Anno Accademico 2023-2024

Vol. 68, n° 3, Luglio - Settembre 2024

Settimana per la Cultura

09 aprile 2024

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Remote migrazioni umane ed evoluzione dell’immunità verso i patogeni

F. Belli

“La continua variazione della specie umana
è stata plasmata dagli incessanti spostamenti 
e dalle relazioni con gli ecosistemi”
Rita Levi Montalcini

 

“Le grandi epidemie hanno modificato
la reattività dell’ospite umano
verso gli agenti infettanti; le mutazioni
dei geni e le variazioni dei fattori dell’immunità
sovente si sono fissate nel nostro DNA
e sono state trasmesse nelle generazioni”
Luca Luigi Cavalli-Sforza

 

La dinamicità e la plasticità dei genomi, e quello umano non concede deroghe, si manifestano attraverso numerosi percorsi, ieri come oggi: ruolo e inferenza dell’evoluzione, di meccanismi endogeni, di pressioni selettive dell’ambiente e del mondo esterno in senso lato si traducono in una variegata tipologia di mutazioni geniche e conseguenze morfo-fisiologiche. Il tasso di mutazione, in ogni genoma, può cambiare anche consistentemente nel tempo e nei geni coinvolti. Le due citazioni sopra riportate12 fotografano bene alcuni dei fattori preminenti che hanno modificato, e continuano in tal senso, geni cruciali: tra le sezioni del DNA umano maggiormente soggette ad azioni mutagene di origine pleiomorfa sono senza dubbio quelle comprensive dei geni dell’immunità, in particolare quella innata. Oggi sappiamo che almeno tre determinanti hanno cambiato nel tempo, frequentemente, attori e ruoli funzionali delle difese immunitarie congenite e/o adattative soprattutto nella reattività ai microrganismi patogeni.
1. Le migrazioni umane3, dai primi ancestrali percorsi della nostra specie in Africa, continente d’origine, alla diffusione “Out of Africa”, iniziata circa 70/80.000 anni fa (ya) e poi in tutto il mondo, viaggi, mescolamenti continui di popoli e gruppi, sovrapposizioni, integrazioni o sostituzioni fra questi, scambi di idee, culture, usanze e insegnamenti, ma soprattutto geni, alcuni dei quali sono scomparsi o disattivati, altri emersi ex novo, altri ancora modificati. Dunque una intricatissima serie di eventi e percorsi umani avvenuti in epoca pre e protostorica che oggi tentiamo di ricostruire, studiando le dinamiche della genetica delle popolazioni, di cui L.L. Cavalli-Sforza fu un pioniere, mediante la storia e la distribuzione degli aplogruppi predominanti mitocondriali e il tasso di mutazione genica4. Siamo consapevoli che solo una parte delle antiche migrazioni umane e di remoti scambi genici potrà venire ricostruita: l’esempio che riporteremo in questa trattazione è emerso di recente, venendo ad arricchire un quadro che si fa sempre più intricato e imprevedibile con i nuovi particolari che siamo in grado di dimostrare5.
Più agevole è ovviamente ripercorrere le migrazioni, gli spostamenti di popoli, le mescolanze fra genti avvenute in epoca storica, con conseguenti scambi genici che hanno sovente sovvertito tratti fondamentali del DNA, anche in conseguenza della pressione selettiva esercitata dall’impatto con patogeni devastanti. L’accumulo di mutazioni nel tempo può essere ricostruito, mediante le indicazioni del cosiddetto “orologio molecolare”, in particolare negli ultimi due millenni, in cui sono avvenuti eventi epocali, tra i quali ricordiamo: le invasioni barbariche dei primi secoli dell’era cristiana, che portarono armati e in seguito intere tribù da est e nord verso l’area mediterranea; la diaspora ebraica, caratterizzante a più ondate diversi secoli dopo il dissolvimento (I secolo d.C.) del regno giudaico; i pellegrinaggi medievali, perlopiù verso Roma e Santiago di Compostela, seguiti dal 1300 dai giubilei romani, durante i quali numerosi pellegrini attraversavano l’Europa spesso fra epidemie e terre malsane (malaria!); le invasioni di tartari, ottomani e mongoli dall’Asia verso ovest, verso l’Europa, durante le quali gli eserciti precedevano tribù e genti in cerca di nuovi territori; l’età delle esplorazioni e della scoperta di nuovi continenti, che dal XVI secolo hanno completato il popolamento dell’intero pianeta; le grandi guerre del XX secolo, che hanno trasformato i conflitti da locali a internazionali e coinvolto non solo gli eserciti, ma anche le popolazioni civili costrette a fuggire, rifugiarsi e mescolarsi traumaticamente. Sono questi alcuni esempi, tra i più manifesti da un punto di vista storico, ma anche biologico-genetico, di scambi genici robusti ed ereditati nel tempo, in seguito a mescolanze fra popoli autoctoni ed “esterni”, concomitanti o successivi a eventi perlopiù drammatici.
Oggi la storia si ripete6: vecchie e nuove guerre, crisi economiche, climatiche, idriche e alimentari, epidemie, carenza di lavoro, catastrofi naturali, e altro ancora, costringono genti e popoli a migrare determinando scambi e mescolamenti genici i cui effetti osserveremo nel prossimo futuro, senz’altro più rapidamente e con maggior efficienza disponendo di mezzi tecnici un tempo impensabili. Nella Fig. 1 abbiamo riportato le principali rotte migratorie, oggi, nel mondo; i flussi dall’Asia e dal nord-Africa verso l’Europa, che tanto preoccupano cittadini e governanti del nostro continente, per numero ed entità di soggetti coinvolti occupano solo il decimo posto, superati di gran lunga dagli spostamenti di genti e intere popolazioni da centro e sud-America verso il nord e fra Asia e Africa.

 


Fig. 1. Rotte migratorie oggi.

 


2. Impatto dei patogeni sul sistema immune7, 8. Tutte le grandi epidemie, di ieri e di oggi, specie se provocate da microrganismi nuovi e sconosciuti al sistema immunitario dell’ospite, hanno impattato e impattano in modo imprevedibile con il suo genoma, tanto da modificarne, anche persistentemente, geni e risposte umorali e/o cellulari, soprattutto nell’ambito dell’immunità innata. La peste nera selezionò nuove varianti geniche, nell’immunità naturale, sia di suscettibilità che di resistenza, ancor oggi attive contro diversi patogeni. H1N1 (Spagnola) determinò un’epidemia influenzale con manifestazioni impreviste e letali provocate da antigeni mutati e sconosciuti. COVID-19 ha evidenziato nuovi aspetti immunitari e microbiologici ancora allo studio. Sono alcuni esempi che sottolineano l’importanza di indagare infezioni ed epidemie di ieri con tecniche molecolari d’avanguardia.
3. Scambio di geni fra specie differenti: destino morfofunzionale nel tempo e nelle generazioni9. Un genoma complesso come quello umano può ricevere continuamente apporti genici esogeni, anche da altre specie, sia orizzontalmente che verticalmente. Ricordiamo in passato i geni trasmessi dopo ibridazioni con altre specie di ominidi (H. neanderthalensis, denisoviani), alcuni conservatisi e funzionanti fino a oggi, molti attivi nell’ambito dell’immunità innata. Microrganismi quali batteri e virus hanno da sempre inserito singoli geni o parti del proprio DNA/RNA nel nostro genoma, soprattutto dopo un impatto continuo e pressante nel tempo come un’epidemia. Questi geni «alieni» possono avere un destino, nel tempo e nelle generazioni successive, diversificato: venire eliminati; integrarsi nel genoma dell’ospite, ora attivi, ora repressi, spesso modificando la propria funzione originaria (exaptation); fondersi con altri geni; partecipare a meccanismi funzionali come possiamo osservare anche nel campo della risposta immunitaria ai patogeni. Definiamo INTROGRESSIONE o “ibridazione introgressiva”, l'incorporazione permanente di geni di un gruppo geneticamente distinto (specie, sottospecie, popolazione, varietà) in un altro, originatasi dall'incrocio di un ibrido con uno dei gruppi parentali, geni trasmessi alle generazioni successive10.


Una remota storia di migrazioni, ibridazioni e isolamento genico ricostruita mediante l’impiego congiunto di più discipline: archeo-paleontologia, etnografia, linguistica e genetica

La vicenda che andiamo a narrare, relativa ad un’antica migrazione fra Africa ed Asia, attraverso l’Oceano Indiano, e poi oltre, sempre a est, verso il Borneo, l’Indonesia e l’Oceano Pacifico, è emersa, ed è stata ricostruita, dopo il devastante tsunami che ha sconvolto lo stesso Oceano Indiano e le nazioni afro-asiatiche affacciate su questo mare il 26 Dicembre 200411. A seguito di un violentissimo terremoto, con magnitudo 9.1, il terzo per violenza del XX secolo, con epicentro in una zona di Oceano al largo della costa nord-occidentale di Sumatra, si generò in pochissime ore un devastante ed esteso maremoto che raggiunse, a est, l’Indonesia e  l’Indocina, a nord Bangladesh e India, a ovest la costa africana dalla Somalia alla Tanzania. Oltre all’arcipelago indonesiano, furono naturalmente sconvolte anche tutte le isole che l’onda anomala incontrò nel suo percorso di distruzione: Seychelles, Maldive, Ceylon, ma soprattutto Andamane e Nicobare. Alla fine si contarono oltre 230.000 vittime, 174.000 delle quali solo in Indonesia, almeno 510.000 feriti, 22.000 dispersi, 5.000.000 di sfollati. In India le vittime furono 15.000, di cui 3.000 nelle isole Andamane (politicamente dipendenti dall’India) e 10.000 dispersi. Incalcolabili, in tutta l’area, i danni materiali, all’economia e al turismo: in un periodo di vacanze, si registrarono numerosissimi morti e dispersi fra turisti europei e americani.


Lo tsunami del 2004: conseguenze alle Andamane e Nicobare. Ci soffermiamo su queste isole, che costituiscono il cuore dell’antica storia che andremo a narrare. Come detto, si stima che il maremoto dell'Oceano Indiano abbia ucciso più di 3.000 persone tra abitanti delle isole e turisti e danneggiato la fragile economia dell’arcipelago, imperniata sulla pesca, praticata ancora con metodi tradizionali e il turismo. Vittime, feriti e dispersi sono stati nella quasi totalità turisti o abitanti locali di etnia indiana, mentre i popoli tribali (Jarawa, Grandi Andamanesi) che abitano nelle isole sono usciti pressoché indenni dallo tsunami: hanno raccontato di essersi rifugiati sulle alture lontano dalla costa non appena hanno visto il mare ritirarsi, e interpretando diversi segni della natura riguardanti il comportamento degli animali, come da conoscenze tradizionali tramandate oralmente. Tutto questo, a emergenza conclusa, ha richiamato l’interesse di numerosi etnologi, linguisti e poi anche genetisti per approfondire la conoscenza di queste antiche popolazioni.


Breve storia delle Andamane e dei suoi abitanti12. Le isole si trovano sull'antica rotta commerciale dei monsoni dell'Oceano Indiano da e per la Cina, come già documentato dal manoscritto arabo Akhbar Al-Sin wa'l-Hind, scritto nell’850 da mercanti islamici. L'arcipelago costituiva una tappa per i rifornimenti dei convogli, senza che si sviluppassero colonie stabili. Dopo diversi tentativi falliti, nel 1857 militari inglesi occuparono le isole e vi fondarono una colonia penale; insieme alle Nicobare, le Andamane furono aggregate all'India britannica nel 1858, seguendone le sorti. Gli indigeni, dapprima decimati dalle armi da fuoco britanniche, cominciarono ben presto a perire per le infezioni portate dagli occidentali (tubercolosi, vaiolo, morbillo), verso cui erano immunologicamente suscettibili. Nel 1947 i due arcipelaghi passarono politicamente all’India, divenuta indipendente, che iniziò un programma di assimilazione degli indigeni, cancellandone progressivamente cultura, religione e lingue, mediante l’imposizione dell’hindi. Le antichissime popolazioni delle isole (andamanesi) praticano ancor oggi religioni ancestrali, assimilabili all'animismo.

Diverse tribù indigene abitano le isole da migliaia di anni: gli Jarawa, popolo nomade di cacciatori-raccoglitori, che hanno iniziato ad avere contatti pacifici con gli stranieri solo da 25 anni, subendo tuttavia gravi decimazioni a causa delle malattie infettive. I Sentinelesi  che resistono a ogni contatto con il mondo esterno. Gli Onge, anch’essi decimati a seguito del contatto con l'esterno, ridotti oggi all'incirca a 100 individui. Infine, i Grandi Andamanesi, la tribù su cui la colonizzazione ha avuto l'impatto più devastante: un tempo erano suddivisi in 10 sottotribù con oltre 5.000 membri, oggi rimangono solo 56 persone13.


Studi linguistici, genetici ed etnografici sugli indigeni andamanesi. Gli eventi narrati hanno riportato alla ribalta i popoli andamanesi, da tempo dimenticati, assimilati ma non integrati con le altre etnie della regione, sterminati dalle malattie infettive, indifesi e sempre più “isolati nelle proprie isole”; pur ridotti a poche decine di individui, i loro comportamenti, usanze e lingue hanno richiamato l’attenzione di numerosi scienziati, che da 20 anni hanno ripreso lo studio di queste tribù ottenendo in breve tempo risultati assai interessanti in più discipline.



Fig. 2. La linguista indiana, Prof.sa Anvita Abbi, presenta la sua opera: “Grammatica e struttura della lingua Grande Andamano”15.


La lingua. La grande linguista Anvita Abbi, indiana, specialista in lingue delle minoranze asiatiche rare e/o in via di estinzione, insignita dei più prestigiosi premi internazionali14, ha scoperto che il “Grande Andamano Moderno” (PGA), derivato da 10 ceppi linguistici di altrettante tribù del passato, è diverso dalle lingue degli altri indigeni sopravvissuti (Jarawa, Onge, Sentinelesi). È una lingua unica come struttura da ogni altro idioma conosciuto: è stata definita «antropocentrica», usa categorie derivate dal corpo umano per descrivere concetti astratti (orientamento spaziale, rapporti tra gli oggetti), nonché forme estreme descrittive (morfemi) indicanti parti del corpo che, unite a elementi grammaticali, danno vocaboli nuovi. È una lingua arcaica, relitto di una popolazione vissuta isolata, che non ha affinità nella Regione indiana né altrove, solo parziali analogie negli idiomi di genti di origine antichissima dell’Africa australe (tribù e piccoli gruppi localizzati fra Somalia e Tanzania, sull’Oceano Indiano). La Prof.ssa Anvita Abbi è stata in grado in poco tempo di decifrare il PGA, capirne i meccanismi strutturali e scrivere grammatiche e vocabolari Andamano-Hindi e Andamano-Inglese15 (Fig. 2): solo interpretando la lingua di un popolo, si possono conoscere la sua cultura, usanze, storia e capire i comportamenti attuali, come la reazione a eventi naturali (tsunami) e i segni della natura.


Il genoma. Il passo successivo è stato lo studio del genoma dei superstiti delle antiche tribù delle isole e il raffronto con il DNA di quelle piccole popolazioni africane con cui condividono le basi strutturali dei loro antichi idiomi. Le popolazioni andamane sono rimaste isolate per migliaia di anni, durante i quali le loro lingue si sono evolute senza alcun apporto da parte di culture esterne16. Un destino sostanzialmente simile ha caratterizzato l’evoluzione genetica di queste popolazioni isolate: apporti esogeni praticamente nulli, basso tasso di mutazioni. La ricerca genetica corrobora e conferma i dati linguistici: il sequenziamento del genoma dei grandi andamani e altri indigeni delle isole mostra che queste popolazioni discendono da uno dei primi gruppi di umani moderni emigrati dall’Africa. Seguendo le linee costiere dell’Africa orientale affacciata sull’Oceano Indiano e del Subcontinente indiano, questi primi naviganti raggiunsero le Andamane 50.000 ya e da allora sono vissuti in sostanziale isolamento. I principi fondamentali delle loro lingue rivelano che concettualizzavano il mondo mediante il proprio corpo. Anche il raffronto fra genomi degli andamanesi e africani sud-orientali attuali rivela affinità interessanti, con la presenza di varianti geniche rare nell’ambito dell’immunità innata e della risposta ai patogeni. In particolare, risulta che queste popolazioni erano e sono molto suscettibili alle infezioni da patogeni intracellulari (tubercolosi, vaiolo), mentre si sono dimostrate abbastanza resistenti a COVID-19, specie alle forme più gravi17. Dati genetici, da una parte, linguistici dall’altra, con il contributo di ulteriori elementi etnografici e archeologici, concorrono a evidenziare un quadro di sostanziale identità biologica e cognitiva fra le tribù residue isolate da tempo nelle isole prossime al sub-continente indiano e genti dell’Africa australe orientale da cui si sarebbero distaccate, pur avendo radici comuni, a seguito di eventi migratori via mare iniziati circa 50.000 ya.


Ulteriori migrazioni nei mari orientali, dimostrate o ipotizzate. Nelle Fig. 3 e 4 abbiamo riportato: le principali rotte migratorie della nostra specie “Out of Africa” a partire da 100.000 ya tra Africa, Asia ed Europa, compresa quella riferita in questa memoria, dall’Africa alla regione indiana, peri-costiera (50.000 ya), fino alle isole Andamane e Nicobare (50/40.000 ya); due imbarcazioni sostanzialmente simili, di inizio ‘900, la prima ritratta sul fiume Uebi Scebeli, in Africa orientale, l’altra raccolta e portata in Italia dalle isole Andamane ed entrata nella collezione dell’etnografo ed esploratore Luigi Pigorini.

 


Fig. 3. Migrazioni di Homo sapiens “Out of Africa”, a partire da 100.000 ya, nel continente d’origine e verso Asia, Europa e Oceania; rotte dimostrate o ipotizzate18.

 




Fig. 4. Imbarcazioni a confronto. A: Fotografia di inizio ‘900 scattata sul fiume Uebi Scebeli, in Africa orientale, con indigeni somali. B: Imbarcazione donata negli stessi anni all’etnografo Luigi Pigorini dalle isole Andamane. Foto e barca sono conservati nell’omonimo museo a Roma, EUR. B, foto dell’Autore dell’articolo.

 

Ma viaggi, esplorazioni, conoscenza e conquista di nuovi territori sono sempre stati insiti nel destino dell’uomo18: ramificazioni di quelle popolazioni isolane proseguirono nel tempo il percorso verso oriente, unendosi e mescolandosi con altre genti provenienti dal sub-continente indiano e dall’Indocina, precedentemente raggiunte da altre popolazioni perlopiù attraverso rotte terrestri. Sappiamo per certo che, sempre via mare, non più solo lungo le linee di costa, ma sfidando l’Oceano aperto, in imbarcazioni che si andavano perfezionando ma rimanevano sostanzialmente fragili, raggiunsero nei millenni successivi le isole indonesiane, il Borneo, Timor, Papua-Nuova Guinea, più a sud l’Australia….e poi? Avanposti umani arrivarono in Australia 40/45.000 ya, le isole dell’Indonesia, Borneo e Papua furono raggiunte 30.000 ya, stabilmente nei millenni successivi, 20.000 ya i popoli migratori si affacciarono sull’immensità del Pacifico, una nuova sfida che fu sicuramente accettata ma di cui sappiamo poco o nulla: anche per noi, oggi, è una sfida ricostruire la colonizzazione delle isole dell’Oceano Pacifico, sparpagliate e distanti migliaia di miglia marine, la cui esplorazione e occupazione completa si è conclusa in epoca storica, pochi secoli fa. Fu sicuramente compiuta da più genti e correnti migratorie, mescolatesi geneticamente in migliaia di anni, per cui individuare tracce e marcatori genetici specifici è veramente arduo.

Tuttavia, proprio i marcatori genici delle popolazioni indigene africane e andamanesi, da poco svelati, soprattutto le varianti alleliche di suscettibilità o resistenza verso microrganismi patogeni, possono venirci in aiuto. Due sono gli scenari possibili di colonizzazione del Pacifico meridionale che sono stati delineati: il primo, detta “rotta del sud-Pacifico”, prevede la progressiva occupazione, forse dall’Australia, delle isole Chatham e Pitcairn, e poi con un balzo solo ipotizzabile, di Pasqua, fino al Cile. Nelle popolazioni autoctone di queste isole non è stato trovato alcun marcatore fra quelli di recente dimostrati fra le tribù residue dell’Africa australe, delle Andamane, del Borneo e dell’Indonesia, dunque questa via sarebbe da scartare. Più plausibile è la “rotta del nord”, in quanto le varianti alleliche di cui sopra sono state trovate, con penetranza differente da popolo a popolo, ora in tracce flebili, ora più evidenti, negli indigeni di Papua, isole Salomone, Samoa, Kiribati, isole Cook e Marchesi (Fig. 5). A questo punto è stata formulata l’ipotesi estrema: se fossero stati proprio loro a raggiungere il sud-continente americano, ove nella regione equatoriale fra Ecuador e Perù abbiamo trovato manufatti datati (mancano però conferme e controprove) >15.000 ya, prima dunque della penetrazione umana accertata del continente americano, da nord, attraverso lo stretto di Behring? Ad oggi manca la prova regina: il ritrovamento, anche in quell’area, di resti fossili umani accostabili a quei manufatti19.

 


Fig. 5. Ipotetiche rotte della migrazione.

 


Le varianti geniche osservate nelle popolazioni dell’Africa orientale, delle isole del sub-continente  indiano, del Pacifico centro-orientale20            

  1. Varianti geniche (SNPs) dei recettori per γ-IFN, TLR e altri recettori, che non sono in grado di bloccare, contrariamente alle molecole non mutate, l’ingresso nei macrofagi e cellule  dendritiche di patogeni intracellulari (micobatteri, virus, protozoi), contribuendo all’infettività e alla diffusione dei microrganismi nell’ospite.
  2. Varianti (ripetizioni, duplicazioni n-volte) di geni codificanti citochine pro-infiammatorie (IL1, IL6, TNFα, antagonisti γ-IFN), tali da suscitare un’imponente reazione infiammatoria concomitante alla malattia tubercolare, o altro, fino al quadro della “cytokine storm”.
  3. Ricordiamo lo sterminio di popolazioni indigene immunologicamente indifese a causa della tubercolosi e del vaiolo, dopo il contatto con gli occidentali.
  4. Varianti geniche rare nell’ambito dell’immunità innata (traslocazioni 2q21-2q24; 5p13-5q22; delezione 11p14), statisticamente collegate a bassa incidenza di COVID-19 e assenza di forme gravi; non sono ancora stati chiariti i percorsi immunologici che potrebbero conferire resistenza verso i coronavirus, forse con meccanismi opposti a quelli delineati nei punti 1 e 28.


Conclusioni

Il contributo di più discipline (genetica, linguistica, etnologia) permette la ricostruzione della storia evolutiva dei popoli, delle loro migrazioni antiche e più recenti, mescolanze e separazioni fra genti, usanze e costumi, cultura. Ogni dato parziale va sempre confrontato e interpretato collegialmente. Quanto presentato in questa breve memoria fa luce su un’antica migrazione che, fra i 70 e i 45.000 ya, portò genti africane anatomicamente moderne a lasciare il corno d’Africa, circumnavigare la penisola arabica e il sub-continente indiano, raggiungere isole sperdute (Andamane) e poi, in seguito, ancora verso est, sempre più verso l’ignoto. Diffusero varianti geniche nuove, lingue e costumi diversi che, nelle isole, sono rimasti confinati e avulsi da altri contesti. L’arrivo nel XIX secolo dell’ “uomo bianco” sconvolse popoli primitivi ma pacifici decretandone la quasi completa estinzione, cui contribuirono malattie, sfruttamento, imposizioni, impatto socio-culturale conflittuale. Una lezione da meditare e da cui apprendere molto, anche per l’ “uomo bianco” di oggi e per la sua capacità (o meno) di gestire il confronto con popoli e genti diverse, che vengono da lontano…


Prof. Francesco Belli, Accademico, già Dirigente Medico Microbiologia e Virologia, A.O. San Camillo-Forlanini, Roma; già Docente Immunologia C.d.L. Biotecnologie, “Sapienza” Università di Roma

Per la corrispondenza: f.belli11@virgilio.it

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