Anno Accademico 2023-2024

Vol. 68, n° 3, Luglio - Settembre 2024

Simposio: Il tromboembolismo venoso

19 marzo 2024

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Gestione della fase acuta della trombosi venosa profonda

P. Tondi

Con il termine tromboembolismo venoso (TEV) si è soliti indicare sia la trombosi venosa profonda (TVP) sia l’embolia polmonare (EP), entrambe causa di significativa morbilità e mortalità nei pazienti ospedalizzati e non. Nei paesi occidentali colpisce infatti da 1 a 3 pazienti su 1000 ogni anno, rappresentando la terza causa di morte cardiovascolare e la principale causa prevenibile di morte dei pazienti ospedalizzati.

La combinazione di sintomi, caratteristiche cliniche e fattori predisponenti lo sviluppo di TEV permette di classificare i pazienti con sospetta TVP in categorie di probabilità pre-test, con conseguente incremento dell’attuale prevalenza di EP confermata. La valutazione pre-test può essere effettuata sia empiricamente attraverso giudizio clinico sia utilizzando algoritmi predittivi. Nonostante la validità del giudizio clinico sia stata ampiamente confermata, essa manca di parametri di standardizzazione. Per tale ragione sono stati ideati alcuni score, dei quali i più utilizzati sono il Wells score (Tab. 1), il Geneva semplificato (Tab. 2)1-5.

 

Tab. 1. Score di Wells.

 

Tab. 2. Score di Geneva semplificato.

 

Il trattamento del TEV in pazienti emodinamicamente stabili prevede in prima linea l’utilizzo di terapia anticoagulante che può essere impostata secondo varie strategie e che deve essere intrapresa prima ancora di ricevere i risultati dei test diagnostici.

In fase acuta, ciò è generalmente effettuato mediante iniezione sottocutanea di Eparina a Basso Peso Molecolare (EBPM) o di Fondaparinux o di Eparina Non Frazionata (ENF), nonostante siano preferibili EBPM o Fondaparinux per via del ridotto rischio di sviluppare Trombocitopenia Indotta da Eparina (HIT) o di indurre sanguinamenti maggiori e per via del non necessario controllo dei parametri della coagulazione6-8.

Ciononostante, l’ENF rimane indicata per quei pazienti con conclamata o imminente instabilità emodinamica nei quali si rende necessario un trattamento di riperfusione o per quei pazienti con clearance della creatinina (ClCr) < 30 mL/min o obesità grave.

Alla luce dei noti dati di farmacocinetica, si ottiene un identico e rapido risultato anche mediante la somministrazione degli anticoagulanti orali diretti (DOACs), rappresentati da RIVAROXABAN, APIXABAN ed EDOXABAN, inibitori diretti del Fattore Xa e dal DABIGATRAN inibitore della trombina. I DOACs costituiscono un indubbio progresso nell’anticoagulazione in quanto, a differenza degli antagonisti della vit K (Warfarin ed Acenocumarolo) inibitori dei fattori vitamina k-dipendenti (II, VII, IX e X), assicurano un’inibizione diretta e specifica del Fattore Xa e del Fattore II.

Rivaroxaban, Apixaban ed Edoxaban, inibitori diretti del fattore Xa, antagonizzano il sito attivo nella forma libera e nelle forme legate di protrombinasi del fattore Xa, bloccando contemporaneamente la via intrinseca e la via estrinseca della cascata coagulativa e non necessitando dell’Antitrombina per l’attività antitrombotica.

Rivaroxaban non ha effetti inibitori sulla trombina (fattore II attivato) e sull’aggregazione piastrinica. Apixaban non presenta un’azione diretta sull’aggregazione piastrinica ma inibisce indirettamente l’aggregazione piastrinica indotta dalla trombina.

Il Dabigatran agisce come potente inibitore diretto, competitivo e reversibile della trombina, inibendo sia la trombina libera circolante che quella legata al coagulo di fibrina e riducendo l’aggregazione piastrinica stimolata dalla trombina.

Nei confronti del Warfarin i DOACS presentano un inizio di azione più rapida (0,5-2 ore per il Dabigatran, 3-4 ore per gli altri), una posologia fissa, interazioni assenti con il cibo e scarse con i farmaci, non necessitano di monitoraggio e possono essere sospesi in maniera più rapida ed agevole in caso di interventi chirurgici o procedure terapeutiche di vario tipo.

L’eliminazione avviene per via epatica e renale con le seguenti differenze: Dabigatran 20% fegato e 80% rene, Apixaban 73% fegato e 27% rene, Edoxaban 50% fegato e 50% rene, Rivaroxaban 65% fegato e 35% rene.

Trial clinici di fase III (EINSTEIN-DVT, EINSTEIN-PE e AMPLIFY) hanno dimostrato la non inferiorità a livello di efficacia della strategia di anticoagulazione per mezzo di un singolo farmaco orale utilizzando alte dosi di Apixaban (10mg bid per 7 giorni, seguiti da 5mg bid) o Rivaroxaban (15 mg bid per 3 settimane, seguiti da 20mg qd).

 Anche gli altri due anticoagulanti appartenenti a questo gruppo, Edoxaban (60mg qd o 30mg qd se ClCr tra 15 - 50 ml/min, peso corporeo ≤ 60 kg, uso concomitante di inibitori della glicoproteina P quali Ciclosporina, Dronedarone, Eritromicina o Ketoconazolo) e Dabigatran (150mg bid o 110mg bid se >80 aa o trattamento concomitante con Verapamil), studiati negli studi Hokusai-VTE, RE-COVER e RE-COVER II, possono essere utilizzati in fase acuta ma necessitano di un iniziale bridge eparinico per almeno 5 giorni così come gli antagonisti della Vitamina K (AVK)9-15.

Una metanalisi di Van Es et al. sui trial randomizzati dei DOAC per il trattamento del TEV ha mostrato infatti una riduzione della ricorrenza del TEV del 10% e di emorragie maggiori del 40% rispetto ai pazienti con AVK. Ha evidenziato inoltre una riduzione delle emorragie intracraniche, fatali e clinicamente rilevanti non maggiori.

A differenza dei trial clinici sui DOACs per la fibrillazione atriale, quelli per il trattamento del TEV non hanno evidenziato alcun aumento del rischio di sanguinamento gastrointestinale. Le ragioni di questa discrepanza potrebbero includere le differenti caratteristiche dei pazienti (come l’uso concomitante di farmaci antipiastrinici) e la durata del trattamento.

I VKA hanno rappresentato il gold standard del trattamento anticoagulante orale per più di 50 anni. Quando utilizzati, in virtù della loro farmacocinetica, necessitano di una terapia embricata con EBPM, ENF o Fondaparinux finché l’INR non si assesta, per due giorni consecutivi, al valore di 2-3. Sospesi poi gli anticoagulanti parenterali, la terapia con coumarinici viene poi aggiustata in relazione al monitoraggio dell’INR affinché esso rimanga nell’intervallo 2-3. In seguito a un recente studio di Pengo et al., tale terapia resta ancora la prima scelta in pazienti con accertata sindrome da anticorpi antifosfolipidi in particolare nei pazienti positivi per lupus anticoagulant (LAC), anticorpi anti-cardiolipina e anti- beta2 glicoproteina I (definiti tripli positivi) o coloro che hanno presentato trombosi arteriose.

La durata del trattamento anticoagulante deve essere di 3-6 mesi.

In presenza di un primo episodio di TEV dopo il periodo di trattamento è possibile sospendere la terapia in caso di evento provocato da un fattore di rischio a basso rischio di ricorrenza di TEV (< 3% annuo) come chirurgia in anestesia generale maggiore di 30 minuti, trauma con fratture, ospedalizzazione da più di 3 giorni per un evento medico acuto.

Al contrario, se presenti condizioni ad alto rischio di recidiva (> 8% annuo) come sindrome da anticorpi antifosfolipidi, TEV recidivanti o neoplasia attiva è indicato il proseguimento della terapia per la prevenzione delle recidive. Essa andrebbe attuata utilizzando i dosaggi ridotti di Apixaban (2,5mg bid) e Rivaroxaban (10mg qd) secondo i risultati degli studi AMPLIFY-EXT e EINSTEIN-CHOICE.

Un’alternativa, in caso di tromboembolismo venoso non provocato, è la sospensione del trattamento anticoagulante con dosaggio del D-dimero. Lo studio randomizzato PROLONG ha dimostrato che un D-dimero normale a un mese dalla sospensione del trattamento è associato a un basso rischio di recidiva tardiva (4.4% pazienti/anno). Lo studio PROLONG II ha poi valutato il D-dimero nel corso del tempo (ogni 2 mesi per 1 anno) e la sua relazione con le recidive tardive nei pazienti con D-dimero normale un mese dopo la sospensione della terapia anticoagulante per un primo episodio di tromboembolismo venoso non-provocato. I pazienti, in cui il D-dimero è diventato anormale al terzo mese ed è rimasto anormale, hanno mostrato un più alto rischio di recidiva (27% pazienti/anno) rispetto ai pazienti nei quali il D-dimero è rimasto normale nel terzo mese e successivamente (2.9% pazienti/anno)16-20.


Prof. Paolo Tondi, Università Cattolica del Sacro Cuore, Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli IRCCS, Roma

Per la corrispondenza: paolotondi@yahoo.it

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