisti. È ancora possibile raggiungere gli ambiziosi obiettivi della strategia End TB, anche se, inevitabilmente, alla luce di quanto accaduto negli ultimi anni, dovremo rimodulare i tempi programmati. Ciò richiederà una solidarietà globale più robusta fra nazioni con diverso impatto e scenario economico, una maggiore applicazione degli attuali interventi e strumenti e l’implementazione degli sforzi per finanziare e sostenere la ricerca e l'innovazione nei programmi di lotta. Infine, impiegando un termine di moda, migliorare la resilienza dei sistemi sanitari per raggiungere gli obiettivi fissati in tempi ragionevoli, ma sempre più stringenti. 


Prof. Francesco Belli, Accademico, già Dirigente Medico Microbiologia e Virologia, A.O. San Camillo-Forlanini, Roma; già Docente Immunologia C.d.L. Biotecnologie, “Sapienza” Università di Roma

Per la corrispondenza: f.belli11@virgilio.it

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